Ci fu un momento, nella mia infanzia, che decisi che lavare i piatti era assai divertente. Avevo circa otto anni, e non ricordo come scoprii questa fonte di spasso, tantopiù che in casa mia c’è sempre stata la macchina lavapiatti; quindi il lavaggio manuale avveniva sporadicamente, magari soltanto per i piatti della colazione o per qualcosa di occasionalmente lasciato fuori da una macchinata. E nemmeno ricordo cosa trovassi di così ricreativo in quest’incombenza: forse l’odore del sapone, l’idea di pulizia che vi è associata, la sensazione tattile dei piatti, il collegamento col mondo del cibo. In effetti ci sono un sacco di ragioni per cui lavare i piatti è fonte di spasso, a ben pensarci.
Un giorno infausto era presente a casa mia la Nuccia, la mamma di una compagna di classe di mia sorella. A un certo punto mia mamma proclamò che c’era da lavare i piatti (ripensandoci, poteva essere un modo per far capire a quella signora che era ora di sloggiare!) e io mi intromisi: “Posso darti una mano?”. La Nuccia disse con un tocco di sarcasmo “Com’è volonteroso!”, al che mia mamma le rispose “No, lui si diverte!”, tipica conversazione su un bambino fatta come se lui non fosse presente. Comunque sia, iniziai a lavare i piatti bello gaio, ma a un certo punto avvenne il fattaccio. Nell’acqua del lavello incappai in un pezzo di pane infradiciato: non so perché, ma la cosa mi schifò al punto che mi tolse tutto il gusto di lavare i piatti, allora e per sempre. Che ci volete fare, ero un bimbo sensibile e volubile.
Ed è quindi per colpa di quel tozzo di pane se non mi si è aperta una brillante carriera come lavapiatti. Un’altra porta che mi si è chiusa per colpa del destino avverso.