Ho un ricordo abbastanza vivo delle feste che si tenevano alle elementari. Mi pareva che ce ne fossero tante, ma ho scoperto solo in seguito che in realtà mi invitavano ad una piccola parte di esse dato che, da bambino, pare che io stessi sui marroni un po’ a tutti. Avranno avuto le loro buone ragioni.
Uno degli episodi più fenomenali è avvenuto alla festa di Alessandro M.. il quale si era messo alla porta e controllava che tutti gli invitati portassero un regalo. Chi non portava il regalo, non era ammesso alla festa. Non ho mai capito se Alessandro fosse particolarmente avanti e avesse già capito come funziona questo cinico mondo, oppure se fosse semplicemente un po’ tardo e non capisse i principi basilari dell’educazione.
Un altro meraviglioso episodio in una festa, che ha segnato anni e anni della mia vita, è avvenuto quando, un pochino più grandicelli, alla festa di Cristina P., si tenne il seguente dialogo.
Cesare R: Io so cosa vuol dire scopare!
Tutti gli altri: Sì, certo, significa strisciare la scopa sul pavimento per raccogliere polvere, briciole o altri residui che non si desidera rimangano lì
Cesare R: No, significa mettere il cazzo dentro la figa (scusate il francese NdR)
Tutti gli altri (a cui sfuggiva il vantaggio di un’operazione così astrusa ma che non volevano apparire minchioni): Oooooh!
(momento di silenzio)
Enrico C: E voi sapete cosa vuol dire "pettinare"?
Tout le monde (che non osava più azzardare previsioni. Forse era mettere il ginocchio nell’ascella?): (silenzio)
Enrico C: Lo stesso di scopare!
Ho passato quindi anni e anni della mia esistenza a credere che le espressioni "scopare" e "pettinare" fossero sostanzialmente intercambiabili. Tuttora mi chiedo da dove Enrico C. abbia tirato fuori quell’idea: una mia ipotesi è che avesse orecchiato l’espressione petting e l’avesse "normalizzata" in pettinare.
Ovvero, il remake americano de Il tempo delle mele, denominato The Party. In Italia, che non capiamo niente, l’abbiamo rinominato "Hollywood Party" invece di qualcosa di più sensato tipo "Il tempo delle fragole". Gli stupidi yankee, come al solito, stravolgono la trama e l’ambientano nel 1968 a Hollywood, ricreando anche uno stile cinematografico dell’epoca.
La deliziosa Vic diventa un indiano d’India (che abita dalle party
di Bombay), un certo Hrundi Bakshi, molto pasticcione, i cui antagonisti, invece di essere i genitori che non ricordano più che significhi essere tredicenni, sono produttori e registi che non vogliono farlo lavorare. Il film purtroppo si perde quasi subito: dopo un’inizio drammatico in cui i cattivi compagni di festa del buon Bakshi tendono ad ignorarlo, iniziano una serie di gag che se fossero volontarie sarebbero da scompisciarsi, ma sappiamo tutti che è impossibile tenere un ritmo comico così elevato mantenendo l’unità di luogo e senza far succedere praticamente niente. Bisognerebbe essere dei geni sia come regia che
come interpretazione. Ci saranno poi i soliti criticoni che vorranno per forza vedere le metafore sull’immigrazione e la partecipazione alla festa america, ma che noia!
Per fortuna il film si riprende sul finale,
quando Vic, pardon, Bakshi trova l’amore, che non è il bel Jean-Luc coi baffetti da tredicenne ma un’analoga francesina, senza baffetti per fortuna.
I giuochi da cortile dei bambini sono sempre stati una mia piccola fissazione. Mi è sempre piaciuto confrontarli con altre persone, soprattutto se provenienti da regioni d’Italia differenti dalla mia, e ho rilevato molte differenze, sia come giuochi in sé che come denominazioni che come sfumature delle regole. Ad esempio, quello che io chiamavo L’orologio di Milano fa tic-tac è molto più noto come "Un due tre stella". Suppongo in effetti che a Milano faccia un po’ ridere parlare dell’orologio di Milano. Quale? Ce ne sono così tanti! Milan l’è un gran Milan!
Potrei poi citare giochi come <i>Fulmine, Rialzo, Strega Comanda Colore, Palla Bufalo, La Settimana</i> e tanti altri, ma molti di voi non saprebbero di che parlo o li conoscerebbero con altro nome o con regole leggermente differenti. Magari un’altra volta ne parlerò, se mi capiterà di non avere idee!
L’aspetto che accomuna i giochi è però il fatto che siano fondamentalmente mirati a divertirsi. Non è così ovvio: tutti questi giochi possono essere facilmente aggirati piegando le regole (ovviamente molto generiche) alle proprie necessità. E non si pensi che i bambini non ci arrivassero: semplicemente loro sapevano che lo scopo del gioco era il divertimento, non la vittoria. Altrimenti non sarebbero lì. Voglio dire, sapendo che la sporcellosissima Ambarabacicicocò ha 46 sillabe, non è complicato calcolare subito a chi tocca stare sotto!
Mi è venuta in mente questa considerazione (apparentemente ovvia, ma, per quanto mi riguarda, un piccolo Pinguino nel Salotto) una sera in cui, in una festa popolata da ingegneri, li vidi giocare a Jenga , il gioco in cui bisogna togliere un pezzo dalla base di una costruzione di mattoncini di legno e riporlo in cima ad essa. Ebbene, mi fece molta tristezza vedere come essi si applicassero nel trovare azioni che andassero a loro vantaggio1 e che non fossero esplicitamente vietate nelle regole, tradendo così lo spirito del gioco…e divertendosi assai di meno.
1a volte le affinità tra ingegnieri e avvocati mi sorprendono