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Annecy 2005 parte prima: di cosa stiamo parlando?

La Savoia è quella regione che, insieme a Nizza, è stata ceduta alla Francia durante le guerre di indipendenza. Una volta era in qualche modo italiana (tanto che la nostra "famiglia reale" ne prende il nome), ma nel secolo abbondante che è passato da allora è scomparsa ogni traccia di cultura italica; ogni volta che mi reco ad Annecy, in Alta Savoia, per vedere il festival di cinema di animazione, mi chiedo se un tale splendore sarebbe possibile in Italia. Probabilmente no, quindi bravo Vittorio Emanuele II che l’ha ceduta a Napoleone III.

Annecy è una bella cittadina a 500 metri di altezza sulle rive di un lago, con le montagne che la dominano, un centro storico caratteristico delizioso, un castello medioevale di bella fattura ed è la capitale mondiale del cinema di animazione. Infatti, ogni anno, durante la prima settimana di giugno, qui si svolge il Festival International du Film d’Animation (FIFA), che è un’esperienza meravigliosa.

Prima di dilungarmi su com’è stato Annecy 2005, terrò una breve descrizione di come è strutturato il FIFA di Annecy. Che sia la prima e l’ultima volta, dall’anno prossimo solo reportage diretti!

Il festival è costituito da un concorso di cortometraggi, lungometraggi, produzioni televisive, film per internet e film su commissione, più vari programmi speciali fuori concorso.
I cortometraggi formano il piatto forte della manifestazione. Si tratta di opere che raramente si vedono al di fuori del circuitIl Bonlieu, centro del Festivalo dei festival, ma che racchiudono grande creatività e capacità tecniche. Il cortometraggio animato è una forma di espressione indipendente dalle altre forme di animazione: se il cortometraggio dal vivo in genere non è altro che una "prova generale" delle capacità di un regista che poi si cimenterà coi lungometraggi, quello di animazione solo raramente forgia talenti che andranno a fare altro, e inoltre permette sperimentazioni che non possono funzionare in altre forme di espressione. Ad esempio, l’animazione astratta (o non narrativa, in generale) non può reggere più di dieci minuti, né tantomeno tecniche astruse come l’animazione della sabbia o degli schermi di spilli o dei quadri ad olio (sic!). Pertanto, geni riconosciuti tra i critici e gli appassionati come Norman McLaren, Alexandre Alexeieff, Bill Plympton, Jan Svankmajer sono pressoché ignoti al grande pubblico. Piccola grande eccezione è forse Bruno Bozzetto, ben noto dalle nostre parti (magari più grazie a Piero Angela che al resto!) e grande appassionato del campo.
Cinque programmi sono dedicati ai cortometraggi in concorso più altri quattro ai film de fin d’études (detti "film di scuola"), sorta di tesi di laurea delle scuole di animazione. Fuori concorso, inoltre, sono proiettati tre-quattro programmi di Panorama, i primi scartati delle selezioni o corti che per qualche altra ragione non hanno partecipato al concorso ma che sono ritenuti degni di essere visti.

I lungometraggi in genere sono produzioni minori di nazioni emergenti oppure lavori alternativi. Disney, Dreamwork, Pixar o giapponesi non portano i loro lunghi in concorso, magari anche per non rischiare: a volte quindi si trova qualcosa di interessante, ma nella maggior parte dei casi sono produzioni di scarso valore. Ogni anno mi riprometto di evitarli il più possibile e poi finisco per vederli quasi tutti. Uff. Il numero di film in concorso è in genere cinque.

La sezione dedicata alla televisione, similmente, è una sorta di vetrina di produzioni di nazioni minori in questo campo. Per dire, non ho mai visto nessuna produzione giapponese maggiore, mentre gli americani mandano qualcosina qua e là: non i Simpson, ma è comparso qualcosa di Cartoon Network o della Nickelodeon. La maggior parte dei lavori presentati sono dunque serie e speciali televisivi europei, canadesi o asiatici non giapponesi: nonostante questo, spesso si trovano molte idee e meno appiattimento delle produzioni maggiori, ma anche budget più bassi e non raramente anche porcate immonde. Quattro o cinque programmi sono dedicati alla tv, di solito separati per target: prescolare, bambini, adulti. Di questi i più interessanti sono quelli per adulti, ovviamente, e i prescolari, quasi sempre tenererissimi. Le produzioni per bambini sono in genere più noiose.

Il lago di AnnecyInfine ci sono i concorsi minori, ad ognuno dei quali è dedicato un singolo programma. I corti per internet sono animazioni (in genere fatte in flash) che si trovano in giro per la rete, mentre i film su commissione (films de commande) sono spot pubblicitari, video musicali o, in misura minore, altre varianti di opere fatte su richiesta di qualcuno. In entrambi i casi si tratta di cosine piccole, con a tratti qualche buona idea ma in generale prive di spessore.

Al di là del concorso, esistono parecchie altre proiezioni, alcune di esse consuete di anno in anno e altre che variano. Una serie di programmi costante è la retrospettiva dedicata ad una nazione: quest’anno era il Canada, nel 2004 la Corea, nel 2003 l’Australia. A seconda della ricchezza culturale della nazione in questione vengono proposti più o meno programmi: per il Canada c’erano la bellezza di 12 programmi, essendo (anche se pochi lo sanno) la nazione più all’avanguarda per l’animazione di qualità, mentre per Australia e Corea erano rispettivamente cinque e sette. Altro programma costante è "Il grande sonno", dedicato agli ahimé scomparsi animatori durante l’anno.
E poi, al di là di questo, ci sono programmi sparsi: cortometraggi, anteprime, retrospettive. Per quanto riguarda i cortometraggi, quest’anno c’erano due programmi dedicati ai corti Politically Incorrect, uno sul Brasile, uno sull’Olocausto e uno sull’animazione indipendente newyorchese. Negli anni passati si son visti inserti, tra l’altro, su Charlie Bowers, sull’animazione erotica, su animazione e musica, sui titoli dei film.
Per le anteprime, se i francesi hanno qualcosa da presentare, lo fanno ad Annecy: quest’anno nulla, l’anno scorso il mediocre La profezia delle ranocchie, due anni fa il fetido Les enfants de la plouie e l’ottimo Les triplettes de Belleville. Quasi sempre viene portato un giapponese che poi sarà distribuito al cinema: Appleseed nel 2005, Ghost in the shell 2 nel 2004, Kiki’s Delivery Service e Patlabor XIII nel 2003, e ogni tanto arriva qualche altra novità: quest’anno c’era Madagascar, ad esempio.
La città vecchia di Annecy
Assistere al festival è faticoso: ci sono sei proiezioni al giorno, dalla prima delle 10:30 di mattina all’ultima delle 23, ed è normale farne quattro o cinque, sei nei casi particolari. Di solito non c’è tempo nemmeno per mangiare decentemente, e si finisce per ricorrere a panini, kebab, crepes da asporto e simili. Ovviamente nessuno ti obbliga ad assistere a tante proiezioni, c’è chi se la prende più con calma. Io, che vado lì apposta in vacanza, ci tengo a vedere più roba possibile, anche se alla fine è piuttosto stancante. Non è una vacanza riposante, nel complesso. Dico sottovoce, però, che è diritto riconosciuto di tutti ronfare durante le opere più noiose. Anzi, nello spettacolo delle 14 è quasi la norma individuare nel catalogo qualcosa da 10-20′ potenzialmente noioso, guardarne i primi minuti e poi lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo. Gli applausi (educatamente immancabili alla fine di ogni proiezione, anche la più fetente) poi fanno da sveglia.

L’organizzazione è più che buona, tra l’altro. Proiezioni in sostanziale orario (ma nel 2005 di meno che negli anni precedenti), accrediti funzionanti, cataloghi dettagliati gratuiti e borsa in omaggio per chiunque abbia un accredito, file ordinate mai troppo lunghe, qualità di proiezione impeccabile e, soprattutto, sostanziale bilinguismo anglo-francese, cosa veramente rara in terre d’Oltralpe e che è apprezzatissima dal pubblico internazionale. Se un’opera è in francese, ha i sottotitoli in inglese e viceversa. Per le altre lingue, sottotitoli in una delle due lingue, con leggera prevalenza dell’inglese.

Quello però che non si può descrivere è l’atmosfera del festival, di come si respiri passione per l’argomento e di come una cittadina francese si trasformi per accogliere appassionati di animazione da tutto il mondo. Bisogna andarci, per capire. Accennerò infine facendo finta che sia un argomento secondario al fatto che le giovani animatrici presenti sono tante e tutte belle.

(Next: cosa c’era di bello e di brutto in breve)

Negazione parte prima: The Early Days

(Appena finita la Settimana Enigmistica, ecco un’altra serie di articoli che interessano poco alla maggior parte delle persone che mi leggono! Quante ne so…)

Come i miei affezionati lettori sapranno, c’è stato un periodo nella mia vita in cui ho subito il fascino musicale dell’hardcore italiano, e in particolare del suo gruppo storicamente più importante, i Negazione. Da giovane ero molto affascinato dalla componente letteraria dei loro testi: crescendo ho parzialmente ridimensionato quelle parole che tanto amavo, ma, come omaggio al mio passato e anche per rivelare un aspetto meno noto di quel tipo di musica, mi piace l’idea di analizzare l’evoluzione di questo gruppo attraverso i loro testi.

I Negazione nascono con tre mini-dischi (EP, demo, chiamateli come volete): "Mucchio Selvaggio" del 1984, "Tutti Pazzi" del 1985 e "Condannati a morte nel vostro quieto vivere", sempre del 1985.
In questa prima fase i giovanissimi Negazione danno grossa importanza al lato più politico (in senso lato), più antagonista dell’essere punk; cosa che, a distanza di vent’anni, appare ingenua, poco originale e, come vedremo, anche un po’ limitata. Il concetto di base, ripetuto e variegato in mille salse, è la contrapposizione tra "noi" e "loro", tra coloro che si ribellano ad una società plastificata e massificata e coloro che invece vi si crogiolano dentro, più o meno consapevolmente. L’idea è abbastanza banale, e pecca della superficialità di chi ritiene che sia impossibile ogni compromesso, ma non mancano alcuni spunti interessanti.

Efficace nella sua sintesi è "Tutti pazzi" (che compare due volte, nel primo e nel secondo mini):

Nelle strade, nelle piazze, nei palazzi
i bambini, madri a casa, operai
tanti soldi, una casa, un lavoro
tutti pazzi, tutti pazzi, tutti pazzi!
Non è questa la mia vita,
tutto questo non fa per me
Una guerra, una morte, grande corsa verso la morte
tutti felici, tutti contenti, state morendo
tutti pazzi, tutti pazzi, tutti morti.

La "ribellione" è totalmente negativa: rifiuto del modus vivendi della società "comune" ma senza alcun proporre alcune alternativa. Molto pertinente è la contestualizzazione del primo verso che evoca bene la periferia torinese da cui provengono i nostri, e particolarmente azzeccata la parola "palazzo", vista in senso negativo, che compare anche altrove con significati simili; in generale, il contesto urbano proletario è facilmente individuabile in molti pezzi e fornisce lo sfondo ideale per ciò che viene espresso. Anche i concetti di morte e pazzia, intesi con un fortissimo accento morale, si ritrovano piuttosto spesso. "Condannati a morte nel vostro quieto vivere", già dal titolo è esplicita da questo punto di vista. Questo è un brano di "Noi":

[…]
Noi, rovesceremo l’orgoglio delle vostre automobili
noi distruggeremo la felicità delle vostre domeniche
perché noi, noi vi abbiamo condannati a morte nel vostro quieto vivere
voi, voi vi siete condannati a morte nel vostro quieto vivere…
[…]

Nettissima qui la contrapposizione tra "noi" e "voi", con una negazione persino del diritto della felicità di stare tranquilli di domenica. Curioso che, dal punto di vista sintattico, le canzoni siano spesso rivolte a un fantomatico pubblico indirizzato con "voi", che rappresenta paradossalmente coloro che non ascolteranno mai questo tipo di musica!
E ancora in "Plastica umanità":

[…]
Plastica…sincronizzazione…passaggio sotterraneo…
rifiuti…burocrazia…arti artificiali…neon…morte!
Catena di montaggio……morte!
Zona da evacuare……morte!
Morte……morte…..morte!!!!
[…]

Se da un lato alcune immagini come "burocrazia", "neon", "catena di montaggio" rappresentano bene il disagio urbano, lascia perplessi invece prendersela con la sincronizzazione, gli arti artificiali e soprattutto con il povero passaggio sotterraneo!
Questa mancanza totale di ironia (il peccato più grosso della militanza dura e pura) a volte sfocia nel ridicolo più esplicito: "Omicida 357 magnum" racconta in modo molto circostanziato le disavventure del povero Sergio Vittore alle prese con un poliziotto di cattivo umore durante il capodanno 1984. "357 magnum… un’arma tremenda!"

Eppure, accanto a tutta la rabbia, tutto il livore, fanno breccia alcuni pezzi più personali. Si tratta sempre di testi piuttosto pessimisti, forse opera di adolescenti inquieti, che però hanno una loro forza. "Tutto dentro", per esempio, è semplice ma efficace:

Stanze vuote, anime grigie, nessuna parola, silenzio lancinante
solo un dolore straziante dentro di me che arriva all’improvviso
senza un perché…….tutto dentro
rabbia ed impotenza per non sapere chi combattere
non un pensiero, non una parola
ancora immagini in bianco e nero
mentre tutto intorno continua la grande farsa
mentre vicino a me amici non importanti
mentre poco fa attimi di gioia esplosiva
mentre fra poco ancora parole e risate
ma adesso solo buio
adesso tutto dentro
tutto cosi` lontano
tutto dentro, amore e dolore, tutto dentro

Nulla di eccelso, per carità, a tratti sembra quasi Battisti, ma la sensazione di estraneità che si prova nei momenti di tristezza è resa molto bene, congiuntamente alla consapevolezza della fugacità di questi momenti. Si tratta di una canzone molto astratta, con nessun riferimento ad un mondo che appare molto lontano.
O ancora, "Chiuso in te stesso":

[…]
Il cielo scuro e nero e` la sola cosa che ti rimane,
riempire il tempo coi tuoi bagliori spenti:
tutto quello che sai fare
la nebbia sta invadendo le pieghe della tua mente,
non sono solo pensieri, questa e` la realta`,
buio fuori e buio dentro, ricordi opachi e vaghi…
chiuderti in te stesso e` l’unica risposta.
[…]

L’insistere su immagini meteorologiche contribuisce alla sensazione di oppressione. Il testo, molto lungo e sostanzialmente incomprensibile senza un supporto scritto, si conclude con "chiuderti in te stesso, non hai saputo fare altro". Ancora una volta, però, anche quando ci si rivolge verso l’interno, spicca la mancanza totale di un lato propositivo. D’altra parte, in un gruppo che si chiama "Negazione", forse è programmatico.

Queste due tematiche dei primi Negazione si fondono nella canzone forse più emblematica di questo periodo, "Niente", che verrà poi ripresa nel disco successivo, e che probabilmente è il miglior testo dei primi tre EP.

Passa il mio sguardo attraverso il nero,
ma non trova niente su cui soffermarsi,
vaga nel vuoto, attraverso i sentimenti,
sa che cosa cercare ma non lo riesce a trovare
….negli occhi spenti, nelle menti vuote,
nelle facce inerti, nei corpi privi di vita,
sopra i vetri lucidi, sull’asfalto sporco,
lungo i cavi elettrici, attraverso sbarre metalliche,
in officine ripiene di carne, lungo corridoi in bianco
e nero, sui treni e sulle macchine colmi di gente che
non sa dove andare, tra vestiti sporchi di sangue,
vite sporche di rabbia…
Diciottto anni colmi di nulla, sensazioni di impotenza tra
atteggiamenti imposti, tra imposizioni subite in mezzo
a lavoro, casa, scuola, ipocrisie e nessuno se ne accorge,
in mezzo a divise, bandiere e simboli, tra soldati,
maestri e capisquadra, in mezzo ad apatia,
sconfitta e solitudine, tra una razza che sta perdendo
il suo padrone… In mezzo a tutto questo solo schifo,
tra ognuna di queste cose solo disgusto, da niente di
tutto ciò qualcosa di cui ne valga la pena,
di tutto questo nulla che fa per me,
per tutto questo solo ed unicamente odio…
Dentro ai miei occhi colorati a sogni,
nella mia mente attiva,
nel mio corpo in continuo movimento,
nella mia faccia incazzata… niente,niente,
niente di tutto questo….
niente, niente, niente di tutto questo…
…niente……..niente!

A partire dal titolo si presenta una canzone nichilista, di rifiuto, ma non in nome di una non ben precisata diversità, di una contrapposizione tra "noi" e "voi", ma in relazione ai sentimenti dell’autore, che si sente perso in un mondo che non riconosce come il suo.
Dopo i primi versi cantati con voce molto sforzata (Zazzo dà il massimo in "Niente", si soleva dire) parte un elenco di immagini prese dal consueto immaginario urbano, ma di efficacia assai superiore rispetto a quelle citate in precedenza. Particolarmente riuscita le "officine ripiene di carne" e "vestiti sporchi di sangue, vite sporche di rabbia". In seguito alle osservazioni che contestualizzano il discorso, un’informazione rilevante: "diciotto anni". C’è la tendenza immediata a sminuire le opere degli adolescenti, ma in questo caso la rabbia di chiunque sia stato ragazzo e non andasse d’accordo col mondo verrà ritrovata. La descrizione di questo mondo si distacca un po’ dalle consuete immagini di città industriali, rivolgendosi invece verso un principio di autorità che, secondo l’autore, domina la società. Volutamente disturbante è il verso una razza che sta perdendo il suo padrone", anche se, al di là del fastidio implicito nell’affiancare due termini carichi come "razza" e "padrone", mi sfugge di cosa si tratti. Molto, molto importante è la parte successiva, perché è l’unico caso di una nota positiva nella prima fase dei Negazione; riprendendo i primi versi, nascono delle contrapposizioni:
negli occhi spenti –> nei miei occhi colorati a sogni
nelle menti vuote –> nella mia mente attiva
nelle facce inerti –> nella mia faccia incazzata
nei corpi privi di vita –> nel mio corpo in continuo movimento
Esiste quindi la possibilità di un lato propositivo? In potenza, per ora. Al momento, solo il rifiuto: "niente, niente, niente di tutto questo."
Come vedremo, in seguito le cose inizieranno a cambiare.

Allegro quanto basta
Allegro non troppo, di Bruno Bozzetto, 1977
"Musica classica e animazione…dicono che l’ha già fatto un certo Trisney, Bisney, boh".
Già a partire dall’ironico inciso iniziale del "presentatore" Maurizio Micheli, è abbastanza chiaro che non si nega che l’idea di base è quella del Fantasia di Disney. Tuttavia, al di là del concetto di animazione applicata alla musica classica, tra i due film sono molte più le differenze delle analogie, e possono essere riassunte in un singolo concetto: Allegro non troppo tralascia la ricerca dell’estetica e della meraviglia visiva che è il cuore di Fantasia (ed è il suo limite perché a tratti Fantasia è proprio palloso. Il re è nudo.), ed è invece più teso a cercare di trovare le emozioni dello spettatore. Con un’eccezione, che vedremo.
La parte dal vivo che fa da cornice ai diversi pezzi è una specie di comica al di fuori dal tempo. Un disegnatore, Maurizio Nichetti, fa animazione in tempo reale di fronte ad un direttore d’orchestra prepotente che dirige un’orchestra di vecchiette pomposamente vestite. Forse non strettamente necessaria ai fini artistici, è però tutto sommato molto divertente. Inoltre, diciamolo, permette al film di raggiungere i dignitosi 80′ che di sola animazione sarebbero stati impossibili per i budget italiani.

Il primo episodio è uno dei più deboli: Il preludio al pomeriggio di un fauno di Debussy narra le visissitudini di un vecchio fauno che non si rassegna al fatto che sia terminato il suo tempo e che ormai le donne non lo vogliano più. Pur rasserenata da alcune gag comiche, la storia è tutto sommato un triste apologo della vecchiaia: rassegnarsi a scomparire, a diventare sempre più piccolo di fronte alla grandezza della gioventù è quello che il destino riserva ad ognuno di noi. Il disegno affianca al fauno caricaturale delle fanciulle discinte molto realistiche, forse quasi al rotoscopio. Il pezzo non è riuscitissimo, ma non per qualche ragione particolare: semplicemente l’alchimia fallisce in qualcosa, e questo episodio è infine semplicemente noioso. Con ironia, il presentatore Maurizio Micheli si sveglia di soprassalto al termine di esso. Beh, forse non sono ancora abbastanza vecchio per capirlo in fondo!

Subito dopo, con la Danza Slava n. 7 di Dvorak, invece si ride con una tipica comicità da Bozzetto. Al ritmo travolgente della musica si assiste ad un rapido riassunto della storia dell’uomo focalizzata su come le masse seguano ciecamente i propri leader. Almeno, non sempre, come scopriremo nell’ultima esilarante scena. Un episodio breve, travolgente, a modo suo anche politico, forse il più vicino all’estetica dei cortometraggi di Bozzetto.

E segue il celeberrimo Bolero di Ravel. Questa è l’eccezione di cui parlavo prima. E’ l’episodio che rinuncia a toccare le corde emozionali dello spettatore per narrare semplicemente la grandiosa marcia dell’evoluzione, col solo tocco di ironia della bottiglia di Cocacola lasciata dagli esploratori spaziali che dà origine alla vita. Si tratta dell’episodio più bello esteticamente: tantissime forme in movimento in animazione quasi disneyana, decine di personaggi uno diverso dall’altro contemporaneamente in scena, disegni molto particolareggiati addirittura al tratto a tratti immersi persino in effetti speciali. Veramente da rimanere a bocca aperta. Forse il Bolero di Ravel è una scelta "facile" per l’evoluzione, ma personalmente, pur nella mia ignoranza musicale, non riesco ad immaginare nient’altro con un simile crescendo; a parte Stairway to heaven che però non è ancora musica classica. Musica da matusa, forse.

Sfoderate i fazzoletti per il Valzer Triste di Sibelius, perché il gatto più infelice del mondo saprà farvi commuovere come capit all’intera orchestra di vecchiette. In una casa diroccata, un gatto ricorda i momenti felici che ha lì passato con le persone che la abitavano quand’era ancora in piedi. I ricordi, ripresi dal vero ma molto sfumati, si contrappongono al design particolarmente espressivo del gatto protagonista (corpo sinuoso, occhi enormi, animazione curatissima) per un effetto emotivamente devastante.

La parte centrale del film è decisamente il meglio del film. Di qui in poi si va a calare verso il gran finale.
Il Concerto in C-Maggiore di Vivaldi è un piccolo divertissement di stampo comico, con la bella trovata dell’ape che "apparecchia" il fiore di cui si vuole nutrire. Il rotoscopio è palesemente usato per gli esseri umani che disturbano l’insetto, dando un contrasto non da poco. Tutto sommato divertente, ma la parte miglire è l’introduzione col risveglio della natura.

L’ultimo pezzo è l’Uccello di fuoco di Stravinsky, ambizioso episodio in cui Bozzetto torna ai temi a lui cari del bombardamento pubblicitario e dell’alienazione dell’uomo moderno (e lo diceva trent’anni fa!). Purtroppo questo episodio è molto "manuleggiante", e a me la mano di Guido Manuli proprio non piace: l’episodio tende troppo al grottesco perdendo quel minimo di tensione drammatica che era indispensabile. Notevole l’inserimento di tecniche diverse come la plastilina a passo uno e alcuni sfondi dal vivo, tutti ben integrati.

E ci vuole un finale! Come chiudere meglio che non mandando "Aigor" in soffitta a cercarne uno? Assistiamo così ad un piccolo sfogo di vari finali che non sono altro dei brevissimi cortometraggi in diverse tecniche, forse anche omaggi ad autori famosi: mi è parso di riconoscere un tocco di Svankmajer in uno.

Film quindi a tratti disomogeneo, ma nel complesso godibilissimo. Una grande prova per la scuola d’animazione italiana nata da Carosello, e forse il suo canto del cigno.

Surviving Ciucpalaniuc
Da tempo diversi miei amici mi tessono le lodi di Chuck Palahniuk. Non essendo in generale gente da apprezzare Il Codice da Vinci o Susanna Tamaro (o almeno, non solo), mi sono convinto di fare un tentativo. E allora sono andato alla Feltrinelli nella sezione Ciucpalaniuc (è la pronuncia esatta, quella che pochi conoscono) e ho scelto quasi a caso Survivor nell’edizione Oscar Mondadori.
Confesso subito di non averlo amato moltissimo: vediamo di capire cosa non va in Ciucpalaniuc, o magari cosa non va in me che non capisco Ciucpalaniuc.

Non è facile descrivere in due parole la trama di questo libro senza spoiler perché ha una struttura cronologica piuttosto intricata: parte dalla fine e narra la trama mediante un lungo flashback, a sua volta intersecato con incisi temporali in un passato ancora anteriore. Dirò quindi solamente che Survivor è un libro profondamente americano, e questo è sostanzialmente il suo più grosso limite. Si tratta infatti di una spietata satira della società americana, messa alla berlina in molti aspetti tipicamente yankee:vediamo allora la frammentazione delle religioni fino alle sette, lo show business e il suo spietato marketing, i mass media, i fast food, la psicoanalisi come pseudo-religione, il mito della strada e delle storie "on the road", persino l’evento più americano di tutti, il Superbowl. Tutto questo viene demolito con situazioni e personaggi grotteschi ed esagerati, tanto da ridicolizzare tutti questi miti. Ma il problema sta nel fatto che se un lettore americano può aver bisogno di tali iperboli per vedere in maniera distaccata una società così alienante, per un europeo con un minimo di coscienza critica e un minimo di informazione tutto questo è lampante, e quindi la narrazione è ridondante. D’accordo, sappiamo che spesso religione e business si fondono, e che alcune sette sono pericolose. C’era bisogno di inventare una cosa come i Creedish? Direi proprio di no.

C’è un altro aspetto che non ho apprezzato molto: il fatto di voler essere cool a tutti i costi, cioè il dover dimostrare di essere un autore cult, come recitato in modo quasi prevedibile dal risvolto di copertina. E allora assistiamo ad alcune trovate che sono certamente curiose e divertenti alla lettura, ma che lasciano l’idea di essere una sorta di fan service, un modo per compiacere i propri lettori dando loro l’idea originale e spiritosa. E allora assistiamo ad una numerazione delle pagine al contrario (da 280 a 1, per simulare un sorta di countdown), qualche riferimento al sesso in maniera sempre bizarre (i fan di Ciucpalaniuc amano ricordare il rimming), un gusto per gli elenchi probabilmente mutuato da un altro scrittore cult degli anni precedente, Bret Easton Ellis. Insomma, per dirla come i giovani, questo signore se la tira un po’ troppo.

Come se non bastasse, anche la forma mi ha disturbato nella lettura. Ho trovato lo stile di scrittura molto faticoso da seguire, per la struttura composta da frasi brevissime, spesso sotto la riga, talvolta senza un periodo completo. Tale frammentazione può essere un modo per riprodurre la mente non proprio normale del protagonista, ma sospetto che sia un ulteriore tentativo di essere cool e moderno e, perché no, di rendere la lettura più facile. Da pagina 112:
Qui c’è la memoria del loro esserci stati. Dei loro viaggi. Del loro passaggio.
Questo posto è quello che l’assistente sociale chiamerebbe una fonte documentaria di prima scelta.
La storia dell’inaccettabile.
Vieni qui per un pompino gratis. Sabato 18 giugno 1973.
Sul muro c’è scritto così.
Sembra di leggere un titolo di "Panorama"!
E, come impressione, la traduzione di Michele Monina e Giovanna Capogrossi non aiuta molto. Ho trovato un orribile "tè ghiacciato" per quello che probabilmente era "ice tea", ma molte frasi qua e là mi suonano maluccio. Ad esempio, a pagina 281:
Chiamerà un ragazzo. Dopo che mi sono addormentato profondamente, capita a volte.
O a pagina 202:
Se finisco ammazzato da un qualche assassino che mi tiene la testa nel forno, è perché lei non ha mai controllato i miei messaggi

Forse sono stato troppo severo; tutto sommato l’impressione generale non è così negativa. La lettura è nel complesso piacevole, e ci sono delle pagine decisamente divertenti, su tutte gli estratti dal Libro delle Piccole Preghiere o la scena al superbowl. Però, e su questo temo di poterci fare ben poco, questo signore Ciucpalaniuc e i suoi libri mi stanno un po’ sui marroni. Dubito che gli concederò un’altra possibilità.

Striker si allena tirando i rigori

Il nuovo fumetto di Takahashi!
No, non di Rumiko, quella di Lamù. No, nemmeno Tsutomu, quello di
Jiraishin. E manco Shin, l’autore di "Lei, l’arma finale". Belìn, ‘sti
musi gialli oltre ad essere tutti uguali si chiamano anche tutti allo
stesso modo. Dev’essere parte del loro piano di conquista del mondo.
Riniziamo.
Il nuovo fumetto di Yoichi Takahashi! Come chi è?
L’autore di Captain Tsubasa! Sì, "Holly e Benji", devo dirvi proprio
tutto. Ehi, dove andate? Fermi con quel bookmark su un sito porno!
Continuate a leggere.

Captain Tsubasa
è una mia piccola perversione, l’ho sempre trovato un fumetto
assolutamente delizioso. Apparentemente questo contrasta col fatto che
trovo il calcio uno sport sostanzialmente noioso, ma in realtà è
proprio per questo che sono in grado di godermi l’assoluta
improbabilità delle partite senza sentirmi in dovere di confrontarle
col "mondo reale" e di lasciarmi quindi andare alla sospensione
dell’incredulità. Non si tratta perciò di gusto del trash, ma di puro
entertainment nel leggere qualcosa che non ci prova nemmeno ad essere
realistico e manco coerente. Per inciso, la versione animata mi piace
di meno, è troppo stiracchiata e priva di mordente.
Caratteristica di Tsubasa è però il gioco al rialzo.
Per andare avanti per le diecimila pagine e più della serie si è reso
necessario porre di fronte al buon Holly avversari sempre più forti con
colpi sempre più spettacolari ed improbabili. Takahashi c’è riuscito,
ma dev’essere stato estenuante. Probabilmente nella ricerca di qualcosa
di più rilassante, ha voluto tentare un ritorno alle origini, un
tentativo di riscoprire le radici del successo del proprio manga
riscoprendone in qualche modo l’innocenza iniziale. Il paragone
immediato è con Akira Toriyama, il quale all’inizio dell’ultima saga di
Dragonball, dopo una serie di
nemici e di onde energetiche sempre più forti, sente la necessità di
tirare il fiato e di inserire elementi umoristici. Ahimé, la parentesi
è durata poco.

Tornando a Takahashi, il suo tentativo è stato fatto con una nuova serie, Striker Jin.
Jin
è un giovane abitante delle isole nel sud del Giappone che gioca a
calcio. Ha un innato talento, ma preferisce giocare per danaro
piuttosto che per passione, e per questo risulta piuttosto antipatico a
tutti. Un incidente che cancella la sua famiglia gli farà cambiare
atteggiamento, e il suo obiettivo sarà di costruire una squadra
vincendo le diffidenze e le inimicizie. Il paragone ricorrente è di un
"lupo capo-branco", che sconfigge gli avversari e li sottomette alla
propria forza e al proprio carisma. Il calcio presentato qua, come al
solito, non è plausibile, ma tornando a riguardare ragazzini di
provincia perde la componente superomistica dell’ultimo Tsubasa e
risulta più misurato, quasi più vicino al lettore.

Eppure pare che il bel gioco sia durato poco. Il fumetto dura solo due volumi, e ha un finale tronco:
una partita ben preparata in termini di aspettativa viene sfumata
subito dopo il cameo di tutta gang di Tsubasa. Assistiamo quindi al
finale qualche mese dopo: pare uno stratagemma simile a quelli di
Mitsuru Adachi nei finali delle sue opere, ma qui, più semplicemente,
rimane l’impressione che più semplicemente l’esperimento non abbia
avuto alcun successo e le spietate leggi dell’editoria giapponese
abbiano imposto la chiusura della serie. Il che, ovviamente, mi
dispiace, data la penuria spaventosa di manga da intrattenimento
decenti che il mercato italiano offre di recente.

Un fumetto extraterrestre, molto extra e poco terrestre

Esistono quattro autori di fumetti di cui compro tutto quello che trovo. Non è programmatico, è un fatto di cui mi sono reso conto a posteriori, quasi casualmente. E altrettanto casualmente essi coprono quattro delle cinque principali scuole fumettistiche mondiali: Osamu Tezuka per i manga, Andrea Pazienza per i fumetti, Alan Moore per i comics e Lewis Trondheim per le bande dessinée (la quinta scuola, quella delle historietas, rimane fuori. Pazienza).

Oggi parlerò dell’ultimo autore citato, probabilmente il fumettista più eclettico e geniale che sia in circolazione. Francese, nonostante il nome d’arte anglo-norvegese, Lewis Trondheim è attivo sostanzialmente su tre fronti diversi:
– i fumetti per bambini: Re Catastrofe (Le Roi Catastrophe), Piccolo Babbo Natale (Petit Père Noël), Confusione Mostruosa (Monstrueux Bazar) ne sono alcuni esempi. In generale sono piacevolissimi anche per un lettore adulto.
– il fumetto mainstream in senso francese: la celeberrimo Fortezza (Donjon)  in collaborazione con Sfar e il meraviglioso Lapinot (Les Formidables aventures de Lapinot). Forse il meglio della produzione dell’autore, fumetti ad ampio respiro, divertenti e drammatici.
– il fumetto sperimentale: spesso insieme a "L’Association", lavori di solito brevi come Non, non non, Galopinot, La mosca (La mouche) e altri fumetti in cui sperimenta le potenzialità del medium.

In Italia la fortuna di Trondheim è decisamente scarsa. Sono stati pubblicati tre numeri (e non i primi tre!) di Lapinot dalla BD con esiti disastrosi. La Fortezza è stata editata in parte dalla defunta Phoenix e in parte dalla Magic Press, ma coprendo nel complesso solo sei volumi sui circa venticinque che sono usciti in Francia, e non mi pare che le speranze per il futuro siano rosee. Leggermente miglior fortuna ha avuto il filone infantile, che però, nonostante sia piacevole da leggere, è il lato meno interessante di Trondheim. E allora non ho avuto scelta: ho iniziato a comprare i volumi in francese. Con tanta, tanta pazienza e un dizionario si riesce a capire praticamente tutto (contestualmente, ho scoperto che la lingua francese mi piace molto e ho iniziato a studiarla, ma questa è un’altra storia).
Nelle mie escursioni in Gallia di solito acquisto parecchia roba, ma ogni tanto la FNAC, catena di mediastore che tiene anche fumetti in francese, offre qualcosa. E poco prima di Natale monsieur FNAC mi ha fatto il regalo di farmi trovare A.L.I.E.E.N., una delle ultime fatiche del Trondino.

A.L.I.E.E.N. sta per Anthologie de Littérature Infantile Extraterrestre Egarée Négligemment (Antologia di letteratura infantile extraterrestre trascuratamente smarrita), e apparentemente questo fumetto si colloca nel filone per bambini della sua produzione, ma a ben guardare è più vicino a quello de "L’Association", il lato sperimentale e anarcoide di Lewis.
Trondheim immagina nell’introduzione di trovare un fumetto alieno durante un picnic con la sua famiglia e di pubblicarlo così com’è, e un fumetto alieno è esattamente quello che leggiamo. Non solo perché i protagonisti sono mostrini extraterrestri, non solo perché essi parlano una lingua sconosciuta in un alfabeto assurdo, ma proprio perché ha un’essenza aliena.
Il fumetto esprime dei sentimenti completamente estranei per noi terrestri: è impossibile capire cosa provano quei personaggi. A tratti pensiamo di ritrovare alcuni nostri modi di essere (amicizia, amore, solitudine, razzismo, forse anche il concetto di bene e di male) ma poi si presentano delle deviazioni che lasciano assolutamente spiazzati, per non parlare di alcune convenzioni sociali date per scontate che ovviamente sfuggono.
C’è di più. Il linguaggio narrativo utilizzato, pur ricadendo nei canoni più stretti del concetto di fumetto (closure + vignetta + baloon) ha qualcosa di differente. Ognuna delle micro-storie che compongono l’opera inizia e finisce senza un inizio e una fine ben chiare, e a tratti si sovrappongono temporalmente, senza però un ordine preciso.
Infine, nei baloon c’è un alfabeto alieno. All’inizio pensavo che fosse un giochino simile a quello di Futurama, cioè un semplice codice del tipo "a lettera uguale corrisponde simbolo uguale", e il fatto che sotto un disegno di un occhio ci fosse una parola di tre simboli (come oil in francese) mi aveva dato l’idea di provare a decifrare. Mi sono poi reso conto, invece, che narrativamente quei pochi dialoghi hanno senso anche senza capire cosa c’è scritto dentro, similmente agli omini nei cartoon di Bozzetto o di Quino che parlano senza che si capisca cosa dicono, e questa è prova di grande talento per la sceneggiatura.

E’ quindi ben difficile dire di cosa parla questo libro. Ci sono alcuni mostrini alieni, alcuni di essi hanno delle avventure o qualcosa di simile e interagiscono tra di loro, in una città e nei suoi dintorni. Per la sensibilità terrestre lo direi poco adatto ai bambini, tutto sommato, per l’eccesso di dettagli splatter (apparentemente c’è dell’umorismo macabro simile a quello di Happy Tree Friends, ma umorismo non è) e ovviamente perché non ci si capisce niente. L’edizione è curatissima, come da tradizione francese: potrebbe sembrare stampato male, ma si tratta della riproduzione di un fumetto lasciato all’aperto per qualche giorno, quindi è inevitabile.

Trondheim non si smentisce, ancora una volta un fumetto geniale.

A.L.I.E.E.N., Brèal Jeuness 2004, 92 pagine cartonate 17×22, 12 euro.

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