Ecco un’altra storia in cui io sono il malvagio della situazione. Tenetevi forte.
C’è stato un periodo, quando avevo circa 12-13 anni, che avevo preso l’abitudine di andare al cinema da solo la domenica pomeriggio ad Alassio. Allora, come d’altronde adesso, non vivevo la cosa come un fallimento sociale, semplicemente avevo voglia di vedere un film e andavo al cinema, tutto lì.
In queste mie sessioni, che erano diventate una sorta di rito, mi portavo sempre qualcosa da sgranocchiare: patatine, caramelle, o qualcosa di simile; un giorno, andai a vedere un film il cui titolo ho rimosso (poteva essere magari I tre Amigos o Beverly Hills Cop 2, ma non ci giurerei) al cinema Colombo e acquistai al bar lì vicino, sorprendentemente chiamato Bar Colombo, una confezione di Voglia Matta. Le Voglia Matta, ora generalmente dimenticate, erano un prodotto della Perugina e consistevano in una specie di piccoli cioccolatini in una scatoletta di cartone, nella misura di una ventina per confezione. La pubblicità recitava, sull’aria di Cuore Matto di Little Tony: “La voglia matta, matta da legare, con cinque gusti non sai più che cosa fare” perché, come i più astuti avranno intuito, c’erano cinque declinazioni di Voglia Matta. Questa vertiginosa varietà di scelta cagionò la mia malvagità. Tenetevi ancora più forte. Infatti, iniziato il film, aprii la scatola, presi la prima Voglia Matta e l’addentai; tuttavia, appena morsa la prima prelibata pralina ebbi una brutta sorpresa: avevo commesso un imperdonabile errore e avevo acquistato l’unico gusto di Voglia Matta che proprio non mi piaceva, quella che sotto una scorza di cioccolato nascondeva una ciliegina candita. A me le ciliegine candite fanno cagare, infatti schifo anche i Mon Cheri. Immaginate lo shock: addenti qualcosa che pensi che ti piaccia un pacco e ti ritrovi con qualcosa di inaspettato! Come addentare un croissant e trovarci dentro del ragù al posto della marmellata!
La prima Voglia Matta la ingollai senza masticare ulteriormente, e poi, sconcertato, fui di fronte al dilemma: che fare? Il film sarebbe stato meno godibile senza la pappatoria, e comunque avevo pagato qualcosa tipo 1000 lire per i dolcetti, che non potevano andare sprecati. Ebbi quindi una diabolica illuminazione: in fondo, il cioccolato fuori è buono, almeno quello è mangiabile. Presi allora le Voglia Matta una per una, le succhiai amorosamente gustando ogni stilla di cioccolato…e poi…ehm, approfittando del buio della sala e del fatto che esa fosse semivuota, silenziosamente sputai le orride ciliegie candite sotto il sedile. In questo modo riuscii ad ottimizzare le risorse a mia disposizione, godendo di un po’ di cioccolato anche se non proprio delle Voglia Matta che speravo di avere, e il tutto al piccolo prezzo di un po’ di karma negativo e qualche centinaio di bestemmie di chi avrebbe dovuto fare le pulizie. In fondo il mondo è semplice.
Capita a tutti di fare un gesto soprappensiero e poi di non ricordarsi le circostanze in cui è stato fatto. Nasce quindi il dubbio dell’effettivo compimento di tale gesto; la conseguenza è il comunissimo dubbio del tipo “Avrò chiuso il gas? Avrò spento il forno? Avrò tolto la chiave dalla toppa?”: più l’azione è comune e quotidiana e più è facile essere distratti durante lo svolgimento. Inutile dire che, nella quasi totalità dei casi, il gas è stato effettivamente chiuso, il forno spento e la chiave tolta dalla toppa. Sta poi all’ansietà e al livello di paranoia di ogni singola persona stabilire quanto e come preoccuparsi.
Io, in generale, tendo a essere abbastanza sciolto da questo punto di vista. In questo esatto momento, ad esempio, non ricordo se ho spento il tostapane dove abbrustolisco il pane per la colazione, ma non ho ragione di dubitarne. Eppure, a volte, il dubbio è talmente forte che non riesco a fare a meno di sincerarmene, salvo poi inveire contro me stesso perché ovviamente il gas era chiuso, il forno spento e la chiave tolta dalla toppa. Eppure, qualche settimana fa, ho dovuto arrendermi ai dubbi, e per di più in circostanze piuttosto avverse. Come sa chi mi conosce, io abito nel centro storico di Genova, in Stradone Sant’Agostino, al quinto piano di una palazzina storica, quindi senza ascensore. E’ una zona, come si potrà intuire, in cui è difficilissimo parcheggiare vicino l’automobile. Una sera piovosa, parcheggiai piuttosto lontano (più o meno in piazza Carignano) e mi avviai a casa. Arrivato quasi in cima alle scale mi sorse il pensiero: “Avrò chiuso la macchina?”. Per qualche ragione incomprensibile, il dubbio era davvero pressante e non riuscii a resistere. Sospirai, inveii contro me stesso, ma fui costretto ad andare; ridiscesi le scale e inforcai sotto la pioggia la salita che portava alla mia macchina, che ero certo avrei trovato chiusa. Ovviamente… era aperta!
Lieto fine, dunque? Una volta tanto la paranoia è servita a qualcosa? Per niente! Da allora in poi, questi dubbi ansiogeni per me hanno una giustificazione in più, perché so che a volte effettivamente il gas è rimasto aperto, il forno acceso e la serratura nella toppa. E ora che ci penso… avrò davvero spento il tostapane stamattina?
Ispirato dal freddo culo di questi giorni, non posso non ricordare il Natale 1986, quando zia Mavi mi regalò un piumotto invernale. Cioè, in effetti posso non ricordarlo, ma così l’inizio dell’articolo, legandosi all’attualità, è più incisivo. Vabbé, niente, voi non mi date soddisfazione. Riniziamo.
In occasione del Natale 1986 zia Mavi mi regalò un piumotto invernale, una giacca imbottita da sci. Io, ancorché dodicenne, speravo in qualcosa di più divertente di un capo di vestiario, ma vabbé, mi accontentai. Sapevo quel si dice della dentatura degli equini, ma quello che ancora non sapevo è che quel dono mi avrebbe salvato le chiappe durante il terribile periodo dei Paninari.
Una premessa: nel 1986, non solo vivevo in un paese di provincia, dove le mode arrivavano in ritardo, ma soprattutto a casa mia non c’era ricezione per Italia 1. La mancanza di questa rete giovanilistica e, in particolare, del Drive In, aveva come conseguenza che ignoravo il fatto che l’esecrabile movimento fosse in atto. Che ci volete fare, mi divertivo di più a giocare coi Lego.
Avrete comunque probabilmente già indovinato che quel famoso giumbotto era un Monclair. Di ritorno dalle vacanze di natale, indossando quel caldo giaccone, notai che la gente mi fissava. Ciò che la gente mormorava, in sostanza, era”Ma perché quel babbo di minchia di Ventimiglia ha un Monclair?”. Più di una persona espresse il dubbio che quel Monclair fosse finto, cioè che fosse un normale giaccone sul quale avevo appiccicato lo stemma col galletto. I più scafati, però, sapevano che per sgamare i tarocchi bisogna osservare le zip, che portavano parimenti lo stemma: e quelle non mentivano, il mio era un Monclair vero! Così, nella scuola media Margherita Morteo Ollandini eravamo in due ad avere un Monclair: io, col mio affare color grigio topo, e un Vero Paninaro, che ne aveva uno arancione sgargiante e lo indossava senza maniche come i Galli Di Dio Che Cuccano Le Sfitinzie. Non possedetti mai null’altro di simile, nemmeno una cintura El Charro o un jeans firmato, ma in qualche modo passai quel periodo in qualche modo immune. Beh, forse sarebbe stato lo stesso anche senza, ma è meno divertente pensarlo.
Oggi, in occasione del ritorno da un’ottima Lucca Comics, parliamo dei cosplayer, cioè di coloro che alle fiere di fumetti si travestono da personaggi dei fumetti e dei cartoni. Per anni ho detestato il cosplay, Sapete, c’è una corrente, tra gli appassionati di comics, che sostiene che i cosplayer siano malvagi perché sporcano l’integrità culturale del fumetto. Secondo questo partito, vestirsi come “gli eroi del fumetto” contribuisce a fare in modo che quel mezzo di espressione venga ancora considerato un intrattenimento infantile e un po’ ridicolo. Una corrente minoritaria, inoltre, asserisce che tutti i cosplayer puzzino, senza eccezioni (davvero!).
C’è della verità in tutto questo (a parte la storia della puzza, vabbè, quella è diffusa solo tra coloro che si vestono da personaggi impellicciati), ma col passare degli anni la mia posizione è diventata molto più morbida: trovo il cosplay un gioco divertente che si sposa benissimo all’atmosfera della fiere di fumetto, per non parlare del fatto che permette di vedere belle ragazze in vestiti discinti. Io non lo farei mai, ma non ho ragioni serie per non tollerare questo tipo di attività; fa più male al mondo del fumetto mettersi in coda per farsi firmare la fotocopia dai disegnatori Bonelli.
Tuttavia, mi mandano in bestia quelli che prendono questo gioco troppo sul serio, e non c’è nessuno che lo faccia in modo peggiore degli Imbecilli di Star Wars. Si tratta di un gruppo di fessi che, in base a qualche gerarchia che sanno solo loro, si vestono da personaggi di Guerre Stellari, comprando costumi commerciali. I più sfigati si vestono da Storm Troopers, altri da ufficiali, i più “ganzi” fanno Darth Vader o l’Imperatore. Questi poveri ritardati si calano talmente nel loro ruolo che, passando per le affollatissime strade di Lucca, si fanno largo minacciando la gente “Largo! Passa l’Imperatore, toglietevi!”. Io, da rompipalle che sono, mi son messo in mezzo e ho detto a muso duro a un “ufficiale”: “E se non mi tolgo che succede?”. Il mentecatto è rimasto talmente sconvolto dall’incontro con uno che non ha rispetto per l’Imperatore che ha borbottato qualcosa e se ne è andato. Bravo, Luca.
Giusto per non dire che ce l’ho coi fan di quella orrenda esalogia dal nome di Star Wars, per la prima volta nella mia carriera mi son fatto fare una foto con un cosplayer. Signori, ecco qua me insieme ad Ale Katsura, chitarriere dei Bishoonen, alle prese col miglior cosplay di Darth Vader che abbia mai visto. E’ questo lo spirito che mi piace, e saluto quel bambino.
Un grazie a OperationOne per la foto.
Un giorno, quando avrò avuto sette o otto anni, comprai un sacchetto di patatine da Petronio, uno dei due bar della zona di Alassio dove bazzicavo, dalle parti del negozio di mia nonna. La scelta di andare da Petronio o da Bombelli (l’altro bar) per fare merenda era sempre lancinante, ma in questo caso era stata facile. Infatti da petronio avevo scorto una confezione di patatine sulla quale uno strillone strillava “Grande sorpresa dentro!”, curiosamente senza fare riferimento a un brand particolare: le patatine, ora come allora, si vendevano perché c’era una sorpresa dell’Ape Magà o di Orzowei o di Platini, non per una generica sorpresa. Questo fatto, curiosamente, aveva avuto l’effetto opposto e mi aveva attirato maggiormente: il dono sarebbe stato doppiamente inaspettato! Acquistai il pacchetto con una banconota da 500 lire (*), e me andai felice col mio balocco. Aprii quindi le patatine e, perbacco!, non scorsi la sopresa. Da bimbo ottimista che ero, immaginai che fosse nascosta sotto il prelibato snack. Crunch crunch, divorai tutto il pacchetto, e della sorpresa nessuna traccia. Ero stato truffato. Mi avevano promesso una sorpresa e una sopresa non avevo ottenuto. Da allora, diffido di chi vuole farmi regali, ma mi piacciono ancora le patatine.
(*) In realtà non ricordo questo dettaglio, ma è ganzo ricordare che a quei tempi c’erano le banconote da 500 lire.
(Non è ammirevole quanto sono riuscito a tirarla in lungo a raccontare che una volta non ho trovato la sorpresa nelle patatine?)
Genova, come noto, è la Città dalle Centomila Motorette, ivi compresa la mia. Tra i motorettisti, vista la numerosità, non ci sono solo ragazzetti con la marmitta scureggiona che fanno le penne imitando Valentino Rossi, ma si trova di tutto: impiegati in cravatta, mamme che portano i figlioletti a scuola, pensionati, casalinghe, signore distinte. La conseguenza di questa a-distinzione è che alcuni comuni comportamenti “criminosi” degli automobilisti vengono traslati sui motorettisti, poiché sono le stesse persone: ad esempio, è abbastanza comune vedere gente che parla al cellulare mentre guida… col cellulare incastrato tra casco e orecchio! Ieri sera, però, ne ho vista una nuova: una donna, avrà avuto circa la mia età, stava scrivendo un sms mentre guidava la motoretta. Andando piano, per carità (e quindi intralciando il traffico), ma senza avere il buon gusto di fermarsi. In casi simili, io penso sempre: “Ohè, Cesira, con questa le ho viste tutte! C’è un tizio lì fuori che si imbratta le mani con gli escrementi di vacca!”, citando a sproposito una delle più memorabili strisce di Lupo Alberto. Poi è passata una farfalla, mi sono distratto e ho dimenticato tutto questo.
Stamane, mentre venivo al lavoro, è accaduta la stessa cosa. Sempre una donna, un po’ più vecchia della precedente, ha deciso che la motoretta in movimento è un ottimo posto dove scrivere un messaggino. Ho scosso la testa, ho inveito e poi ho pensato: “Ma in fondo, a me che cazzo me ne frega?” e son tornato a sorridere.
Nota finale: la coincidenza di assistere allo stesso evento inusuali due volte in un breve arco di tempo era stata trattata in uno dei miei primissimi articoli (ri-leggetevelo, è interessante), e l’avevo battezzata bievento. Questo nome non mi ha mai soddisfatto in pieno: qualcuno ha suggerimenti per un termine più efficace? Tipo qualcosa in greco?
Nota dopo la nota finale: ehi, oggi è il quarto Pinguicompleanno! Fatemi un mucchio di regali, oppure datemi dei soldi così mi compro io quello che più mi piace.