Ma come, dirà il solo pubblico cacacazzi, avevi detto che parlavi di vincitori e vinti! Beh, ho mentito. Mi son reso conto che di buona parte dei vincitori non ho molto da dire, mentre invece c’è un sacco di altra roba che ho visto in giro su cui vorrei spendere qualche parola. Quindi, si fottano i bambini sudanesi, quest’anno si parla di quello che secondo me è interessante. Iniziamo, come i più astuti avranno capito, dai lungometraggi.
Giusto per contraddirmi, mi pare indispensabile dire qualche parola in più sul vero vincitore del premio, cioè Mary and Max di Adam Benjamin “Billy” Elliot. Elliot è noto soprattutto per il suo strapluripremiatissimo (e amatissimo dal sottoscritto) Harvie Krumpet, ma ci si chiedeva se sarebbe stato in grado di affrontare un formato differente come il lungometraggio. Beh, sì, anche se, come l’autore stesso ammette, Mary and Max non è altro che una versione estesa del suo cortometraggio più famoso. Stessa tecnica (la plastilina), stesso tono surreale, stesso intervento della voce narrante, stessa ambientazione (a metà, almeno) e, soprattutto, stessa attenzione per le persone con qualche sorta di disabilità che le rende degli outcast se non dei freak; e, naturalmente, stessa sensibilità nel toccare questi argomenti con poesia ma senza retorica. Il film parla della corrispondenza tra Mary, una bambina australiana con una famiglia un po’ difficile, e Max, un newyorkese di mezz’età che soffre della sindrome di Asperger, una forma di autismo. I loro scambi di lettere, tra alti e bassi della loro amicizia e scambi di cioccolato, seguono la crescita e la maturazione di Mary, e il lento sopravvivere di Max alla sua malattia, fino a un finale un po’ strappalacrime ma sicuramente sincero.
Un altro film in concorso su cui vale la pena spendere due parole è Jeh-bool-chal-shee e-ya-gee (sia ringraziato il Dio del Copia e Incolla!), meglio noto come The Story of Mr Sorry, opera coreana di In-keun Kwak, Il-hyun Kim, Ji-na Ryu, Eun-mi Lee e persino di Hae-young Lee. La cifra stilistica di questo assurdo poco-più-che-mediometraggio (63 minuti) è “Che schifo!”. E ora parliamo di cerume. Chi ha visto un po’ di cartoni animati giapponesi sa che in terra nipponica è considerato un atto dal vago sapore erotico farsi pulire le orecchie da una donna, perlomeno per la vicinanza fisica che questo comporta. In Corea si va oltre: secondo questo film esistono dei pulitori di orecchie professionisti a domicilio. Sinceramente non so se si tratta di un’invenzione filmica, ma a naso (anzi, “a orecchio”!) direi che si tratta di realtà. E’ ovvio che un lavoro del genere sia molto umiliante, e infatti l’omino protagonista della storia, il suddetto Mr. Sorry, è un piccoletto brutto, scemo e sgraziato che si fa mettere in piedi in testa da tutti e ha un ragno enorme come unico compagno di giochi (“Che schifo!”), e che ha come obiettivo di vita ritrovare la sorella scomparsa. Un giorno il suo capo gli dà da bere una pozione che lo rimpicciolisce tanto che può entrare nelle orecchie della gente e fare pulizia come nessun altro. E’ a questo punto che l’azione si fa metafisica: pulendo l’orecchio di un cliente, per caso sfonda una parete e si ritrova nel suo cervello, accedendo così al suo inconscio, cosa che poi farà con tutti i successivi clienti. Ed è a questo punto che l’azione si fa confusa, perché interagendo con un politico che aveva avuto a che fare con sua sorella, Mr. Sorry accede al suo cervello stesso. Ed è a questo punto che l’azione si fa morbosa, perché si scopre che il nostro bravo pulitore di orecchie ha sempre concupito la sorella, altro che bravo fratellino che la vuole ritrovare. Ed è a questo punto che l’azione si fa assurda, perché dopo questa scoperta il protagonista si trasforma in un ragno gigante (ehi, come in Coraline!). E (ora la finisco con questa gag) è a questo punto che l’azione si fa pessima, perché si ritorna a una cornice, probabilmente posticcia, introdotta all’inizio in cui in una specie di reality show si dedice se ammazzare o meno il ragno gigante. Sì, lo si ammazza. Che schifo.
Schifo di altro genere è un altro film in concorso, di cui ho visto solo metà: My Dog Tulip di Paul e Sandra Fierlinger. Come suggerisce il nome, parla di una cagnetta di nome Tulip. Per i primi minuti si assiste a un signore di mezz’età inglese che racconta il suo rapporto con Tulip. Ok, mi son detto, questa è l’introduzione, poi succederà qualcosa, che so, incontrerà una donna grazie al cane. E invece no. Il film è tutto dedicato al rapporto di questo signore con suo cane. Ne ho retto metà, poi mi sono arreso e sono andato a farmi un giro. Un po’ la cosa mi dispiace, perché mi sono perso dettagli morbosi e scientificamente accurati sulla riproduzione dei cani, cioè come lubrificare la vagina di una cagnetta o come masturbare un cane per favorire l’accoppiamento. Non si sa mai, potrebbe essere conoscenza utile.
Tra le opere fuori concorso merita una menzione, come ho già anticipato, Edison& Leo, di Neil Burns. Mettetevi comodi, vi narro i primi dieci minuti del film, con spoiler a profusione. Allora, c’è Edison, sì, l’inventore, che è mezzo cattivo, e ha una moglie e due figli, di cui quello buono è il protagonista e quello cattivo non lo è. Un giorno riceve a casa sua uno sceicco con una moglie e gli fa vederela sua collezione di memorabilia, tra cui un preziosissimo pugnale orientale che avrebbe ucciso una moglie infedele incidendole il labbro. Contestualmente Edison riceve dalla moglie dello sceicco, che è imburkata da testa a piedi, un invito a un appuntamento notturno. Quando però vi si reca, viene aggredito e al suo risveglio il pugnale è stato rubato, e c’è la donna dello sceicco a terra. A lui sorge un dubbio, le toglie il velo e…tah-dah! E’ sua moglie, avvelenata al labbro inferiore! Lui fa quel che bisogna fare, e con un coltello le taglia il labbro inferiore, per scongiurare la diffusione del veleno. Per guarirla definitivamente, a questo punto, parte in locomotiva e, ciuf! ciuf!, si dirige verso una mesteriosa tribù di donne indiane. Nel frattempo, lo sceicco si libera della sua donna (che era una prezzolata) buttandola giù dalla carrozza. Tale donna giura vendetta nei suoi confronti. Lo sceicco scompare e non si rivedrà mai più. Tornando a Edison, sua moglie viene guarita tramite un rito, ma a condizione che Edison non tocchi il libro sacro che sta nella stessa stanza del rito. Appena le indiane amazzoni voltano le spalle, ovviamente lui lo ruba e si porta via la moglie, lasciando il rito incompiuto e quindi lei catatonica. Non si capisce bene cosa contenga questo libro, probabilmente delle scoperte scientifiche. Non verrà mai detto perché le indiane lo possedevano, e comunque verrà dimenticato ben presto. L’azione si sposta ancora alla pseudo-moglie dello sceicco, che cammina cammina, arriva dalle indiane, si unisce a loro e poiché i loro nemici sono suoi nemici, d’ora in poi non vorrà altro che vendicarsi di Edison, dimenticandosi dello sceicco. Nel frattempo Edison ha messo su una specie di parafulmine in stile Frankenstein, succedono un po’ di casini e la moglie, risvegliatasi per l’occasione, fa da parafulmine, ma conducendo comunque verso il figlio buono. Ella muore, e il figlio buono diventa una centrale elettrica vivente e ammazza tutti quelli che tocca.E qui finiscono i primi 10′ del film e parte il resto… ma direi che ho reso l’idea. Assurdo, incoerente, davvero scemo: come per i fumetti Marvel, è più divertente farselo raccontare che fruirlo di persona.
Infine, merita una menzione Sunshine Barry & the Disco Worms di Thomas Borch Nielsen. Barry è un verme, e i vermi sono considerati i più sfigati nella società degli insetti. Fa l’impiegato e vorrebbe far carriera, ma un giorno per caso scopre la disco-music e da allora la sua vita cambierà nel tentativo di formare un complessino, anche se, come dicono tutti, “Worms can’t boogie!”. Appare evidente che si tratta della solita parabola di riscatto sociale attraverso la musica, già vista milioni di volte in tutte le salse (ivi compresa quella degli insetti!), ma in questo film c’è forse un tocco di sincerità in più rispetto ai soliti film americani, probabilmente dovuto a una caratterizzazione dei personaggi un po’ al di fuori degli schemi dei cartoon in stile Dreamworks. Merita la visione, senza dubbio, anche se la produzione non è abbastanza ricca da comprarsi i diritti delle canzoni dei Bee-Gees.
(Un grazie al mio entourage per la copertura dei buchi di trama che mi mancavano quando mi ero appisolato: Gianluca, Andrea, Paolo, Paolo e Marco)
Luci e ombre sull’edizione 2009 del Festival di Animazione di Annecy. E ora che ho creato tensione, permettetemi un cappello introduttivo sul mio rapporto con questo festival. Giunto ormai alla mia settima presenza consecutiva, il festival di Annecy è diventato un’abitudine annuale a cui non riesco più a fare a meno, tanto che l’idea con cui gigioneggiavo gli anni scorsi di saltarlo per fare più ferie in estate ormai mi è diventata estranea. Non riesco più a immaginare il mio giugno senza tutti i piccoli riti della settimana di Annecy: la tartiflette, gli aerei di carta, i siparietti di Bromberg, i croissant di fronte alla Pierre Lamy, il prato vicino al lago, il pranzo dalle vecchiette, la spesa di cadeaux al Monoprix, i piccoli riti del viaggio, la biretta a prezzi paurosi dal Pirate Pub, le fumetterie da esplorare. E i cartoni animati, certo. Sì, lo so che è un termine improprio e sminuente, che bisognerebbe dire “cinema di animazione”, ma lo trovo un termine troppo freddo, dove invece cartoni animati è più affettuoso, più vicino allo spirito che io attribuisco all’animazione. Insomma, io non mi vergogno di dire che ad Annecy vado a vedere i cartoni, che diamine.
Luci e ombre, si diceva. Togliamoci il sassolino dalla scarpa e proclamiamo pure che le giurie hanno fatto dei gran pasticci, quest’anno. Il corto vincitore del Grand Prix per il cortometraggio, il cui nome e i cui autori non citerò per ripicca, era proprio brutto ed è stato scelto, evidentemente, solo per il suo contenuto sociale: era infatti un documentario sul dramma dei bambini rapiti e ridotti in schiavitù in Sudan. Un grosso problema, per carità, che è giusto affrontare e non è di principio sbagliato farlo in animazione (per quanto sia inutile usare questo mezzo), ma premiarlo in virtù del messaggio e non in virtù della qualità del lavoro (che, come si sarà capito, era meno che mediocre) mi ripugna. Possiamo quindi dire che l’edizione 2009 di Annecy non ha avuto un vincitore nei cortometraggi. Un immagine del non-vincitore è comunque qui a destra, così vi fate un’idea anche voi.Ma non è l’unico guaio. Sempre nei cortometraggi, è stato premiato l’ottimo Runaway di Cordell Baker. Nulla da eccepire sulla scelta, se non che le musiche del corto sono opera di un certo Benoit Charest, che era anche giurato. Mi risulta impossibile concepire come un festival della serietà e dell’importanza come quello di Annecy abbia commesso una simile leggerezza. E ancora: non è stato proclamato un solo film vincitore del premio per il lungometraggio, ma si è scelto di attribuire un ex-aequo a Mary and Max (a sinistra) di Adam Benjamin Elliott e a Coraline di Henry Selick. E’ palese che una giuria che non riesca a scegliere abbia fallito il suo compito; tuttavia, da come è stato attribuito il premio (Cristallo a Elliott, e poi, a sorpresa, ex-aequo a Selick) si sospetta che il vincitore in effetti sia Mary & Max, e salvataggio delle chiappe nei confronti delle major hollywoodiane che stanno lanciando il film in questo momento e potrebbero essere generose in futuro nei confronti di un festival sempre affamato di sponsor. Puzza anche molto l’attribuzione del premio del pubblico a Brendan et le secret de Kells di Tomm Moore e Nora Twomey, vista la pioggia di applausi e le ovazioni che hanno seguito Mary and Max (e anche Coraline, suvvia). Ah, e giusto per chiudere, nella giuria dei corti c’era Elliott, autore di uno dei lunghi in concorso. Non un vero conflitto di interessi, ma comunque una situazione poco pulita. Va detto, comunque, che c’è stata la fondata impressione che Elliott fosse radicalmente contrario alle decisioni dei suoi colleghi giurati.
Per la prima volta, durante il pomeriggio di sabato i vincitori dei premi sono stati divulgati alla stampa, con una preghiera di non diffusione che solo gli svizzeri e i giapponesi avranno rispettato. Io non mi sono spoilerato, ma avevo intuito che c’erano dei grossi problemi: questo “leak”, probabilmente era per preparare il pubblico e ridurre le contestazioni, che comunque un po’ ci sono state. E, comunque, è mancata l’atmosfera di festa e la pioggia di applausi che seguono la proclamazione del corto vincitore.
Ma parliamo d’altro. Nove lungometraggi in concorso, ne ho visti sette e gli ultimi due è come se li avessi visti (Battle for terra e Monster & Aliens), grande varietà di temi, di tecniche e di qualità. Si è passato dalla stop-motion dei due vincitori, Mary and Max e Coraline, al 3d un po’ primitivo della satira sociale del norvegese Kurt turns evil (mi aspettavo un po’ di più dai norvegesi, dopo l’ottimo Slipp Jimmy Fri di due anni fa), allo spasso dell’ultraviolenza in cut-outs di Boogie el aceitoso (un’immagine qui a destra), e persino l’animazione tradizionale su rodovetro per My dog tulip e Brendan et le secret de Kels. Fuori concorso invece non c’era moltissimo di interessante. Citerò solo per farvi venire un po’ di curiosità la follia di Edison & Leo, un pasticciaccio di avventura molto più spassoso da raccontare che da vedere, e la tradizionalissima ma molto divertente storia di riscatto sociale Sunshine Barry & the Disco Worms. Parlerò di entrambi in seguito.
Una volta tanto, per quanto riguarda i cortometraggi, è mancato davvero qualcosa che spiccasse sugli altri: se ricordate, infatti, c’è un mantra che si ripete ogni anno “Quest’anno i corti non erano male, ma mancava il capolavoro ricco di spessore”. Ecco, forse l’edizione 2009 ci si è avvicinata un po’. Il sabato mattina, tradizionalmente, riguardiamo la lista dei corti proiettati ed è abbastanza facile restringere i candidati a quei 5-6 lavori che meritano di più, e qualcuno di questi vince sempre qualcosa. Quest’anno la cosa è stata pressoché impossibile, ma non necessariamente per la mancanza di bei lavori: anche per la mancanza di corti particolarmente fetidi. Quelli proprio brutti saranno stati tre o quattro, uno dei quali, ricordiamolo, è stato il vincitore.
Va però detto che la giuria, con l’eccezione del Grand Prix, ha premiato dei bei lavori, in particolare quello che è stato il mio personale vincitore: L’homme à la Gordini, una storia di libertà d’espressione un po’ surreale ambientata in un mondo ideale degli anni ’70, ha preso il premio per l’opera prima (nonché quello dei bambini, ma quello conta di meno). Potete vedere quant’è ganzo qui a sinistra. Il Premio Speciale è andato al già citato Runaway di Cordell Baker, un corto tradizionale canadese ricco di ritmo e di gag visive (e di qualche metafora sociale), mentre la Menzione Speciale è finita all’apprezzato (da me, almeno) e stravagante Please Say Something di Davide O’Reilly, stora d’amore tra gatti e topi con un design particolare e un po’ “difficile” e narrata a blocchi narrativi slegati.
Un po’ moscetta anche l’offerta delle anteprime: Panique au village, che è divertente in episodi da tre minuti, è assolutamente insopportabile nella forma di lungometraggio. Credo che nessuno, in sala non abbia dormito almeno un po’, maledicendo le grida stridule dei personaggi del film. E’ stato presentato inoltre un altro lungo francese, Les Lascars, tratto da un fumetto che non conoscevo. Non l’ho visto.
I film di scuola sono sempre difficili da vedere, un po’ per la programmazione (spesso alle 23, lo spettacolo che io sono uso saltare) e un po’ perché molto popolari, e i biglietti finiscono subito. Ne ho visti tre su cinque, e ho anche visto quasi tutti i vincitori. Che culo. Il vincitore assoluto, For Socks’ sake di Carlo Vogele, l’ho visto (animazione di oggetti in modo creativo, un po’ alla PES: immagine qui a destra), mi è piaciuto, ma il secondo, Ex-E.T. di Benoît Bargeton, Yannick Lasfas, Rémy Froment e Nicolas Gracial non mi colpito un granché, tanto che me lo sono mezzo sonnecchiato. Il terzo premio, The Soliloquist di Kuang Pei Ma, l’ho mancato. L’impressione, comunque, è di un calo della qualità. Non è un buon segno.
Discreta invece la selezione dei corti fuori-concorso. Ho sempre più l’impressione che questi programmi non contengano gli “scarti”, cioè i migliori corti non selezionati dal comitato apposito, ma piuttosto siano frutto di una selezione parallela (da parte di qualche altro oscuro comitato che agisce nell’ombra), e contemporaneamente racchiudano prodotti che non sono andati in concorso magari perché l’autore non lo voleva, o ha consegnato oltre il termine di scadenza, o ha qualche conflitto d’interesse con la giuria (vabbè, si dirà, questo evidentemente non è un problema…). Questo per dire che si assiste a qualche bella fetecchia, ma comunque non si tratta di programmi di “scarti” e quindi in quanto tale per forza inferiori al concorso. Ad esempio, cito qua e approfondirò in seguito The Spine, il nuovo corto di Chris Landreth e Madagascar, carnet de voyage, entrambi i quali avrebbero potuto anche essere vincitori di qualche premio.
Infine, una parola sui programmi speciali: questo era l’anno della Germania. I programmi ad essa dedicati non erano molti, ma nel complesso di buona qualità. Ne ho visti tre: un’ottima selezione di corti, una discreta selezione di corti di scuola, e un coraggioso programma dedicato solamente a opere astratte. Quest’ultimo, prima visione del lunedì, è stato un po’ pesante ma comunque nel complesso interessante. Va però detto che non si percepiva “Germania” dappertutto come è successo in altre annate, come la Corea, l’India, il Canada o persino l’Italia. Altra serie di programmi in rassegna era dedicata alla danza. E’ un argomento che non mi interessa molto, e quindi non le ho dato priorità: cioè, non ho visto nulla. Completano la rassegna i soliti Spike & Mike, Politically Incorrect e un programma per il quarantennale dello sbarco sulla luna. Complessivamente, comunque, non è parsa un’annata in cui i programmi di rassegna attirassero molto l’attenzione.
Altri appunti sparsi:
- La sigla dell’anno, che utilizza i personaggi della serie animata Chouette, era discreta, ma priva del mordente di quella dell’anno passato. Il sirtaki con velocità progressiva che la caratterizza ha coinvolto il pubblico già dalla seconda proiezione, ma a lungo andare non ci sono state le ovazioni che si son viste in altre annate.
- Il manifesto dell’anno, che vedete in cima all’articolo, l’ho decifrato per primo io. Bravo, Luca.
- Risolti, invece, in generale, i problemi tecnici che l’anno scorso erano stati davvero troppi. Con qualche piccola eccezione, proiezioni puntuali e buona qualità.
- Di contro, le sale del Bonlieu iniziano a mostrare un po’ l’età. E’ giunto il momento di rifare la moquette nella Grande Salle e di aggiustare le sedie ballerine della Petite.
- Spike aveva, come cappello buffo dell’anno, un copricapo da faraone. Però ci è parso un po’ abbacchiato. Povero Spike. Qui a fianco, un fotogramma di un filmato che mostra il nostro eroe.
- Ho mangiato la tartiflette una sola volta, e inizio ad avere il sospetto che mi impedisca di dormire. Diamine. In compenso, ho mangiato una tartare col reblochon fuso che era nettare degli dei. Si gioisca, a questo proposito.
- A causa della dieta Harry Potter (burro-birra) ho preso quasi 2 kg, nonostante le due corsette sul lungo lago. Quest’anno queste ultime dovevano essere tre, ma arrivati al venerdì si inizia a essere un po’ stanchini…
(Ok, le ombre le abbiamo capite… ma le luci quali erano? Beh, mi sono divertito un sacco come al solito, che si vuole di più?)
Next: Vincitori e vinti
Questo è uno di quegli articoli che scrivo praticamente solo per me stesso, ben conscio che la probabilità che interessi a qualcuno dei miei lettori regolari è infima. Fatevene una ragione! :)
Da un po’ di tempo ho ripreso a “perdere tempo” con un’attività che negli anni precedenti avevo abbandonato, e cioè i videogiochi. Sono abbastanza di vedute ristrette nell’argomento: gioco solamente col mio fido Nintendo DS (poiché per mio stile di vita sono spesso in giro e mi piace giocare in treno o a letto, e perché la Nintendo mi è molto più simpatica della Sony) e, in quanto ai titoli che scelgo, mi limito agli strategici a turni, qualche avventura o ai buoni vecchi giochi di ruolo alla giapponese (JRPG). Conseguenza di questo sono le invettive dei miei amici che non trovano mai giuochi adatti per “fare una partita” per dieci minuti, ma solamente giochi con lunghe presentazioni e con curve di apprendimento piuttosto lunghe. Seconda conseguenza è che sono un po’ indietro rispetto ai giochi moderni, quindi potrei dire nel seguito qualche banalità ampiamente sorpassata dall’attualità. Ne correrò il rischio.
Giusto sabato scorso ho finito un JRPG che mi ha colpito, e colgo qui l’occasione per farci su quattro chiacchiere. Spoiler a profusione sulla trama, quindi se avete intenzione di giocare a Dragon Quest V: Hand of the the heavenly bride forse è meglio se smettete di leggere. Già, perché, in quanto a gameplay, DG V non aggiunge praticamente nulla di nuovo. Chi è pratico di questo tipo di giochi sa come funzionano: hai un party di personaggi che, combattendo mostri, accumula esperienza e diventa sempre più forte. Il gioco consiste in pratica nel passaggio da un’area all’altra con mostri sempre più forti inframmezzato da visite a città, castelli, villaggi in cui puoi fare acquisti di oggetti per diventare più potente e parlare con la gente per capire dove sta il dungeon successivo. Certo, non mancano le varianti a questo schema di base e le diverse sezioni sono tenute insieme da una trama generale, che di solito è qualcosa del genere di un messianico “Tu sei il prescelto che deve salvare il mondo”; inoltre ogni gioco ha un suo tono generale che caratterizza dialoghi e personaggi. Riguardo quest’ultimo, io non ho mai amato i popolarissimi Final Fantasy perché trovo che tendano a essere troppo cupi e, soprattutto, a prendersi troppo sul serio; invece i Dragon Quest hanno molto più umorismo e ironia, con dialoghi vivaci e spesso sopra le righe e un design cartoonesco (addirittura creato da un nome celebre come Akira Toriyama, autore di Dragonball) che si adatta benissimo: non è raro trovare dei nemici che fanno le linguacce o che scorreggiano!
In realtà lo scopo generale di DG V è in pieno standard: c’è un’entità oscura che vuole conquistare il mondo e tu lo devi salvare. Quello che lo rende unico è il fatto che la trama si svolge lungo buona parte della vita di te in quanto protagonista; lo confesso: io ho un debole per le storie che si dipanano lungo archi di tempo consistenti, e amo per ragioni simili le saghe generazionali. Una trama che dura decenni e abbraccia tre generazioni non poteva quindi non colpirmi.
Il gioco inizia con la tua nascita, figlio di un re, evento che coincide col rapimento di tua madre e dell’esilio di tuo padre. Nella prima parte del gioco, tu sei un bambino che ha poca libertà di movimento in quanto costretto a obbedire a tuo padre e seguirlo nei suoi viaggi. E’ buffo combattere accanto al babbo poiché lui è enormemente più forte di te, quindi tu rimani lì e fai esperienza quasi gratis: una specie di metafora dell’infanzia, se si vuole. Ovviamente le cose si fanno leggermente più sfidanti quando ti trovi da solo se scappi di notte per andare in un maniero infestato dai fantasmi o finisci sempre da solo nel Regno delle Fate, altrimenti sarebbe troppo facile! La tua infanzia finisce però all’improvviso quando, andando alla ricerca di un principe rapito, uno dei mega-cattivoni uccide tuo padre. Uno dei canoni dei JRPG costituisce nel cosiddetto “protagonista silente”. Il tuo personaggio non parla mai, al massimo risponde “sì” o “no” a domande esplicite: è una sorta di testimone di quello che gli accade intorno. La conseguenza è che l’interpretazione emotiva degli eventi è totalmente a carico del giocatore: il dramma di un bimbo che vede uccidere suo padre davanti è così molto più forte rispetto a un “Noooooooo” da film americano. E non finisce qui: il mega-cattivone fa l’errore dei cattivi da fumetto e ti lascia in vita, ma ridotto in schiavitù. Passano così dieci anni.
La seconda parte del gioco, la giovinezza, inizia quando alla fine riesci a scappare dal campo di lavoro dove eri prigioniero, usando lo stesso stratagemma del Conte di Montecristo. Come tutti i giovani adulti, a questo punto hai due interessi: uno, salvare il mondo, due, la patata. Il primo va male: incredibilmente, si scopre che non sei TU il Prescelto, il salvatore del mondo; le armi e le armature che solo lui potrebbe usare a te non vanno bene! Va meglio la seconda parte, invece, perché incontri più ragazze e a un certo punto ti ritrovi a scegliere chi sposare: la vivace amica d’infanzia, il dolce e timido angelo o la ribelle figlia del ricco del paese. Riflettono un po’ i canoni delle ragazze degli shoonen manga; la trama non cambia a seconda di chi scegli, se non il fatto che nel tuo party entra qualcuno con abilità differenti. Io ho scelto Bianca, l’amica d’infanzia: nulla di personale contro gli angeli e le ricche viziate, per carità! A questo punto continui ad andare in giro con tua moglie per scoprire chi diamine è il Prescelto, visto che non sei tu. Tra una cosa e l’altra, ritorni a occupare il trono che era di tuo padre e…ta-dah! Diventi papà di due bellissimi gemelli! Purtroppo, durante i festeggiamenti dopo la nascita, avviene il secondo grande dramma. Tua moglie, esattamente come tua madre tanti anni prima, viene rapita. La insegui, la trovi, la salvi dal boss nemico, quand’ecco che rispunta lo stesso mega-cattivone che ha ucciso tuo padre anni prima. Ed è ancora troppo forte per te: senza problemi, trasforma in pietra te e tua moglie, e se ne va. Venite poco dopo scambiati per statue da due avventurieri di passaggio e venduti all’asta, separati. Non viene mai detto esplicitamente se tu, in quanto personaggio, rimani cosciente mentre sei pietrificato, ma si lascia intuire che se tu, in qualità di giocatore, assisti a queste scene, allora lo fa anche il tuo personaggio. La scena successiva è probabilmente la più drammatica di tutto il gioco: il tuo acquirente è un ricco mercante che ti piazza in cortile come una specie di nano da giardino. Questo mercante ha appena avuto un bambino, e mentre passano gli anni e le stagioni lo vedi crescere, imparare a camminare, a parlare. Si intuisce quindi il dolore del protagonista che ha appena avuto due bimbi ed è stato separato da loro, e si sta perdendo la gioia di vederli crescere. Passano così altri dieci anni…
La terza parte, la maturità, a questo punto, diventa la più tradizionale, verso lo scioglimento finale (*). Alla fine vieni scovato e liberato dai tuoi figli, e continui le tue avventure con loro. In particolare si scopre che il famoso Prescelto non è altri che il tuo figlio maschio, e poi trovi finalmente tua moglie e liberi dalla pietrificazione anche lei, e alla fine si tratta solo di far fuori i cattivoni finali. C’è solo tempo per ancora un momento di commozione quando ritrovi tua madre solo per perderla subito dopo nel suo disperato tentativo di fermare il boss finale, ma intanto ci pensi tu (tra l’altro è un boss finale particolarmente semplice, l’ho fatto fuori al primo tentativo!). E poi il lieto fine.
Ora, capiamoci: mi rendo conto che questa non è letteratura. Se ci fosse un libro, un film o un fumetto che narra le stesse cose verrebbe tacciato di estrema banalità. Quello che però il videogioco è in grado di fare è di dare all’utente un’identificazione molto maggiore, e quasi l’illusione di poter controllare la storia. In fondo, le possibilità di questo mezzo sono grandiose, e probabilmente siamo appena all’inizio.
(*) Non credo che sia un caso che la struttura del gioco in tre atti ricalchi quella dei film secondo i manuali di sceneggiatura: introduzione, svolgimento/crisi, scioglimento/lieto fine.
Warning 1: parlando di Goldrake, userò i nomi del doppiaggio italiano storico. I puristi se ne facciano una ragione, è solo per facilitare la lettura ad un pubblico più ampio.
Warning 2: spoiler senza pietà.
Ho iniziato a rivedere le vecchie serie animate giapponesi già da una decina d’anni, quindi non sono certo un novellino nel vedere le “storiche” serie senza aspettarmi chissà che. Eppure, per una serie di coincidenze, non ho mai affrontato quella che è considerata la più “mitica delle serie mitiche”: Atlas Ufo Robot. Con pazienza, quindi, ogni mattina, all’ora di colazione, mi son visto un episodietto di Goldrake. Ecco qui qualche considerazione a ruota libera su questa visione postmoderna.
Trent’anni dopo la sua prima messa in onda in Italia, Goldrake fa ancora parlare di sé. Al di là di tutto quello che rappresenta (l’invasione dei cartoni giapponesi, il simbolo di una generazione etc.), però, ci sono anche delle motivazioni legate al prodotto stesso: Goldrake è curiosamente sia immerso nel suo tempo che moderno, e come tale può funzionare da collante tra gli anni ’70 e oggi. Da un lato è palesemente basato sulla moda dei dischi volanti che ha funestato gli anni ’70 ancora più delle Brigate Rosse, ma dall’altro mostra un’anima ecologica che in animazione non si era ancora mai vista. Viene mostrato come il peggio che fanno i cattivi non sia tanto uccidere, conquistare, tiranneggiare, ma piuttosto devastare i mondi inquinandoli e prosciugandone le risorse. L’unica altra serie classica che mi pare affronti il tema in modo simile è, ovviamente, Conan ragazzo del futuro, che infatti è ancora modernissima. Al di là di questo, visivamente Goldrake è una serie ancora molto piacevole da vedere. Altri prodotti coevi all’occhio moderno risultano più difficili da apprezzare: per fare un esempio, Il Grande Mazinga, precedente di un solo anno, appare molto più invecchiato.
Altro elemento puramente anni ’70 è la struttura della trama. Sono ancora lontani i tempi in cui il meccanismo de “il mostro della settimana” verrà superato, ma nemmeno gli episodi sono totalmente intercambiabili come se fossero I Flintstones. Arrivano nuovi mezzi, cambiano i nemici, i protagonisti cambiano ruolo: ci sono parecchi piccoli cambiamenti che danno il senso di passaggio del tempo. Gli episodi memorabili, va detto, non sono molti, e quasi tutti nella parte finale della serie. Ciò però non significa che ci si annoi e le puntate siano prevedibili: la struttura dell’episodio sfugge alla normale logica delle serie robotiche di “scene di vita quotidiana dei protagonisti – piano dei nemici – uscita del robot – combattimento – finale al tramonto”, ma spesso sono più articolate, tanto che le scene riciclate (il classico “Actarus che si butta nel condotto della lavanderia“) non sono usate di frequente, e spesso sono tagliate. La seconda parte della serie poi quasi dimentica alcuni personaggi “terrestri” che erano protagonisti della prima e che costituivano parte dell’ambientazione non-bellica: Banta scompare completamente, Rigel assume una dimensione minore, la vita alla fattoria rimane sullo sfondo. Diverse puntate addirittura sono focalizzate sui cattivi, dedicando un tempo smisurato ai loro intrighi, e passando l’azione ai buoni solo al momento del combattimento. Non poche, inoltre, sono le puntate in cui si opera un primitivo approfondimento psicologico dei personaggi. In particolare, c’è un leit-motiv che ricorre spesso: il ritorno dei demoni del passato, nella forma di persone o di oggetti che parevano lasciati alle spalle, ma che tornano ad esigere il loro tributo al presente, sia dei buoni che dei cattivi. A questo proposito, il cast di personaggi merita una piccola analisi a parte.
Iniziamo dai “buoni”. Actarus è davvero un figo. Non è una cosa da poco, perché tradizionalmente il pilota del robot deve offrire identificazione nello spettatore. Invece Actarus non solo è bello ed eroico, ma è anche freddo, altero e scostante. Impossibile non ammirarlo, impossibile identificarsi. Questa scelta, a mio parere, nasce da un altro aspetto di Goldrake: la sua ricerca di un pubblico femminile. Non solo il tratto è più morbido e accessibile rispetto ai disegni grezzi ed efficaci di moda negli anni ’70 (e che purtroppo non si sono mai più visti da allora), ma si propone un maschietto di cui innamorarsi e ben due personaggi “forti” femminili, Venusia e Maria. Il loro ruolo è molto più marcato delle “pilotesse di robot femminili spara-tette”, che in sostanza erano una sorta di spalla pseudo-erotica del protagonista. Al contrario Alcor, la cui posizione nella serie nasce palesemente dalla necessità di fornire continuità alla saga nagaiana (per chi non lo sapesse: Alcor in realtà è il pilota di Mazinga Z, chiamato Rio Kabuto in Mazinga Z, Koji Kabuto -il suo nome vero- ne Il Grande Mazinga, dove compare nelle ultime puntate, e appunto Alcor in Goldrake), è invece retrocesso a spalla dalla personalità impetuosa e anche un po’ infantile, dimenticandosi della maturità con cui, nelle ultime puntate de Il Grande Mazinga, aveva dato una lezione a Tetsuya.
Non mancano invece altri personaggi ricorrenti, tipici delle vecchie produzioni nipponiche: il bambino (Mizar), la figura paterna (il professor Procton) e la spalla comica, Rigel. Quest’ultimo è un personaggio totalmente al di fuori dello spirito della serie, tanto che la sua efficacia nel suo ruolo comico ne risulta moltiplicata. Un cowboy giapponese nano, pelato, ubriacone e fanatico degli UFO. Geniale, nella sua demenza.
Passando dall’altro lato della barricata, quello che rende affascinanti i cattivi in Goldrake è la loro bassezza morale. Tradizionalmente, nei cartoni animati ma non solo, i cattivi vengono rappresentati come personaggi che hanno scopi diversi rispetto all’eroe, magari ideologie sbagliate e una certa malvagità, ma comunque non privi di un loro valore e un loro senso dell’onore: in questo modo, la loro sconfitta tributa maggiori onori al vincitore. Per la quasi totalità della serie di Goldrake, invece, i vegani tradiscono, si insinuano, utilizzano stratagemi repellenti e vigliacchi per sconfiggere gli umani. E non solo: si pugnalano alle spalle tra di loro, sono invidiosi, arrivisti, crudeli. In una puntata, la conquista della terra fallisce solamente perché il Ministro Zuril e il Comandante Gandal, solitamente rivali, si alleano per far fuori un loro possibile rivale nella lotta per assicurarsi i favori di Re Vega, giunto ad un passo dalla vittoria contro Goldrake. Uccidendolo a tradimento, mantengono lo status quo. Solo nella parte finale, quando da tiranni spaziali i vegani si trasformano in esseri disperati che lottano per la sopravvivenza, assumono una statura morale superiore. Dimostrano allora di avere una famiglia, degli affetti, persino un certo rudimentale senso dell’onore. A tratti, addirittura, Goldrake appare come una punizione divina immeritata.
In mezzo a queste personalità spiccate e nel complesso azzeccate, spicca in negativo il vero protagonista della serie, il robot Goldrake: pare paradossale, ma lo trovo la cosa meno riuscita della serie. E’ un robot privo di personalità, troppo lucido e perfetto. Al di là del fatto che è Goldrake, e della trovata un po’ imbecille di ficcarlo in un disco volante, è anonimo. Non viene distrutto ad ogni puntata come Il Grande Mazinga, né è lento e imponente come Mazinga Z, né grezzo ed efficace come Getter Robot e tantomento ironico come Daitarn III. E’ Goldrake, punto. Lo scarso successo che ha avuto in patria probabilmente nasce anche dalla scarsa incisività del robottone.
Parlando di altri robot, viene spontaneo pensare alle questioni morali, che sono spesso una chiave portante delle serie nagaiane. Anch’esse scompaiono, anzi, sono a malapena accennate. Non c’è traccia del tema dominante di Mazinga, l’ambiguità dell uso del potere derivata dal libero arbitrio (“Alla guida di questo robot potrai essere un dio o un demone, è solo una tua scelta”), aumentando così lo scarto tra i buoni e i cattivi. L’unica puntata in cui si accenna a qualcosa di simile è una delle migliori, quella in cui Actarus scopre che i mostri spaziali che lui combatte sono costruiti utilizzando il cervello degli abitanti di Fleed, in particolare del fratello di una sua amica. L’eroe, nella stessa puntata, viene anche accusato di avere abbandonato il suo pianeta per salvarsi. Purtroppo il dilemma non solo non viene risolto con soddisfazione, ma viene anche ignorato nel resto della serie.
Nel complesso, quindi si tratta di una serie che affianca ad alcuni punti di innegabile interesse numerose banalità e occasioni perdute. Non è un cattivo prodotto, ma è chiaro che la popolarità di cui gode in Italia, ora come trent’anni fa, deriva solo dal fatto di essere il primo robottone giunto da queste parti, e null’altro.
E infine, per concludere questa inconcludente rassegna e per premiare (punire?) chi mi ha letto finora, una curiosità che mi ha tormentato per tutta la visione: Actarus è della seconda o della quarta? Fa Actarus-Actari o Actarus-Actarus?
Qualche anno fa Daniel Pennac (che, tra parentesi, riconosco essere bravo ma terribilmente antipatico e supponente) stilò un decalogo sui diritti dei lettori, un’iniziativa per rendere la lettura un’attività meno “polverosa” e accademica. Uno di tali diritti riguardava il “diritto di non finire un libro”, come per dire che se il libro fa cagare, non vi mangia nessuno se lo mollate a metà. Ecco, io confesso che qualche volta ho esercitato questo privilegio, ma con terribili sensi di colpa. Innanzitutto c’è il fattore economico: al ristorante, io seguo la filosofia di “io pago, io mangio”, cioè mangio tutto quello che ho ordinato anche se non mi piace perché soffro troppo ad abbandonare del cibo pagato caro (a casa non mi capita mai perché mi cucino quello che mi piace, son mica scemo!). Per i libri, la situazione è simile: “io pago, io leggo”. Secondariamente, sono convinto che la lettura di qualunque libro, per quanto banale, sciatto e scritto male, accresca le conoscenze e renda le persone migliori. Con l’eccezione di Moccia. C’è un limite a tutto.
Ripensando quindi ai libri che ho abbandonato (almeno temporaneamente, chissà che non mi capiti di riprenderli in mano!) non mi vengono in mente molti titoli. Eccone qualcuno.
L’idiota di Fedor Dostojevskij: io eDostojevskij non siamo mai andati particolarmente d’accordo. Ho letto due volte Delitto e castigo ma non mi ha lasciato praticamente nulla, almeno a livello conscio. Sì, un tipo ammazza una vecchietta e poi si sente in colpa. Per settecento pagine?!? E pensare che l’ho riletto appunto perché della prima lettura non ricordavo niente e la cosa mi infastidiva… L’idiota l’ho provato all’inizio del 2006 ma, arrivato a metà, mi son reso conto che non solo stavo arrancando, ma che continuavo a confondere i personaggi e non ricordavo cosa avessero fatto in precedenza, sintomo del fatto che non stavo capendo una ceppa e che il libro non mi stava dicendo nulla. Ho deciso quindi di lasciarlo, ma secondo me prima o poi io e Fedor riusciremo a trovare un accordo.
Il passaggio smeraldo, primo libro della Pentalogia del Prisma di Dark Sun, di Troy Denning: da giovane, credo di averne già parlato, mi piaceva il fantasy, e leggevo un pacco di romanzi del genere. Qualcosa di decente lo si poteva trovare qua e là, ma nel complesso la quantità di spazzatura che mi sono sciroppato è impressionante. Probabilmente questo libro è stato l’apice, era talmente scemo che, per fortuna, son rinsavito e ho smesso di dedicarmi a questo tipo di letteratura. Non tutto il male vien per nuocere.
Un amore di Swann di Marcel Proust: ancora un classico, ma su questo ho una buona scusa. Tra la quarta e la quinta liceo, il mio professore di italiano diede alla classe una lista spaventosa di libri da leggere durante l’estate in modo da prepararsi allo studio del Novecento, in Italia e all’Estero. Saranno stati 30-40 libri, comprendenti mostri come l’Ulisse di Joyce o L’uomo senza qualità di Musil o l’opera omnia (o quasi) di Kafka, e porcate come Il piacere di D’Annunzio o I Malavoglia di Verga (lupini!). In questo elenco, c’era anche la lettura di un romanzo a scelta della Recherche di Prouse, e io a caso presi Um amore di Swann. Come avrete intuito, non ce l’ho fatta, ma per un diciottenne credo che sia quasi fisiologico non riuscire a digerire Proust. Affrontare questo autore è invece adesso uno dei miei prossimi obiettivi, anche perché la fenomenologia del ricordo, come forse avrete intuito leggendo questo blog, è uno degli argomenti che più mi stimolano.
The Essential Howard the duck di Steve Gerber e Val Mayerik: persino un fumetto! Gli Essential, per chi non lo sapesse, non sono riassunti, ma sono volumi enormi su carta economica che ristampano vecchi fumetti Marvel. Howard the duck è un fumetto culto degli anni ’70, da cui hanno tratto il controverso film (molti lo odiano, diversi lo amano, io non l’ho visto) e che parla di un papero che fuma il sigaro e si candida alla presidenza degli Stati Uniti, una sorta di versione per adulti del mondo Disneyano. Eppure, complice anche la lunghezza, la ripetitività e comunque l’abitudine a leggere fumetti per adulti con un grado di maturità ben superiore di qualunque cosa possa mai uscire dalla Marvel, me l’han fatto venire a noia. Ahimé.
Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov: un altro russo, e tre volte ci ho provato, diamine! Ho perso il conto delle persone, anche affidabili, che mi hanno tessuto le lodi di questo libro, raccontandomi di quanto fosse meraviglioso, quindi ho voluto insistere. Niente da fare, c’è qualcosa, ne Il Maestro e Margherita, che me lo rende non-interessante. Dopo poche decine di pagine, regolarmente, perdo interesse, lo leggo sempre di meno e finisco per mollarlo. Non credo ci proverò più.
Fisica, volume I di Richard Feynman: anche un saggio scientifico in questo elenco, ma ho una buona scusa. Il testo di Feynman è straordinario, è interessantissimo e propone spesso visioni “laterali” a molti aspetti della fisica di base che la rendono viva e stimolante. Il problema, però, sta nell’edizione che ho preso: è bilingue, col testo originale e a fronte quello italiano a lato, e brossurata. Il libro quindi diventa larghissimo e scomodissimo da leggere, soprattutto per chi, come me, legge soprattutto a letto. Inoltre la traduzione italiana è pessima e priva di qualunque revisione. Non so come una casa editrice come la Zanichelli possa pubblicare un libro con scritto sistematicamente “perchè” al posto di “perché”. Scrissi anche per protestare, e mi risposero che “era l’unico modo per pubblicarlo, e comunque c’è il testo a fronte”. E allora me lo compro in inglese!
Gli indifferenti di Alberto Moravia: sarebbe stato un libro del lotto “estate tra la quarta e la quinta”, ma a quei tempi non ci pensai nemmeno. Lo affrontai invece pochi anni fa, una volta che ero rimasto senza nulla da leggere e me lo ritrovai tra le mani. Quello che mi rese difficilissima la lettura, e alla fine me la fece abbandonare, era il fastidio per quello che accadeva al protagonista. Succedeva infatti che gli capitassero una serie di situazioni terribilmente imbarazzanti; per l’empatia che è inevitabile provare col personaggio principale, non potevo fare a meno di sentirmi in imbarazzo io stesso (“No! Non voglio leggere questo!”), e la cosa mi infastidiva terribilmente, tanto da spingermi alla resa.
Insomnia di Stephen King: in generale King mi piace. Ha i suoi difetti (alla fine il punto chiave dei suoi romanzi è spesso lo stesso – la distruzione di una famiglia o, in senso più esteso, della società -, e nei finali di solito l’autore non sa come risolvere le situazioni e finisce per far esplodere tutto), ma è un grande narratore, e non è vero che Clive Barker è più bravo di lui. Però Insomnia è uno dei suoi libri proprio riusciti male: noioso, stupidino, non porta da nessuna parte. Almeno, fino alla parte in cui sono arrivato (tre quarti del libro); visto che i finali sono di solito la parte peggiore di King, non mi pento particolarmente di averlo mollato.
E infine, una rassegna di roba varia che ho visto e che ritengo che valga la pena di essere citata. In alcuni casi perché, pur non avendo vinto premi, sono meritevoli di citazione, in altri casi perché è roba talmente brutta o scema che è uopo tenersene alla larga, o deriderla, o tutti e due.
Dai lungometraggi:
Piano no mori (La foresta del piano) di Masayuki Kojima: lungometraggio giapponese, un bel polpettone shoonen, è interessante per la struttura che si innesta sugli anime sportivi (gioventù, rivalità, passione, talento, impegno…) per parlare di pianisti classici. Mancano solo le mosse speciali, per il resto sarebbe quasi indistinguibile da una versione impomatata di Holly e Benji. L’ho visto il lunedì mattina, prima visione dell’annata, ed è stato un buon inizio.
Moonbeam bear and his friends di Mike Maurus (Germania): al contrario, questo l’ho visto di venerdì, quando la settimana ormai scemava e si inizia a pagare qualche errore di programmazione delle visioni. Ci si ritrova ad affrontare quindi scelte in cui il meglio è la storia di un orsetto che amava molto la luna, tanto che la ospita a casa sua e la batte a dama. Credo di aver avuto un enorme gocciolone di sudore sulla nuca per tutta la proiezione, ma in fondo si tratta di un film nella tradizione teutonica pedagogica, ed è abbastanza tenero e apprezzabile da un bambino.
Dai cortometraggi in concorso:
Far away from Ural di Katariina Lillqvist (Finlandia): signori, il vincitore del premio “Corto molesto” dell’anno! Far away from Ural è un’infinita (almeno, secondo la percezione dello spettatore) accozzaglia di sgraziate metafore visive sulla guerra civile finlandese. Pur ammettendo che l’ignoranza sull’argomento possa avere inficiato la visione (prima di questo corto ignoravo che esistesse una guerra civile finlandese!), 25 minuti di signori con una valigia nel culo sono intollerabili. Purtroppo non sono riuscito a dormire.
Štyri (Quattro) di Ivana Sebestova (Slovacchia): lo schema è già stato visto: narrare la stessa storia da quattro punti di vista differenti, facendo in modo che ogni successiva ripetizione aggiunga qualche dettaglio e getti una nuova luce sulle precedenti. Non è un’idea nuova, certo, ma è sempre affascinante, e in più Styri è costruita in uno stile grafico particolarmente efficace, non lontano da Tamara de Lempicka. Speravo molto in un premio per questo lavoro.
Chainsaw di Dennis Tupicoff (Australia): un altro candidato del pubblico (cioè, mio) ad un premio, è questo lungo lavoro principalmente in rotoscopio. Chainsaw è una storia quasi alla Hemingway, di tori e toreri, di uomini virili che abbattono alberi, di tradimenti, di belle donne e di mezzuomini. Il rotoscopio lascia sempre un po’ di amaro in bocca, è una tecnica che appare paradossalmente un po’ artificiale, ma è un corto che si segue con piacere.
Kizi Mizi di Mariusz Wilczynski (Polonia): sembra quasi un corto polacco delle barzellette. Lungo oltre 20′, è un’incomprensibile storia di un gatto e di un topo, disegnata in maniera, ehm, “rudimentale” che mostra più volte le stesse situazioni, a volte con alcune variazioni e a volte no, il tutto con una musica stridente e volutamente fastidiosa. Eppure, contriariamente ai miei compagni di visione, non me la sento di candidare Kizi Mizi al premio “Corto Molesto” perché col proseguire della visione con la ripetizione di scene inizia ad assumere un ritmo avvolgente, quasi ipnotico. Non è un lavoro privo di interesse, benché sia assai ostico.
Paradise di Jesse Rosensweet (Canada): toh, il vecchio tema del libero arbitrio e della società opprimente che ci costringe in ruoli predefiniti! Paradise sfrutta una tecnica particolare, è costruito con pupazzetti metallici agganciati ad una base (credo che ci fosse una linea di giocattoli simili, in passato) che li fa scorrere, appunto, come se fossero delle rotaie in percorsi prestabiliti. Applicando la tecnica a un’ambientazione “marito che lavora, donna a casa” la metafora è evidente. Il finale è inoltre particolarmente pessimista.
Dai corti fuori concorso:
Corte eléctrico di Maria Arteaga (Colombia): segnalo questo lavoro colombiano, anche se alla fine non ho idea se mi sia piaciuto o meno. In un bel 3d pittorico, si narra la storia di un condominio moderno visto dal tipo che lava i vetri (per qualche strana ragione, un prestante figaccione). Ci sarà poi l’immancabile serial killer a dare un tocco di brivido. Corte eléctrico è ben disegnato, la narrazione è fluida e si segue con piacere, ma lascia una sensazione di “embè?” che è proprio fastidiosa.
Kodomo no keijihogaku di Koji Yamamura (Giappone): il nuovo lavoro dell’autore del pluripremiato Atama Yama non è passato in concorso principale, ed è proprio un peccato perché l’ho trovato migliore non solo di molti corti in concorso, ma forse anche dei precedenti lavori di Yamamura. Kodomo no keijihogaku, “Metafisica del bambino”, è una raccolta di brevissime scenette, ognuna delle quali rappresenta con una metafora visiva un tipico comportamento infantile. Non tutte sono immediatamente comprensibili (magari i bambini giapponesi funzionano in modo differente!), ma il corto, anche se disegnato in modo un po’ schematico, funziona.
Majakovsky – Drei Liebesgeschichten (Majakovsky – Tre lettere d’amore) di Svetlana Filippova (Germania): grazie a questo corto, abbiamo imparato che rappresentando eventi insignificanti della vita di un poeta in un film particolarmente brutto e molesto è possibile rovinare la fama del poeta stesso. Per me, ora Majakovsky è un pessimo poeta.
Ça ne rime a rien di Claude Duty (Francia): ah, che esperimento interessante! Lo stesso filmato, quasi completamente astratto, viene mostrato quattro o cinque volte, ogni volta con una musica differente. L’accostamento tra immagini e musica genera quindi ogni volta sensazioni completamente differenti, anche se le immagini sono proprio le stesse. Arte concettuale.
E ora, qualcosa di completamente diverso (dalla TV):
Rick and Steve the happiest gay couple in the world di Q. Allan Brocka (USA): una sit-com gay costruita animando i playmobil? Ha senso? Eccome se ne ha! Rick and Steve è spassosa, ricca di belle battute, con umorismo che passa dall’auto ironia del mondo gay all’humour nero alle più becere battute pecorecce, e tutto in puro stile sit-com, con ritmo e personaggi chiaramente definiti. Una scoperta davvero interessante.
Wanted di Woonki Kim (Corea del Sud): la vita in una cittadina coreana scorre normalmente, tra piccole antipatie, personaggi pittoreschi e la voglia di tirare avanti in un modo o nell’altro, quando una strega provoca una terribile inondazione (no, non è Angelina Jolie). Appare come una specie di favola, ma proseguendo la visione è chiaro che si parla di un vero tifone arrivato in Corea, con evidenti accuse a come sono stati gestiti gli aiuti da parte delle autorità. Questa contaminazione tra fiaba e realtà getta su Wanted una luce migliore di quello che sembra inizialmente.
Bytis: Lamsi and Anthony Evans di Thomas B. Edgar (GB): non credo di aver mai visto a un festival nulla di peggio di questo programma. Inconcepibile. Un pupazzetto di agnello, mosso probabilmente a mano, interagisce con un ospite reale come accadeva nel Muppets Show, ma senza battute lontamente degne, senza animazione lontamente passabile, senza un briciolo di gusto nei dialoghi. Quasi illuminante!
Torniamo ai corti, questa volta di scuola:
Straying Little Red Riding Hood di Pecoraped (Giappone): parodie di favole ne abbiam viste tante, anzi troppe, ma quando sono fatte con un gusto per la contaminazione, con un’evidente spirito surrealista (Rabbit è il paragone più immediato), con la follia che hanno solo i giapponesi quando ci si mettono, ben vengano!
Black Dog di Dong-rack Son (Corea del Sud): triste corto coreano di un cane randagio che vaga per le strade. Potrebbe essere quasi definito come neo-realista per l’intento e per il tono con cui è narrato, e anche se non proprio originale Black Dog è a modo suo ben realizzato. Curioso, i cani in animazione funzionano meglio dei gatti.
L’amour m’anime di Chloé Mazlo (Francia) l’autrice di questo corto si mette in piazza e racconta alcuni episodi della sua vita (in particolare, quella amorosa) utilizzando una pletora di diverse tecniche di animazione. L’animazione al tempo dei blog, certamente, ma l’effetto patchwork, con la sola unità della protagonista, genera un corto di indubbio interesse.
E infine qualcosa dai programmi speciali:
Maa-aa-aa! di Chetan Sharma (India): primo corto del programma dei corti indiani, ha sbalordito un po’ tutti. Che nel 2006 si facessero ancora imitazioni del Disney classico, animando rodovetri con animaletti buffi e canterini, è una sorpresa. Che invece i risultati siano così terribili, in fondo era prevedibile.
Une autre histoire du cinema: che spettacolo! Cortometraggi muti degli albori del cinema (di animazione e non), con sua maestà Serge Bromberg che li accompagna con un pianoforte a coda! Peccato che, ehm, la combinazione è letale per le mie cellule vegliatrici (ammesso che esista qualcosa di simile, ma pazienza) e ho ronfato pesantemente per quasi tutta la proiezione…
Barry Purves: E infine, un programma speciale per intiero, quello dedicato a Barry Purves. La mia strada non si era mai incrociata con quella di questo animatore britannico, e sono andato a vedere la sua monografia un po’ dubbioso. Amo poco le monografie, di solito stancano perché gli autori capaci di dire tante cose diverse e dirle per bene sono davvero pochi. Ebbene, Purves è uno di essi: anche quando narrano trame un po’ stupidine come il Rigoletto, i suoi corti sono spettacolari, fatti con marionette espressive e ambienti sontuosi.
Sì, è finita. A chi è arrivato in fondo, in omaggio una suoneria con un animaletto buffo che scorreggia.