Se gli sguardi potessero uccidere, io sarei morto il 15 ottobre 1993.
Il giorno precedente a questa fatidica data Paolo Mantovani, storico presidente della Sampdoria, lasciò questo mondo. De mortuis nihil nisi bonum, questo lo so bene, ma quel giorno il bombardamento su quanto quel signore fosse un Grande Uomo e avesse compiuto Grandi Opere era insopportabile, soprattutto a Genova, che spesso si dimostra una città molto provinciale. Intendiamoci, io non ho mai conosciuto personalmente Paolo Mantovani e poteva benissimo essere una bravissima persona; però era un personaggio pubblico coinvolto nel mondo del calcio, mondo che ora come allora mi fa ribrezzo, e in quanto tale non era una persona che poteva essermi simpatica. Quindi, dopo mezza giornata che il mio amico Dr. Deejay mi bombardava sulle virtù di Mantovani, di fronte all’edicola alle fine di Viale Benedetto XV sono sbottato in un perentorio”Mantovani era un buffone!”. Un signore che passava di lì si volto di scatto, esclamo “Ehp!” e la sua espressione, sulle prime di pura sorpresa, si mutò rapidamente in un ghigno di profondo odio. Saggiamente, fischiettai e mi allontanai prima di essere linciato.
Da questa esperienza ho imparato tre cose:
a) Fischiettare la canzone dei Puffi è un salvacondotto senza pari.
b) L’edicola al fondo di Viale Benedetto XV a Genova è un posto pericoloso.
c) Mantovani era un buffone.
La prima automobile che ho guidato regolarmente era una Fiat 126bis color verde vomitino pallido. Non sono mai stato particolarmente affezionato a quel mezzo, poiché, nonostante l’indubbio fascino retrò, la facilità di parcheggio e il tocco di classe di metterci l’autoradio, era davvero molto poco affidabile (ho perso il conto delle volte che mi ha lasciato a piedi!) e anche un po’ pericolosa, vista la qualità della tenuta di strada e dei freni e la solidità della carrozzeria. E poi con una 126 mica si rimorchia tanto.
Una sera, nell’inverno 1993-1994, dovevo andare a vedere un concerto a Imperia con un amico (che poi sarebbe diventato mio nemico, ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta). Ci incontrammo, ci salutammo, decidemmo di andare con la mia macchina e, mentre lui andava a parcheggiare il suo mezzo, mi avviai verso la mia. Feci per aprire la portiere e…perpicchio pimpernacolo! La chiave non gira! Provo più volte, ma niente da fare. Mi rassegno al fatto che la serratura è rotta. Pazienza, ci penserò domani, per stasera faccio il giro dall’altra portiera e cerco di aprire. Niente da fare: dev’essersi rotta la chiave, non la serratura.
Ho però ancora una freccia al mio arco. La 126, ovviamente, non ha la chiusura centralizzata, quindi è possibile che il bagagliaio sia aperto. Verifico: bingo! Eh, sì: siamo nella sonnolenta provincia, sono altri tempi e io sono anche un pigrissimo distrattone che non chiude mai di dietro. A fatica mi introduco nel vano bagagli e con ancora più stento riesco a trascinarmi fino a davanti. E poi qualcuno, forse mio padre, ha avuto la brillante idea di mettere dei rami d’albero nel bagagliaio. Je possino, ma che gli salta in mente? Mi sistemo sul sedile anteriore, infilo la chiave di accensione e…non gira! Mentre sto per prorompere in una sonora invettiva contro il Creatore noto un dettaglio: un gagliardetto dell’Inter che scende dallo specchietto. Con un’enorme gocciolone di sudore sulla nuca sposto lo sguardo in avanti e vedo, un paio di posti più avanti, la mia macchina parcheggiata, senza che alcun giovane rincoglionito cerchi di scassinarla solo perché dello stesso modello e colore del proprio mezzo. Silenziosamente, ritornai nel bagagliaio, scusandomi mentalmente con il mio incolpevole papà e i suoi rami nel bagagliaio e fischettando andai a prendere la mia trappoletta.
Il concerto di quella sera fu mediocre, tanto che non ricordo manco chi suonasse. Potevo anche starmene a casa ed evitare tutto ‘sto casino. Diamine!
Dalle Alpi venne giù,
e nel traffico che intasa
egli pose la sua casa.
Ora non se ne va più.
Sul margine del mio libro di storia di quarta liceo campeggiano questi versi, composti da me in un momento di sconforto (e, probabilmente, di noia durante una lezione). Sono dedicati al compagno di classe GM, trasferitosi dal Piemonte quell’anno.
Nei cartoni animati giapponesi uno degli artifizi narrativi più diffusi è lo “studente trasferito che scombina le carte in tavola, e in qualche modo funge da motore per cambiare in meglio l’esistenza dei suoi nuovi compagni”. Purtroppo di solito la vita reale non è come negli anime (o qualcuno di voi guida un robottone?), e la mia non è stata resa migliore da GM. Per inquadrare il tipo, si sappia che di GM si narra che:
- egli, appena arrivato, abbia chieso nell’arco di due giorni di uscire a tutte le ragazze della classe, partendo dalle più gnocche (che gli han detto picche) e passando poi alle meno carine (che gli han detto picche, in quanto, giustamente, si sono sentite considerate merce di ripiego). Questa storia è testimoniata da me in prima persona.
- egli, come tutti i diciottenni, abbia fatto scuola guida e che come tanti ci abbia messo un po’ ad imparare. Però solo lui mi risulta che abbia creato un ingorgo pauroso che ha paralizzato la città di Albenga (questo è il significato del secondo verso della poesia). Questa storia non l’ho vissuta in prima persona ma mi è stata riferita da più fonti indipendenti.
- egli abbia dichiarato di aver suonato coi Pink Floyd durante il famigerato concerto di Venezia (sic). Pare che sostenga che il batterista si fosse fatto male e che i Pink Floyd abbiano chiesto “Chi vuole suonare con noi?” e che lui si sia offerto: “Io!”. E’ una scena che sogna qualunque adolescente che suoni uno strumento, ma nessuno sano di mente cerca di spacciarlo per realmente accaduto. Questa storia mi pare talmente assurda che tendo a considerarla come una leggenda, ma più di una persona asserisce di averlo sentito raccontare questo aneddoto.
- egli abbia dichiarato di aver scritto gran parte delle canzoni di Battisti e Vasco Rossi. Come sopra.
- egli abbia partecipato alla Ruota della Fortuna, vincendo anche qualcosa e facendo qualche sorta di figura di cacchina con Mike Bongiorno. Questa è vera, mi pare di ricordare di aver visto un filmato.
- egli sia stato scorto, durante un meteo di un telegiornale la mattina presto, mentre armeggiava con un computer sullo sfondo. Riferita da una sola fonte, ma affidabile.
- egli sia stato soprannominato Coltello nel convitto universitario in cui ha vissuto, grazie al suo talento per farlo a fette a tutti. Assolutamente vero.
- egli sia finito a Paperissima perché caduto dal seggiolino della batteria mentre suonava. Non molto divertente, in effetti, ma Paperissima non lo è. Non visto personalmente, ma ci credo.
Rileggendo la lista non posso fare a meno di provare a prendere le difese di GM, e di pensare che magari era solo un ragazzo un po’ strano e che la crudeltà delle malelingue di un paese di provincia abbia fatto il resto. Oppure, che col passare del tempo si tenda a ricordare solo certi aspetti delle persone e che durante le serate estive dedicate ai semplicissimi “Mi ricordo” si finisca solo per rievocare gli aneddoti più curiosi. Cioè, che in sostanza GM sia assurto a livello di mito, e che il vero GM abbia poco a che vedere col GM che ricordiamo.
Eppure io, allora come adesso, sono una persona estremamente tollerante e coll raro pregio di non giudicare mai le persone (sì, è il lato del mio carattere che preferisco). Quella poesiola è testimone del fatto che, dal vivo, trovavo quel povero signore davvero pesantissimo. La morale della storia è che GM può essere una leggenda, ma le leggende hanno sempre un fondo di verità. E che pescator che va in savana, magro bottino fa.
Non so se nel 2008 alle elementari facciano ancora usare le penne stilografiche. Ai miei tempi erano obbligatorie, ma per fortuna, per correggere gli errori esistevano le cosiddette cancelline. Una cancellina era una specie di penna, solitamente di plastica gialla, utilizzabile da entrambe le estremità: il lato bianco permetteva di cancellare utilizzando, a naso, una specie di alcool, mentre il lato blu permetteva di riscrivere sulla superficie cancellata (il normale inchiostro, dopo l’applicazione del lato bianco, sbavava). La maestra era furiosamente contraria alle cancelline, probabilmente in parte per una repulsione per le novità e in parte perché, giustamente, la loro presenza riduceva la soglia di attenzione (“tanto poi correggo…”); per non farcele usare, in pieno spirito mostra e dimostra, ci mostrò un quaderno vecchio di qualche anno su cui era stata usata una cancellina per dimostrare come il tempo fosse impietoso con questi strumenti del demonio. In effetti è vero, dopo qualche anno (i miei quaderni delle elementari lo confermano) l’inchiostro cancellato in qualche modo torna visibile, ma cosa volete che freghi a dei bambini di sette anni di quel che succederà anni dopo?
Le cancelline esistevano di due marche: le Superpirate e le Supersheriff. Sic. Si può sapere che diavolo di logica c’era dietro questi nomi? D’accordo, pirati e sceriffi, miti dell’infanzia. Trascuriamo il fatto che negli anni ’80 erano miti già obsoleti…ma ve lo vedete Long John Silver o John Wayne che correggono un testocon una cancellina? “Corpo di mille barili/pistole, cuore non si scrive con la q! Per fortuna posso correggere!”
(Nota: Google pare ignorare le parole Superpirate e Supersheriff. Era ora che qualcuno riportasse alla luce questi informazioni troppo a lungo trascurate!!)
Casa mia ad Alassio, per la prima volta da decenni, è rimasta senza gatti. Mi pare giusto cogliere l’occasione per ricordare in questa sede i felini che hanno abitato in quella casa. Preparate i fazzoletti, sono quasi tutte storie tristi.
Minnie e Felicia: i primi gatti domestici arrivati dalle nostre parti (prima c’erano stati alcuni gatti selvatici a cui davamo da mangiare) erano una coppia di gatte, probabilmente sorelle, particolarmente tenere e carine. Non sono durate moltissimo, una di loro due, mi pare Felicia, è stata investita da una macchina di fronte a me in un freddo giorno invernale del 1983 (causandomi, come potete immaginare, uno shock non indifferente). Casa mia ha un ampio giardino, e gli animali lo sfruttano abbondantemente; il lato negativo è che possono arrivare anche alla strada, dove purtroppo, come si vedrà, finiranno quasi tutti i gatti. Minnie invece è scomparsa nel nulla.
Mimò: Mimò probabilmente è il gatto a cui sono stato più affezionato. Arrivato da noi come cucciolo, si riteneva che fosse una femmina (coi gattini capita!) ed era stato battezzato Mimì. Una volta scoperta la verità, si era pensato di lasciarlo col suo nome, adatto anche ai maschi (“Mimì metallurgico ferito nell’onore”), ma alla fine è prevalso il partito della maschilizzazione in Mimò. Mimò era piuttosto piccolo di taglia, quindi nella stagione degli amori finiva sempre riempito di botte dai gatti concorrenti; era di color bianco e nero, quindi veniva quasi spontaneo pensare a Silvestro. Comunque, dopo che una volta è tornato davvero tanto malconcio, dopo che il veterinario l’ha rattoppato abbiamo deciso di zac!, e Mimò non è stato più Mimò per intero. Mimò, come la grande maggioranza dei miei gatti, è morto sotto una macchina nell’estate 1991, quando io e mia sorella eravamo a Sassello. Ci è stato millantato che era scomparso, e solo l’anno scorso mia mamma ha deciso che eravamo abbastanza grandi per sapere la verità.
Adelina: i miei lettori più fedeli sanno che io avevo una zia chiamata Adelina. Quando ci siamo trovati di fronte questa gatta bianca e abbiam dovuto battezzarla, ci è parso che il nome della zia fosse perfetto per lei. Abbiamo telefonato ad Adelina (la zia, non la gatta), per sapere se si sarebbe offesa, ma il nome era quello, e pochi nomi sono stati più azzeccati. Adelina infatti è sempre stata una gatta vecchia, anche da giovane; si muoveva come un’anziana signora, mangiava sempre e solo bocconcini secchi, era aggraziata ed educata, non brillava per scaltrezza e dava affetto solo quando voleva. Adelina è vissuta molto a lungo, e, indovinate un po’, è morta sotto una macchina, quando probabilmente era ormai troppo rincoglionita per attraversare la strada. Ho trovato io il corpicino della gatta (facevo l’università, al tempo), e non ho avuto cuore di seppellirlo: è una cosa di cui mi pento e vergogno, ma l’ho messa in un sacco e l’ho buttata nella spazzatura.
ChoCho: beh, non poteva andarci bene proprio con tutti i felini. ChoCho è stata probabilmente la gatta più longeva che abbia frequentato Casa Ventimiglia, e sicuramente la più antipatica. Alcuni gatti sono affettuosi, altri di meno, ma ChoCho, anche se ogni tanto veniva in braccio a fare le fusa, era calcolatrice, furba e approfittatrice. Tanto furba che probabilmente è stata l’unica bestia a sopravvivere alla strada, e si è spenta di vecchiaia in giardino, dopo un giorno di agonia. Nonostante la sua antipatia, ci è dispiaciuto lo stesso.
Mimina: Mimina era la gatta di mia nonna Luisa nel senso più totale. La seguiva dappertutto, e quando lei si allontanava per un po’ di tempo (magari per andare in vacanza), al suo ritorno la trovava offesa. Era inoltre tanto affettuosa con mia nonna quanto poteva essere scontrosa e addirittura aggressiva nei confronti di altri. Mia nonna è mancata nel 2001, e Mimina è venuta a vivere in campagna da noi. Ha avuto un po’ difficoltà ad abituarsi al nuovo ambiente, e soprattutto alla mancanza della sua padrona, ma poi ha iniziato a dispensare affetto un po’ sussiegoso anche ai suoi nuovi ospiti. Non per molto purtroppo: la solita strada se l’è portata via dopo pochi mesi. E’ stato quando se n’è andata Mimina che mia nonna ci ha lasciato completamente.
Jaeger: un’altra meteora, Jeager è forse il gatto che ha lasciato il ricordo migliore. Anche se fu voluto fortemente da mia sorella, Jaeger è diventato subito il gatto di mio padre. Il babbo non ha mai amato particolarmente i gatti, ma quando lui e Jaeger si son incontrati, si son fissati un momento e son diventati subito amici. Il fulvo Jaeger (“cacciatore” in tedesco) era un perfetto esempio di “nomen omen”; tra i vari gatti qui citati, solo Adelina ogni tanto prendeva qualche topo, mentre Jaeger era una vera macchina da caccia: topi, lucertole, gechi, enormi falene, uccelli, nulla sfuggiva ai suoi artigli. Ed era anche un gatto affettuosissimo, tanto che portava sempre il frutto della sua cacciagione in casa per far vedere quanto era stato bravo. Jaeger un giorno è scomparso, e dopo una settimana mia sorella ha addirittura affisso manifesti nel vicinato per capire se fosse da qualche parte. Un signore ci ha detto di averlo trovato al bordo della strada, investito da una macchina.
Ghost/Betordo: Betordo, detto Betty, era il gatto di mia nonna Amelia, e probabilmente è stato il gatto più sfortunato del lotto. La nonna aveva voluto un gatto, ma non fu mai soddisfatta di Betordo; diceva che era un fifone antipatico, e in effetti quando andavamo a trovarla si rifugiava in cima agli armadi. Come è successo per Mimina, quando mia nonna ci ha lasciato ci siamo presi Betty. Il giorno dopo, questo gatto era già scomparso. Diversi giorni dopo, mia mamma aprì la mia camera da letto di bambino, ormai inutilizzata, e ne spuntò fuori un gatto quasi impazzito dalla sete e dalla paura. Gli strani rumori che si sentivano in casa nei giorni precedenti erano i tentativi di Betordo di uscire dalla sua prigione: oltre il danno, la beffa, la povera bestiola è stata ribattezzata Ghost. Per i primi tempi Ghost si è fatto vedere solo per mangiare, ma col tempo ha preso confidenza ed è diventato domestico, riuscendo un gatto un po’ sospettoso ma nel complesso di buona compagnia. Poi, è arrivato Quick, il mio attuale cane, che si è conquistato tutto il territorio. Ghost, terrorizzato, ha iniziato a vivere in giardino, nelle zone non raggiungibili da Quick, e pian piano si è rinselvatichito, tornando solo per mangiare, sempre con due occhi spalancati dallo spavento, e anzi, a volte approfittando dell’ospitalità del vicinato per star lontano da casa più giorni. Poche settimane fa, Ghost non si è più fatto vedere. O è stato adottato definitivamente da una casa senza cani, o non è più tra noi. In ogni caso, spero che questo povero gatto ora sia finalmente in pace.
Durante il periodo universitario sono andato pochissimo al cinema. In quei cinque anni dal 1993 al 1998 credo di aver visto meno di dieci film in sala, probabilmente solo i seguenti: Star Wars (riedizione del 1997), Il Ciclone, Independence Day, Ed Wood, Street Fighter II (sic), Mi sdoppio in quattro, e Sud, il film di Gabriele Salvatores. Sì, per gran parte film di merda.
L’ultimo film citato, Sud, è stato il primo a cui ho assistito in città, in un cinema che (che tempi, che more) è stato poi trasformato in sala Bingo, e lo vidi coi miei coinquilini del primo anno di università, il già citato Simone e l’inedito Salvatore. Verso tre quarti del film, la proiezione ebbe quello che pareva un incidente, e il quadro si spostò verso il basso, lasciando quindi visibile solo la parte superiore della pellicola. La cosa durò per qualche minuto, durante il quale il pubblico rumoreggiò. Mi rivolsi allora a Simone e gli sussurrai: “Certo che potrebbero fare qualcosa per risolvere il problema!” e lui mi sibilò: “Ma che problema! E’ un effetto voluto…tu non conosci il cinema di Salvatores!”. In effetti non conoscevo il cinema di Salvatores (era il primo film che vedevo di questo regista) e incassai la risposta. Poco dopo, la proiezione tornò normale.
Negli anni successivi ho visto altri film di Salvatores. Non tutti, ma parecchi, e comunque abbastanza per capire che il suo stile è privo di certi sperimentalismi (soprattutto se un po’ aridi, come sarebbe stato in questo caso), ma non ho più rivisto Sud e quindi non ho mai saputo per certo se Simone avesse ragione o meno. Cribbio.