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Pierino colpisce ancora: un’analisi semiseria

Mi piace il cinema di genere italiano d’annata, quello che viene anche chiamato “cult” o “trash”. Non sono solo ragioni sentimentali, è che trovo che i film prodotti nel decennio dal 1974 al 1984 circa abbiano in media una dignità e un mestiere che sono rari nel cinema italiano odierno. Attori incapaci come Stefano Accorsi, per dire, non avrebbero trovato posto in un poliziottesco di Umberto Lenzi o una commediaccia con Edwige Fenech.

Pierino colpisce ancora, datato 1982, è uno degli ultimi film di questa gloriosa stagione. Intepretato da Alvaro Vitali per la regia di Mariano Girolami, presenta un soggetto ridotto all’osso che è apparentemente una sequenza di gag, tanto che è stato definito come “film barzelletta”. Infatti, molte delle scene che compongono l’opera sono a me note come barzellette: non so dire se lo fossero anche in precedenza o se in seguito siano assurte a questa dignità, ma a questo punto non è molto rilevante.

Questa struttura pare una negazione del cinema, la cui essenza, al di là degli sperimentalismi, è di raccontare una storia. E se la storia è riassumibile in “Pierino combina guai, Pierino viene spedito in collegio, Pierino torna e combina altri guai”, c’è da essere perplessi sulla dignità di film per produzioni del genere. In realtà si tratta di un giudizio affrettato e superficiale: osservando con attenzione, si possono notare diversi elementi a dir poco interessanti.

 

Ad esempio, esaminiamo il rapporto di Pierino con la scuola. L’istruzione non fa per Pierino, ma non è tutta colpa sua. Agli esami gli vengono rivolte domande oggettivamente stupide. Le sue risposte sono in alcuni casi di insofferenza sarcastica di fronte al più gretto nozionismo:
-Quando è morto Alessandro Manzoni?
– Alessandro Manzoni è morto? Poverino, non sapevo manco che stesse male!
In altri casi le risposte sono formalmente corrette ma tese a sbeffeggiare il professore e le sue domande insensate:
– Fammi una frase col verbo Scorrere.
– Scorre Giava nel suo letto.
In altre circostanze, infine, abbiamo risposte che denotano quella facoltà rara e preziosa nota come intelligenza laterale:
– Se ho nei pantaloni in una tasca centomila lire e nell’altra diecimila lire, che cos’ho?
– Ho i pantaloni di un altro.
E di fronte ad una maestra tanto demente da chiedere ai suoi ragazzi di portare in classe un oggetto che ricordi una
canzone, chiunque con un QI superiore a quello di Forrest Gump non può fare altro che deriderla, portando ad esempio una sega a rappresentare”Solitudine”.

In sostanza, la percezione che si ha è che la scuola sia inadeguata a confrontarsi con un’intelligenza vivace e anomala come quella di Pierino, e che sappia reagire solo nel peggiore dei modi: bocciando il ragazzo. Che risorse preziose sprecate!

 

Ma il rapporto di Pierino con la società non si limita alla scuola in sensostretto. Egli è il figlio di un oste romano (intepretato dal grande EnzoLiberti), e come tale non è ricco. In collegio viene a contatto con una brancadella società che raramente mette piede nei quartieri in cui abitava a Roma, palesemente proletari. Il personaggio di Oronzo, il cui nome è scelto per uno scopo ben chiaro, è simbolo di questa disparità. Oronzo, lo studente perfettino e di evidente estrazione alto-borghese se non aristocratica, è antipatico, studia sempre, servile nei confronti della maestra e del preside, afferma di sapere tutto e osa persino sfidare Pierino sul suo terreno, quello dell’arguzia.
Ovviamente perde, e allora ricorre alla violenza: lo sfida ad un incontro di pugilato. Certo, dice “Non è una volgare rissa da strada, ma la nobile arte della boxe”, ma è una chiara mistificazione: la sfida sul ring rappresenta per lui esattamente quello che per Pierino è una scazzottata in strada. La scena dell’incontro di pugilato è il climax del film: la contrapposizione tra Pierino (“So’ gagliardo e so’ carino”) e Oronzo (“Mi sa tanto che sei stronzo”) è una grandiosa metafora della lotta di classe. Non rovinerò la sorpresa svelandovi come va a finire.

 

La famiglia di Pierino, nello specifico il rapporto col padre, è un ulteriore tema interessante. Egli appare disperato per avere un figlio del genere, ma a tratti si intuisce che gli vuole molto bene, e che è solo preoccupato per il suo futuro. Ne è testimonianza il fatto che lo manda in collegio, luogo dove spera, secondo il luogo comune che una volta imperava, che “gli avrebbero insegnato a rigar dritto”. Accompagnato il figliolo a Grosseto in quella prigione per bimbi, al momento di congedarsi assistiamo a questo dialogo:

– Pieri’, hanno voluto un sacco de soldi!
– A papà, fatteli rida’ che ce ne annamo!
– No, non famo scherzi, tu devi studia’. E’ meglio che me ne vado che me sto a commuovere.

Osservate la sovrapposizione, nel padre, della sua sensibilità proletaria al denaro con l’amore per il figlio, con la nozione
dell’importanza della cultura e con la preoccupazione per ciò che lo attende. L’eccessiva attenzione di questo genitore nei confronti di cameriere e belle sconosciute è evidente indice di scarsa felicità coniugale; il suo lavoro non gli dà evidentemente grandi soddisfazioni, la figlia maggiore è sposata e quindi Pierino è tutto quello che gli rimane. La separazione è più dolorosa per lui che per il figliolo.

Ma tutti questi temi sarebbero pallosi se non fossero supportati da scene come la lezione sulle scorregge di Pierino (Alfonso, Pasquale e Roberto Bracco), da Pierino e la carne di elefante, da Pierino che recita l’Iliade. Questa è classe.

Lenzuola firmate

Io non parlo molto bene. Il Signore Iddio da questo punto di vista non è stato generoso (e anche da altri, i miei detrattori aggiungeranno): non solo sono piuttosto balbuziente, ma pronuncio male sia sia la "elle" che la "erre", tanto che quando devo dire la via in cui abito, "Aleramo", mi ritrovo spesso a dover fare lo spelling (Ancona Livorno Empoli Roma Ancona Modena Otranto, che cazzo!).
Ciononostante, mi piacerebbe indagare il processo attraverso il quale lo standista della Coconino Press a Lucca Comics 2004 abbia trasformato il mio cognome "Ventimiglia", che pur non essendo comunissimo è sensato, in uno pseudo-fiammingo Van Zella. Beh, tutto sommato suona bene, pare il risultato di un’avventura di un bagnino di Rimini con un’olandese in vacanza.
Il mio cognome serviva a quel signore per farmi dedicare il volume Blankets di Craig Thompson. Gliel’ho lasciato e sono tornato dopo un po’, scoprendo che nel biglietto che indicava che il volume è mio era stato redatto quell’errore (quell’orrore!), ma che fortunatamente mister Thompson ha avuto il buon senso di dedicarlo solo al mio nome. Fico. E’ il primo fumetto che ho dedicato a me: ne ho altri firmati, ma raccattati più o meno casualmente. Aprendo un volume di Cerebus trovato in offerta l’ho scoperto con l’autografo di Dave Sim (ok, lo fa con tutte le copie della prima edizione, non è così raro).

Blankets di Craig Thompson è un fumetto del genere autobiografico minimalista che è abbastanza di moda nella scena underground statunitense e canadese. Seth, Chester Brown, Howard Cruse, a modo suo anche una semi-celebrità come Daniel Clowes si dedicano a raccontare gli affari loro, e persino autori mainstream come De Matteis non disdegnano puntatine. Tutto sommato non è difficile capire il perché: parlando di se stessi è semplice esternare sensazioni che si conoscono bene, piuttosto che crearle dal nulla in personaggi inventati; inevitabilmente, quindi, le emozioni parranno molto vere. Ovviamente, vedendo la cosa da un altro punto di vista, c’è l’imbarazzo di divulgare le proprie esperienze. Molti autori si limitano a ricordi passati, sfumati e in qualche modo censurati, ma c’è chi, come Chester Brown, usa quasi violenza contro se stesso nel narrare gli episodi più imbarazzanti e inconfessabili. Dev’esserci qualcosa di terapeutico, in questo processo.

Il monumentale Blankets, quasi 600 pagine, è piuttosto moderato da questo punto di vista. Parla di argomenti difficili come la perdita della fede, il primo amore vissuto un po’ in ipocrisia, un rapporto coi genitori costellato di mancanza di comunicazione, ma tutto con gentilezza, con partecipazione ma senza affanno. La narrazione si muove tra il Craig bambino e i suoi rapporti col fratello e i genitori, e il Craig adolescente che conosce l’amore con Raina e vede il proprio mondo andare a pezzi.
Le lenzuola di cui si parla sono sia quelle dei letti sia le lenzuola di neve che coprono il nord degli Stati Uniti in cui è ambientata la vicenda: questi due luoghi, il letto caldo e rassicurante, e la neve nel suo gelido silenzio, fanno da cornice a gran parte degli avventimenti importanti della storia. Tutto il resto appare quasi sfuocato, quasi un contorno apparentemente irrilevante. Ma sarà proprio quel contorno a fare la differenza…
Il tratto di Thompson è ugualmente gentile, quasi timido: un bianco e nero molto sfumato con tecniche apparentemente simili al carboncino segna personaggi molto espressivi e sfondi appena abbozzati (intanto gli esterni sono quasi tutti nella neve!), con rare e violente deviazioni nell’espressionismo più tipico dell’underground americano (tipo Robert Crumb, per intenderci) quando i sentimenti o gli avvenimenti si fanno più forti.

Blankets, di Craig Thompson, Coconino Press, 590 pagine in b/n 17×24, brossurato con sovraccoperta, 29 euro.

La boum americaine

Ovvero, il remake americano de Il tempo delle mele, denominato The Party. In Italia, che non capiamo niente, l’abbiamo rinominato "Hollywood Party" invece di qualcosa di più sensato tipo "Il tempo delle fragole". Gli stupidi yankee, come al solito, stravolgono la trama e l’ambientano nel 1968 a Hollywood, ricreando anche uno stile cinematografico dell’epoca.
La deliziosa Vic diventa un indiano d’India (che abita dalle party
di Bombay), un certo Hrundi Bakshi, molto pasticcione, i cui antagonisti, invece di essere i genitori che non ricordano più che significhi essere tredicenni, sono produttori e registi che non vogliono farlo lavorare. Il film purtroppo si perde quasi subito: dopo un’inizio drammatico in cui i cattivi compagni di festa del buon Bakshi tendono ad ignorarlo, iniziano una serie di gag che se fossero volontarie sarebbero da scompisciarsi, ma sappiamo tutti che è impossibile tenere un ritmo comico così elevato mantenendo l’unità di luogo e senza far succedere praticamente niente. Bisognerebbe essere dei geni sia come regia che
come interpretazione. Ci saranno poi i soliti criticoni che vorranno per forza vedere le metafore sull’immigrazione e la partecipazione alla festa america, ma che noia!
Per fortuna il film si riprende sul finale,
quando Vic, pardon, Bakshi trova l’amore, che non è il bel Jean-Luc coi baffetti da tredicenne ma un’analoga francesina, senza baffetti per fortuna.

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