Di recente, per integrare un po’ la mia attività di corsa, ho iniziato ad andare in palestra seguendo i cosiddetti “corsi”. Ce ne sono un sacco con mille nomi assurdi (Body Combat, Circuit Training, Body Pump etc.), ci son mode che nascono e muoiono, ma il succo è che ti fan fare esercizi a tempo di musica. Io detesto fare pesi, mi son reso conto che da solo a casa non riesco a trovare il ritmo per fare esercizi, e allora vada per sgambettare in gruppo a ritmo di tunz-tunz. Tutto sommato è anche abbastanza divertente.
La palestra che ho scelto, per posizione, orari e tipo di corsi è la Mandraccio di Genova. E’ priva di una tradizionale sala con le macchine, ed è specializzata in corsi, scuola di ballo (!) e soprattutto alcuni tipi di arti marziali: alla mia prima comparsa da quelle parti, un tizio barbuto nello spogliatoio mi ha chiesto: “Tu che fai?” “Ah, io faccio i corsi nella saletta qui a fianco, sai, quelli dove ci sono un sacco di donne che sgambettano. E tu?”. Mi ha guardato con disprezzo e concluso: “Io faccio Krav Maga!”. Più di frequente, però, lo spogliatoio è pieno di bambini che “ci hanno” judo, e più raramente lotta libera.
Un giorno, dopo l’allenamento, vado a fare la doccia quand’ecco che mi rivolge la parola un giovane judoka, avrà avuto circa otto anni, in cui ho visto un Piccolo Luca un po’ più ciarliero. Nel locale docce, mi ha raccomandato di non andare nella terza doccia, perchè “è la doccia dei perdenti”. E’ un’espressione e un modo di vedere le cose che è molto tipico di me, ora e da piccolo.
In seguito, poi, nello spogliatoio, chissà perché, mi ha interrogato. Prima è partito con le barzellette. L’ho stupito sapendo rispondere correttamente all’annosa questione “Cosa fanno una Kawasaki e una Suzuki in riva al mare?” (se non lo sapete ci potete arrivare, dai), ma poi è riuscito a incastrarmi con “Perché tutti vogliono fare i calciatori di serie A?”. Ho azzardato e azzeccato l’area semantica rispondendo “Per fare un sacco di soldi”, cosa che non fa ridere, ma la risposta corretta era “Per fare soldi a pallate“. Non fa ridere manco questa, va detto, ma vedo che Sergio Paoletti ha fatto proseliti.
Successivamente però mi sono vendicato smentendo la sua maestra. “La maestra mi ha detto che Bibbia deriva dal latino Biblios che vuol dire libro“. Ho risposto:”Quasi: non dal latino, ma dal greco.” “Ma la maestra…” “…si è sbagliata.”. Questo l’ha un po’ messo in crisi, ma si è ripreso tornando all’attacco: “Questa la sbagli di sicuro. Quanto fa un mezzo per un mezzo?” Senza la minima esitazione sfoggio la mia cultura matematica a livello universitario: “Un quarto”. “…! Bravissimo! Tutti sbagliano e dicono uno!”. Mentre era barcollante per il colpo, ho contrattaccato: “E quanto fa un mezzo diviso un mezzo?” “?!? Un mezzo diviso un mezzo…” “Pensaci: quanto fa un numero qualsiasi diviso se stesso? Due diviso due, tre diviso tre, sei diviso sei?” “Uno! Fa uno!” e ha anche aggiunto “E’ vero: se immaginiamo la tabellina di ‘un mezzo’ e usiamo il metodo per dividere tramite le tabelline, la risposta è evidente!”. Stava gongolando e ancora riflettendo sulla sua scoperta, e ho meditato se era il caso di introdurlo alle meraviglie della divisione per zero, ma erano le otto, avevo fame, e me ne sono andato mentre continuava a parlare. Chissà, più volte ho pensato che il mio vero, grande talento sia quello di insegnante. Beh, pazienza. La prossima vita, magari.
Perché le mutande riforzate, quelle da mettersi contro gli attacchi degli omosessuali (quei peccatori debosciati sono sempre in agguato! Qualcuno faccia qualcosa!) o, metaforicamente, per ripararsi dalle avversità, devono proprio essere di ghisa e non di ferro, bronzo, rame, alluminio, ottone o acciaio? Pur ammettendo che la ghisa è la più buffa tra i metalli e le leghe sopra citate, perché proprio questa per far le mutande?
Da quando c’è Dr. Manhattan, che è un professionista della nostalgia/analisi degli anni ’80, le mie peregrinazioni sui ricordi di quel periodo sembrano molto dilettantesche, superficiali e mal documentate. Tuttavia, visto che sono un dilettante (nessuno mi paga!) mi dico “acciderba, chissene” e oggi vorrei parlare dei Ming. Ma chi diamine sono i Ming? Questi (rubo l’immagine a un altro bel blog di vecchi fumetti):
Suona qualche campanello? No? Riniziamo da capo. Stiamo parlando dei fumetti italiani di Braccio di Ferro, editi lustri fa dalla Bianconi, i quali, ben lontani dalla poesia e dal candore di Segar, sono stupidini, ripetitivi, raramente con un guizzo. A parte la pseudo-famiglia estesa di Braccio di Ferro (Nonno Trinchetto, Pisellino, Olivia, includiamoci anche Poldo) e i nemici di base (Timoteo, la Strega Bacheca), negli albi del marinaio forzuto spicca qualche comprimario ricorrente. Tra i buoni possiamo ricordare il Gigante Grissino, che vive su un’isola poco lontano dalla città innominata di Braccio di Ferro, e tra i cattivi i Ming.
I Ming sono una popolazione di nanetti tutti uguali, con gli occhi più o meno a mandorla, pettinati col ciuffo. Essi prendono ordini da un re che è uguale a tutti gli altri con la differenza che ha un mantello e una corona di quelle con le punte: non è difficile riconoscere un razzismo neanche tanto implicito nei confronti degli orientali e dei cinesi (“Ming”) in particolare. Erano altri tempi.
Per qualche strana ragione c’è una storia con Ming che mi è rimasta impressa: quella volta che i Ming giocavano a calcio ed erano una squadra normale nel primo tempo e fortissima nel secondo tempo. Ma come fanno, come non fanno, sono dei nanetti, sono anche musi gialli e i musi gialli mica giocano bene a calcio. Braccio di Ferro scopre che, sfruttando il fatto che sono tutti uguali, dopo l’intervallo entra una squadra completamente nuova, e risolve la situazione riempendo di botte quei malnati sgorbi. La morale è che i cinesi sono malvagi e quindi è giusto picchiarli: le virtù educative dei fumetti di una volta sono preclare.
I più affezionati lettori del mio blog ricorderanno che c’è una puntata perduta di Holly e Benji con lo stesso tema. Scegliete voi una delle possibilità:
1) Yoichi Takahashi, autore di Holly e Benji, ha copiato da Braccio di Ferro.
2) Braccio di Ferro ha copiato da Yoichi Takahashi
3) E’ un caso.
4) E’ un topos molto comune.
5) Quelle puntate di Holly e Benji non esistono, imbecille, le hai inventate tu in questo blog di cacca e per di più in un caso hai pure copiato da una pessima storia di Braccio di Ferro, e non contento di questa tua impresa hai addirittura scritto un post sulla roba che hai scopiazzato. Ma quanto sei scemo?!?
Prevedo una discussione avvincente!
Alassio, 1989
E’ un gran giorno, oggi. Il quattorquindicenne Luca andrà in televisione. E non una televisione qualsiasi, ma addirittura Tele Tril, Tele Radio Indipendente Ligure: Tele perché è una televisione, Radio perché trasmette attraverso le onde radio, Indipendente perché non è la Rai, Ligure perché la sede è in Liguria, nelle alture dietro Ceriale. A casa mia c’è ricezione per Tele Tril; si tratta di uno di quei canali privati che mi hanno allietato l’infanzia trasmettendo caterve di cartoni animati giapponesi intervallati da un sacco di pubblicità di Aiazzone e Rotowash. Tra parentesi, un applauso alla lungimiranza dei programmatori della pubblicità che durante i cartoni animati bombardavano i bambini con mobili e attrezzi per la pulizia. Sono serio: trent’anni dopo, quando ho dovuto scegliere i mobili per casa mia, non ho potuto fare a meno di passare da Aiazzone ed esitare un attimo, nonostante fossero mobili orrendi. E tuttora desidero verificare se Rotowash fa proprio quello che dice.
Ma torniamo a Luca in televisione. Non si trattava, come avrebbe dovuto essere, di un programma dedicato proprio a me, ma di una trasmissione collettiva: avevano invitato l’intera Scuola Tennis di Alassio, di cui ero membro, nell’ambito di un ciclo relativo allo sport per ragazzi nella provincia di Savona. Ci portarono negli studi, e rimasi colpito da quanto fossero piccoli e spogli: una telecamera, qualche gradinata per il pubblico, due sedie e un tavolo. Ma come! La tv è così?!? Io non aprii bocca, un untuoso presentatore intervistò a lungo il maestro Mario P., sosia di Phil Collins, nonché, più brevemente, qualcuno dei giovani tennisti più dotati, tra le cui fila io non militavo, ahimé. Il maestro, anche durante queste interviste, faceva lo spiritoso da fuori campo.
Tuttavia, venni nominato: tutti i membri del Tennis Club furono inquadrati e il loro nome pronunciato ad alta voce. E quello fu il mio primo momento di celebrità televisiva. Ne ebbi un secondo: mentre il maestro pontificava, la telecamera ogni tanto vagava sui giovani atleti, e io fui inquadrato una seconda volta. Siccome dalla mia postazione potevo sbirciare il monitor, seppi che ero in onda, alzai la manina e salutai. Il cameraman si staccò dalla sua macchina, alzò lo sguardo e mi fissò come per dire “Ma sei scemo?!?”. Ok, non lo faccio più. E infatti da allora non ho mai più salutato quando inquadrato dalla telecamera.
A metà anni ’80, nelle mie estati sassellesi, all’ora di pranzo si consumava il dramma di cosa guardare in tv. A quei tempi “mamma TV” in estate offriva davvero poco: qualche vecchio telefilm poliziesco tipo Cannon, repliche polverose e qualche programma di intrattenimento girato in economia. Anche peggio della Fleccer! L’ipotesi di spengere la TV non era nemmeno presa in considerazione. Ogni famiglia è fatta a modo suo.
A casa Ventimiglia si era optato (cioè, il nonno aveva optato) per una trasmissione di varietà su Rai1 il cui titolo non è stato tramandato, ma che era condotto da Gegia insieme a un anonimo altro tizio. Vi ricordate chi è Gegia? E’ una tizia che ha fatto la presentatrice televisiva e l’attrice: forse il film più noto in cui ha lavorato è Lo chiamavano Bulldozer con Bud Spencer. E’ uno di quei personaggi misteriosi che non si capisce perché siano lì, in quanto non sono né particolarmente bravi, né belli, né divertenti. Gegia, in particolare, faceva un po’ la meridionale chiassosa e di buon cuore, una sorta di parente di Marisa Laurito. Boh, probabilmente fa appello a un certo tipo di pubblico di cui non faccio parte.
Un giorno, nel programma di Gegia accadde un piccolo dramma, durante una sessione di telefonate dal pubblico. A quei tempi si era un po’ kamikaze con le telefonate: non c’erano filtri, e si chiamava come si chiama un numero normale, e chi prende la linea la prende. Forse vi tornerà in mente che Enrica Bonaccorti era stata fanculizzata in diretta a “Pronto chi gioca?” a causa di questo meccanismo. Nella trasmissione in questione, un signore molto arrabbiato telefonò e disse (citazione pressochè letterale): “Invece di fare tutto ‘sto casino, perché non fate qualcosa per noi italiani che abbiamo un sacco di problemi?”. Ricordo lo sguardo scazzatissimo e smarrito di Gegia come se dicesse “non mi pagano abbastanza per questo!”. Mia nonna disse: “Ahia!”. Quand’ecco che l’anonimo compare di Gegia risolse l’impasse dicendo “Ma ora c’è il nuovo governo, che sicuramente risolverà tutti i problemi!”. Il signore al telefono ne convenne e bofonchiò qualcosa come “Sì, è vero” e Gegia iniziò ad applaudire dicendo “Evviva il governo nuovo!”. Mia nonna scosse la testa e commentò: “Si è fatto infinocchiare”. Aveva ragione.
Quindi, quando vi ho detto che Gegia ha salvato l’Italia, ho mentito. Non solo non ha combinato alcunché per tutti noi, ma non è stata manco capace di sbrogliarsela da sola. Ma se avete dei problemi non preoccupatevi, è in arrivo il nuovo governo che risolverà tutto!
Oggi si parla di Candy Candy, e ne facciamo spoiler. Se non avete mai visto tutta la serie e, per qualche strana ragione, avete intenzione di farlo in futuro, andate altrove. Pussate via.
Candy Candy ha la fama di essere una serie ad alto tasso di mortalità, in cui, quasi la bionda rompiballe fosse una specie di Fleccèr, i personaggi rischiano la pelle solo per essere lì. In realtà non è proprio così, il bilancio finale della serie è di due morti e un mutilato: uno dei due defunti, come noto, è Anthony Andrews, caduto da cavallo, e quando succede tutti stappano la sciampagna e festeggiano la prematura dipartita di quella mezzasega coltivatore di rose. Il secondo, invece, colpisce di più, perché si tratta di uno dei personaggi di alleggerimento comico della serie, cioè Alistear Andrews, detto Stear.
Stear è presentato per tutta la serie come una specie di inventore pazzariello, le cui invenzioni non funzionano e portano a gag di raro umorismo, tipo lui che viene inseguito da un’automobile che prima non partiva. Risate! Vabbè, è una soap opera per ragazzine, non pretendiamo Woody Allen. E’ comunque un personaggio positivo, che non manca di dare il suo affetto e il suo supporto alla nostra protagonista. Visto il tipo di personaggio e il ruolo che ricopre, sorprende molto che, verso la fine della serie, decida di arruolarsi per combattere nella Prima Guerra Mondiale, per dare il suo comtributo allo sforzo bellico. E’ pur sempre un membro di una famiglia ricca, quasi nobile, quindi non lo mandano nel fango delle trincee ma a pilotare un aereo.
Eppure muore, ed ecco come: Star è in un duello aereo con un nemico, e a un certo punto si trova in una posizione di vantaggio rispetto al suo avversario, e può abbatterlo. Eppure, quando lo sta per colpire, guarda negli occhi il suo nemico, e si rende conto che non è altro che un uomo come lui, ed esita. Quell’altro, imbracciata l’artiglieria, non gli ricambia la cortesia. E il carillon che aveva regalato alla sua fidanzata in quel momento si ferma.
Ok, non voglio dire che De André abbia copiato da Yumiko Igarashi, autrice di Candy Candy, né tantomeno il contrario; sarebbe idiota anche solo pensare una cosa simile! Tuttavia, mi piace osservare come in due opere così diverse (non c’è nulla in comune tra la produzione di De André e Candy Candy!) un messaggio simile traspaia, a testimonianza della sua universalità. Riassumendo, non fate la guerra.