E ora basta con le facezie, vi siete divertiti abbastanza: passiamo ad una serissima e precisa rassegna dei vincitori. La giuria quest’anno ha sorpreso distribuendo premi a corti che il mio entourage non aveva proprio preso in considerazione. Questo ovviamente non significa che il mio entourage sia fatto di incompetenti, diamine, ma piuttosto che la giuria è stata un po’ pazzerella e birichina. Giuro.
Iniziamo dagli ultra-minori. I films de command (prodotti fatti su commissione) ho smesso di vederli già da un po’, una volta resomi conto che mi ci facevo delle dormite inverosimili. Lo spot pubblicitario vincitore è stato Play-Doh, per la Sony Bravia (a sinistra), che hanno mostrato per intero e che in effetti è bello. A volte mi chiedo perché non vediamo mai gli spot migliori in Italia. Videoclip vincitore è stato invece Dry Clothes per gli Annuals, e il consueto ridicolo premio per il film educativo, scientifico o d’impresa (di solito ce ne sono due o tre in concorso) è andato a Factually Fun Idents X 9, della Bibigon. Sospetto che quest’ultimo premio venga dato come una sorta di incoraggiamento a far produrre questo tipo di film e quindi a trovare nuove fonti di finanziamento per l’animazione.
Altri premi minori che non ho visto sono quelli televisivi. Non ho un granché di metro di giudizio, avendo visto poco, ma Ombretta, che la tivù se la sciroppa sempre tutta dall’inizio alla fine, sostiene che ci fosse di meglio. Speciale TV vincitore è stato il tedesco Engel zu Fuss, premio speciale (ricordo qua una volta per tutte che “premio speciale” è un modo carino per dire “quello che è arrivato secondo”) alla serie TV per Talented Mouse, inglese, e Cristallo per Moot Moot “L’enfer de la mode” (a destra), che dallo spezzone visto pare una gustosa parodia del mondo della moda interpretato da pecore.
Come ho già detto, ho il cruccio di aver visto poco dei premi di scuola, però alla fine ho visto tre vincitori su sei. Il premio Canal+ Family, premio apparentemente minore ma di quelli che cacciano soldi, va a Oktapodi, Francia, di Julien Bocabeille, François-Xavier Chanioux, Olivier Delabarre, Thierry Marchand, Quentin Marmier, Emud Mokhberi (a sinistra. Oktapodi, non Mokhberi!), che è una rocambolesca storia d’amore tra polpi in una cittadina greca, realizzata in uno stile 3D di chiara impronta Gobélin.
I premio dei babanotti rincoglioniti “Prix du Jury Junior” va a Margot, Belgio, di Gerlando Infuso. E’ un prodotto belga nel senso più ampio e razzista del termine, abbastanza ben realizzato nelle sue marionetta ma molto noioso e mal narrato, tanto che me lo sono anche un po’ pisolato.
Passando ai premi della giuria, la menzione speciale è andata a Le voyageur, ancora belga, che non ho visto, di Johan Pollefort, mentre il premio speciale è andato a My Happy End, Germania, di Milen Vitanov, e questo l’ho visto e apprezzato parecchio (a destra). Parla della relazione di amicizia di un cane con la propria coda, vista come se fosse un essere quasi indipendente. Graficamente è realizzato con un tipo particolare 3D che sta andando di moda e che ricorda molto il tradizionale disegno su carta. Pare paradossale, ma funziona, è divertente e commovente.
Vincitore è stato Camera Obscura, Francia, di Matthieu Buchalski, Jean-Michel Drechsler, Thierry Onillon. Non l’ho visto, ma il 3D in cui è stato realizzato appare stiloso ed elegante.
E ora passiamo ai pezzi più importanti, quelli di cui ho visto tutto. Lungometraggi, premio del pubblico: Die Drei Räuber,I tre ladroni (a sinistra). Non l’ho visto. D’oh. Beh, dai, mettetevi voi nei miei panni; non è facile aver voglia di vedere un film la cui descrizione recita: “In una notte fredda e buia, tre briganti fermano una carrozza alla ricerca d’oro, ma fanno piuttosto la conoscenza di Tiffany, la piccola orfanella”. Quando però qualcuno lo ha visto e ha iniziato a girare voce che fosse un film ganz-ganz, non son più riuscito a recuperarlo. Pazienza.
La menzione speciale per il lungo è andata a Plympton, col suo Idiots & Angels (a destra). Questo film, a dir la verità, non è mai stato considerato come uno dei favoriti, in parte per la sciocca argomentazione “Plympton ha già vinto più volte”, e in parte perché, in effetti, tale film ha qualcosa che non va. Idiots & Angels parla di un uomo squallido e cattivo a cui nascono le ali e che si trasforma in angelo. Ha una cifra più seria del solito Plympton, anche se non manca un certo umorismo nero di fondo e qua e là di situazioni un po’ schifose (il vero marchio di fabbrica di Bill!), è completamente privo di dialoghi ma la cosa non disturba, è ambientato quasi tutto in un due luoghi precisi ma la mancanza di azione non è un problema. E’ difficile dire cosa non vada in Idiots & Angels, perché è un film che emoziona, diverte ed è ben realizzato; però l’alchimia, in qualche modo, non funziona.
Il vincitore è stato Sita sings the blues, di Nina Paley, e direi che indubbiamente il film merita la vittoria, per la sua originalità e per la cura della realizzazione. Sita sings the blues si svolge su tre piani differenti: un piano autobiografico, in cui Nina Paley racconta di una storia finita male con un tipo, uno leggendario, in cui l’autrice reinterpreta l’epopea indiana del Râmâyana ricalcandola sulle proprie esperienze, e un piano, come dire, “pseudo-narrativo” in cui alcuni indiani, conversando in modo apparentemente casuale, tirano le fila del racconto. I rimandi incrociati quindi non mancano, e i tre piani sono disegnati in stile molto differente (a sinistra e destra due degli stili) e con tecniche di animazione diverse. Come se la struttura non fosse già abbastanza elaborata, le parti dedicate alla leggenda sono in musical, costellate di canzoni della cantante jazz anni ’20 Annette Hanshaw che più o meno si adattano alle situazioni, cosa che rende il cortocircuito ancora più straniante. Se vogliamo trovare un difetto, è che queste canzoni sono un po’ troppe e verso la fine stancano, ma per il resto è un film proprio bello, e c’è da sperare che possa godere di una distribuzione decente.
Ed eccoci ai premi dei cortometraggi in concorso, il piatto forte della serata.
E invece no, partiamo dai minori. Premio FIPRESCI (giornalisti) a Ona koja mjeri, Croazia, di Veljko Popovic (meglio noto come “il pirata Popov”, per l’abbigliamento pittoresco che sfoggia questo signore). E’ un corto che parla di una fila di persone che spingono un carrello in mezzo a un deserto, una chiara allegoria del consumismo. A noi pubblico non aveva colpito più di tanto, però il Pirata Popov è un signore buffo, quindi un po’ felici per lui lo siamo.
Il premio Sacem (equivalente della SIAE) per la miglior colonna sonora è andato a KJFG No 5, Ungheria, di Alexei Alexeev. Questo corto merita il link (e la fotina a sinistra) perché anche se si tratta di una semplice gag, è talmente gustosa e ben riuscita che ha fatto innamorare tutti. Si sperava in qualche premio per KJFG No 5, che comunque è il vincitore morale del festival, ma non si aspettava quello per la colonna sonora, poiché in effetti (se l’avete visto lo capite) la colonna sonora è, ehm, spartana, anche se essenziale alla narrazione.
Premio Jean-Luc Xiberras per l’opera prima è finito al curioso Portraits ratés à Sainte-Hélène, Francia, di Cédric Villain, a destra. Con piglio documentaristico fitto di ironia, il film racconta di come è vissuto Napoleone a Sant’Elena e delle vicissitudini dei calchi del suo viso dopo morto. Graficamente è essenziale ma colorato, e probabilmente è stata un’ottima scelta da parte della giuria.
Personalmente, invece, ho amato molto poco il corto scelto dal pubblico (malnato pubblico bue!), Skhizein, Francia, di Jérémy Clapin. Un signore viene colpito da un meteorite, e inizia a vivere a 92 centimetri da se stesso. Anche senza il titolo, non è difficile capire che si tratta di un’allegoria della schizofrenia. Non mi è piaciuto perché la realizzazione grafica mi è parsa sgraziata e poco consona al tema, e perché la narrazione è goffa e noiosa, nonostante qualche spunto interessante.
Passando finalmente ai premi della giuria, due son state le menzioni speciali. A sinistra, Morana, Croazia, di Simon Bogojevic Narath è un 3d pittorico, giocato su due piani: da un lato uno sciamano e dall’altro un frenetico mondo moderno, ma non è chiaro quale sia la parte onirica e quale la parte reale, o se siano entrambe reali, o entrambe oniriche. Al di là della bella realizzazione, il fascino del corto risiede in questa ambiguità.
Seconda menzione è andata a Berni’s Doll, Francia, di Yann J. (a destra), che sicuramente non ha vinto il premio per l’originalità del soggetto. Si tratta infatti di una rielaborazione del mito di Frankenstein attraverso le bambole gonfiabili. No, il premio è andato per l’ottima atmosfera di squallore, per l’humour nero, per il ritmo di narrazione compatto e preciso. Un buon lavoro.
Forse la sorpresa maggiore, foto a sinistra, è stata invece il Premio Speciale della giuria, andato a La dama en el umbral (La dama sulla soglia), Spagna, di Jorge Dayas. Si tratta di una storia “horror” in stile ottocentesco (Poe è il riferimento più immediato) che parla della storia di un capitano invitato ad una cena di un club molto particolare. Stupisce il secondo premio perché, pur essendo una storia intrigante e ben narrata, la realizzazione è in un 3d piuttosto povero e privo di fascino, e comunque perché di storie simili ne abbiamo già viste tante.
Nessuna sorpresa invece per il vincitore del Cristallo di Annecy, scelta concorde con la giuria dei babanotti: La maison en petits cubes (Giappone), di Kunio Kato. I giapponesi che fanno cortometraggi, di solito, producono stili profondamente diversi da quelli degli anime: anzi, probabilmente, in un paese che produce così tanta animazione, fare cortometraggi è un mezzo per esprimersi in un modo totalmente differente dallo stile imperante. Il lavoro di Kato obbedisce solo in parte a questa regola: non è un film estremo o sperimentale, è solo una narrazione pacata disegnata in toni pastello. La storia del vecchietto che costruisce piani alla sua casa sull’acqua man mano che sale il livello del mare ha conquistato tutti perché riesce a parlare della nostalgia di un periodo che non c’è più con grazia, commozione e usando un espediente narrativo originale e azzeccatissimo. Un plauso al timidissimo e giapponesissimo signor Kato.
(Next: Selezione sparsa di roba bella e roba brutta)
(Ormai siete diventati grandi, il link per spiegare cosa diamine è il festival di animazione di Annecy non lo metto più)
Annecy, anno sesto (per me), anno dell’India, trovare un riassunto in breve per giudicare l’edizione è sempre impossibile, tanto che inizio tutti gli articoli a proposito allo stesso modo. A chi mi fa l’inevitabile domanda “Com’è stato il festival?” io rispondo che è stata un’edizione “media”, e infatti lo è stata. Le cassandre sostengono che “quest’anno il livello era discreto ma mancavano film di grande spessore”, ma io ridacchio sapendo che è un mantra che viene ripetuto almeno dal 2004, quindi se le sentite non date loro ascolto. A sinistra, la locandina del festival 2008. Ci ho messo quasi due giorni per capire che rappresenta un elefante.
Quest’anno ho stabilito il mio record di programmi visti: 29 programmi, il che significa cinque al giorno per sei giorni, con una sola “bigiata” giovedì alle 14 per fare la spesa dei cadeaux. E ciononostante, mi sono sfuggite parecchie cose: mai come nel 2008 ho avuto la sensazione di avere sbagliato la scelta dei programmi, anche se ripensandoci, i programmi davvero poco interessanti che ho visto saranno stati due o tre. Ma cosa c’era, insomma?
Continua, dopo l’anno scorso, l’onda dei lungometraggi: anche quest’anno, l’enormità di 9 in concorso e 12 fuori concorso. Ovviamente, molti di questi non erano proprio capolavori, alcuni addirittura derisi a scena aperta. In concorso, al di là del vincitore Sita sings the blues, pregevole e molto originale anche se non privo di difetti (qui a destra), vanno segnalati il nuovo Plympton Idiots and angels, più serio del solito ma non completamente riuscito, il giapponese Piano no mori, un classico shoonen, e Die Drei Räuber (I tre briganti), film che purtroppo non ho visto perché di favolette di solito non ho molta voglia, ma che mi hanno segnalato come ricco di stile e con un uso originale della colonna sonora. E’ stato piacevole, al di fuori del concorso, vedermi il nuovo film di Evangelion: You are (not) alone sul grande schermo, mentre il revival di Hokuto no Ken (Ken il guerriero) è stato molto gettonato ed è tamarro come previsto. Però non quanto il film di Appleseed che non ho visto per la mia innata antipatia per Shirow, ma che dicono essere una chicca di luoghi comuni e mancanza di senso del ridicolo. Cioè, ancora di più che nel manga di Shirow!
Questa quantità di lunghi è andata a scapito dei corti, sia in concorso che in rassegna. Il concorso, addirittura, è stato ridotto a soli quattro programmi invece dei soliti cinque; ciononostante l’impressione è stata che la qualità fosse analoga agli anni precedenti: meno corti selezionati con la stessa qualità significa che il livello globale è sceso. Il vincitore, La maison en petits cubes di Kunio Kato, che è un bel lavoro, era stato ampiamente pronosticato da tutti, non solo per la sua qualità, ma anche perché ha le caratteristiche tipiche che mettono d’accordo le giurie. Un po’ come è successo più volte per Father and Daughter, senza però la malafede che si sospetta per quest’ultimo lavoro. Gli altri vincitori, invece, sono giunti un po’ tutti inaspettati: una storia alla Poe in CG, La dama en el umbral, una rielaborazione del mito di Frankenstein, Berni’s doll, una storia onirico-sciamanica, Morana. Il premio del pubblico, invece, è andato come previsto ad un corto che ho detestato Skhizein, in quanto corto più “evidente” in un programma più debole degli altri.
Mio cruccio dell’anno è stato che ho visto la miseria di due programmi di film di scuola su cinque, per miei errori di programmazione e anche perché, forse, sono stati messi meno in evidenza del solito. Ho perso il vincitore, Camera obscura, ma ho visto il secondo premio My Happy End (che parla della relazione di un cane con la sua coda, è davvero delizioso e lo premio con l’immagine qui a destra).
Il buon vecchio Panorama è stato rinominato nel più freddo e preciso “cortometraggi fuori concorso”. Me lo sono visto tutto, tranne un singolo corto che ho dovuto abbandonare per andare a fare la popò. Ma intanto era israeliano, e gli israeliani fanno solo corti che parlano di guerra. Era una selezione più che dignitosa, e anche se probabilmente non c’è stato un singolo corto che mi sento di dire: “Per giove pianeta! Questo doveva essere in concorso e potrebbe essere un vincitore!” (come era successo due anni fa per The danish poet o Brothers Bearheart), sono soddisfatto della visione che mi ha permesso di vedere un po’ di roba diversa. Cioè, di avere un panorama.
E ora, un po’ di dolenti note.
Da un anno all’altro mi dimentico sempre di una cosa: che i programmi dedicati alla televisione sono pressoché tutti scadenti. Eppure me lo scordo, e finisco sempre per piazzarne un paio. Qualcosina di decente ho visto, ma sono convinto che avrei potuto far uso migliore del mio tempo. Inoltre, non ho visto nulla dei vincitori: Moot Moot “L’enfer de la mode” per le serie e Engel zu Fuss per gli speciali.
Altra parte poco incisiva dell’edizione 2008 è stata fornita dai programmi speciali. La nazione dell’anno, l’India, non ha più di tanto da offrire, e solo 4 programmi le son stati dedicati. Ne ho visti due: cortometraggi indiani, davvero pessimo, e cortometraggi di scuola indiani, che invece è stato abbastanza piacevole, il che fa ben sperare per il futuro. Inoltre, accanto ad alcuni classici come Spike & Mike, Politically Incorrect, Animation Citoyenne e “i cartoni zozzi” (nome amichevole per Spicy Animation), c’è stata una rassegna dedicata ai primordi dell’animazione, con rassegne di roba veeeeeecchie, spesso del primo decennio del XX secolo. Qui accanto, giusto per fare un po’ di colore, un’immagine da un corto di scuola indiano.
Pur essendo ben lontani i fasti della prima di Azur et Asmar, o di Cars, o anche di Les triplettes de Belleville, qualche anteprima c’è stata pure quest’anno. Durante l’inaugurazione è stato proiettato Valse avec Bashir, che pare fosse un bel film. Israeliano, indovina un po’, parla di guerra! Ben più notevole è stata la proiezione del nuovo corto Pixar, Presto, che è un dinamicissimo e spassoso omaggio a Tex Avery (a destra).
A margine di tutto questo, una nota amara: la presenza italiana è la minima a memoria d’uomo (cioè, a memoria mia, che sono un uomo). Niente nei corti, un paio di spot, due serie televisive: Sturmtruppen e, preparatevi, Pipù, pupù e Rosmarina, per di più firmata da Enzo D’Alò. Vabbè, intanto abbiam battuto i francesi a calcio…
Infine, qualche considerazione sparsa.
Roba ye-ye:
– La sigla dell’anno era strepitosa, pensata apposta per coinvolgere il pubblico. Normalmente succede che il pubblico stabilisca spontaneamente come reagire di fronte alla sigle (facendo versi, gesti, rumori) intorno al giovedì, mentre quest’anno già al martedì il pubblico era in delirio.
– Ho mangiato due volte la tartiflette, nettare degli dei.
– E’ sempre più facile trovare un caffè decente.
– Sono andato a correre due volte in riva al lago. E’ un bel percorso.
– Abbiamo scoperto che a Courmayeur fanno in generale un’ottima pizza.
– Ospite d’onore e membro della giuria è stato Matt Groening. E’ un panzone!
Roba buh-buh:
– Qualche problema tecnico di troppo nelle proiezioni. La cosa rischia di diventare imperdonabile, se sei costretto a vederti di nuovo quasi 10′ di bambini indiani sfruttati da multinazionali senza scrupoli.
– Mia impressione, o c’era meno gnocca del solito? O magari ci ho fatto l’abitudine?
– Non esistono più kebab da asporto ad Annecy.
– Il wi-fi del Bonlieu (il luogo primario del festival) c’è ma funziona maluccio, ma in compenso in Francia, luogo civile, è semplice trovare locali con connessione a muzzo.
– La maglietta dell’edizione era urenda e per la prima volta non l’ho presa. Però ne ho trovata una di McLaren deliziosa.
– Ho mangiato pochissimi pain-au-chocolat. Beh, infatti per la prima volta non sono ingrassato.
– Ha piovuto parecchio, quasi tutti i giorni. Magari solo un’oretta o due, ma il monsone quotidiano è stato inevitabile.
Next: rassegna dei vincitori, con maggiori dettagli sui premiati.
Genova, mercoledì 7 maggio 2008
Il qui presente protagonista, insieme ai suoi sidekick Kumagoro e Carlo, si trova al Centro Commerciale Fiumara di Genova, in occasione della visione di Il treno per il Darjeeling. Dopo una frugale cena a base di Cappello del grullo (sic) il trio ha una mezzoretta che avanza, e invece di fare il solito giro all’antipaticissimo Mediaworld opta per farsi un giretto al supermercato, per verificare se è vero che la Fanta costa meno della Sprite come al locale dove hanno appena cenato. Eppure, nella sezione bibite, non sono le blasonate bevande ad attirare la loro attenzione, bensì due lattine di bevande energetiche: Brava Italia e Sexy Italia. Il richiamo è irresistibile, e Luca prende la prima, Carlo la seconda, Kuma fa un cenno di approvazione. Questo articolo si occuperà di recensire Brava Italia e di documentare l’assaggio della stessa. Se Carlo vorrà fare lo stesso sul suo blog per la gemella Sexy Italia, sarà una figata.
Impossibile non immaginarsi le riunioni di marketing che hanno preceduto la scelta del nome: “…e questo sarà un energy drink commercializzato puntando sull’immagine dell’Italia vincitrice dei mondiali di calcio, proprio nell’anno degli europei. Come nome, proponiamo la frase che tutti i tifosi esclamano per esortare la nazionale…”. E per quanto riguarda la Sexy, italiani = gran trombatori, ovviamente. Come allargare la linea? Forse con Operosa Italia con un italiano che mette su una fabbrichetta tessile che paga in nero? O con Artistica Italia e un Leonardo in copertina, così da strizzare anche l’occhio al Codice da Vinci? Un Magica Italia con Harry Potter vestito da Pulcinella come la vedreste?
Un esame più approfondito della lattina dimostra (foto a destra) che essa è prodotta in loco, in via Fiumara a Genova. E’ quindi un prodotto nostrano, e come tale sano, genuino e di qualità garantita. I più maliziosi penseranno magari che il fatto che fosse situato in un supermercato in Fiumara appunto perché prodotto lì dietro. A me piace pensare che vengano prodotti in via Fiumara, caricati su camion inquinantissimi e trasportati fino al magazzino del distributore nazionale di energy drink a Salerno e da lì spediti via nave a Spezia, dove c’è il distributore regionale per la Liguria, e ancora via treno per Voltri, e da lì su un Ape per tutti i supermercati di Genova, compreso quello in Fiumara. Ed è per questo che costa 1.69 euri e non 0.07 come sarebbe il suo prezzo giusto.
Domenica 18 maggio 2008 mi son deciso ad assaggiare Brava Italia. A casa del campione del mondo di Tennis Garden (autore delle foto) il vostro eroe ha gustato la bevanda saporita. Ecco quello che è successo.
Ora che il primo decennio del XXI secolo sta volgendo al termine, il fattore nostalgia si sta spostando dagli anni ’80 ai ’90, e fioccano i revival di vario tipo. Come capita comunemente in occasioni simili il tempo trasforma e abbellisce ciò che tanto bello magari non era: per me gli anni ’80 sono i robottoni in tv e le partite di pallone con gli amici nei prati piuttosto che Craxi, Reagan, gli yuppie e le giacche da uomo con le spalline. E, similmente, l’orrenda techno anni ’90 o Sailormoon in TV mandano alcune persone in sollucchero.
Ma io per questo decennio ho deciso arbitrariamente che è troppo presto, ed è per questo che oggi stigmatizziamo un programma che in quel periodo ha fatto furore: il Karaoke di Fiorello. Per chi non lo ricordasse o fosse troppo giovane o ai tempi fosse vissuto in una caverna, ricorderò che si trattava di un programma televisivo in cui un signore con la coda di cavallo girava per le piazze italiane e faceva cantare dei concorrenti dilettanti mentre sullo schermo tv comparivano i testi delle canzoni, invitando quindi implicitamente il pubblico (a casa e dal vivo) a cantare insieme. Al termine dell’esibizione di ogni concorrente il pubblico acclamava e un apparecchio, chiamato applausometro, misurava il rumore dei fan in delirio. Chi otteneva più applausi vinceva. Tuttavia, spesso l’applausometro misurava valori a caso e il vincitore quindi era piuttosto aleatorio, o più probabilmente deciso a tavolino in base alla simpatia o alla telegenicità dei concorrenti. Appare evidente che si tratta di un programma che può avere un certo successo, perché racchiude il coinvolgimento del pubblico sia dal vivo che in tv, coniugato con canzoni conosciute da tutti. Più sorprendente invece il fatto che una formula così povera sia durata la bellezza di quattro anni: non c’è poi tanto da stupirsi se Fiorello si sfondava di cocaina, chissà che palle!
Io ho dei ricordi contradditori del Karaoke; certamente non lo guardavo quotidianamente, un po’ perché era trasmesso alle 20 e alle otto a casa mia si vedeva il telegiornale, ma soprattutto perché a quell’epoca ero fissato con l’heavy metal e, come è normale per gli adolescenti, non accettavo compromessi con altri generi musicali. Figurarsi la musica italiana! Eppure diverse puntate devo averle viste, giacché c’è un momento che ricordo con affetto un po’ trash: la promozione dei jeans Lee. In queste occasioni saliva sul palco un fortunato astante del pubblico che per vincere un premio doveva annunciare un personaggio famoso che si chiamasse Lee, come i jeans. Inutile dire che, evidentemente, la risposta era suggerita dalla produzione. Dopo pochi giorni i Lee più ovvi erano esauriti (Spike Lee, Stan Lee, Sheryl Lee, Bruce Lee…) e iniziarono le risposte più spurie, come Jerry Lee Lewis, Jamie Lee Curtis o il Generale Lee inteso come automobile di Hazzard. Esauriti anche questi, con la telepromozione che non era ancora terminata, gli autori gettarono la spugna e passarono a orrori pseudo-spiritosi come “Leeno Banfi” o “Topoleeno”.
Ancora oggi, quando sento parlare di quanto Fiorello sia bravo e come sia il futuro salvatore della tivù italiana io ripenso a quel signore con la coda da cavallo e lo sguardo un po’ spento che, sentendosi dire “Topoleeno”, ha l’aria di pensare “Che me tocca fa’ pe’ campa’!”. Amico Rosario, figurati che noi ti guardavamo…
I lettori di vecchia data di questo blog forse ricorderanno che, all’inizio, tra i link qua a sinistra campeggiavano due web comics. Uno era rivolto ad Eriadan, ed è stato presto tolto poiché poco confacente allo spirito di questo blog (e anche perché il buon Aldighieri mi aveva un po’ triturato i marroni), il secondo rimane tuttora, e ha sempre avuto come descrizione “Il miglior talento fumettistico emerso in Italia nell’ultimo decennio”. (-Quale descrizione? – Passaci sopra il mouse, scemo!): “A” come Ignoranza, di Daw. Quindi, quando nelle prime riunioni di ProGlo è venuto fuori che uno di noi aveva il contatto del misterioso Daw, il consesso dei Progloditi ha deciso: possiamo rinunciare ad Alan Moore, a Trillo, a qualunque altra cosa, ma il nostro nome deve rimanere in eterno associato a quello di “A” come Ignoranza. E così è stato: il buon Davide Berardi è stato incontrato e messo sotto contratto a condizioni miserevoli approfittando della sua ingenuità. No, seriamente: non è carino parlare di cifre, ma sono convinto che contratti così potenzialmente favorevoli per un esordiente siano rari, e ciò testimonia quanto crediamo nel talento di Daw.
L’opera
Nella remota ipotesi che il lettore non abbia ancora seguito quel link e, dopo avero letto qualcosa, abbia deciso di dire “Lo voglio!”, proviamo a descrivere l’opera di Daw.
L’albo in questione è composto di una serie di storie brevi mutuate dal blog e da una lunga (“lunga” per gli standard del bergamasco) storia inedita. Le storie spaziano su diversi argomenti: si va dalla parodia dei film anni ’80, alle due storie sulla famiglia Dodio, una traboccante di ultraviolenza cartoonesca e una più sottile ma non meno crudele, all’introduzione del personaggio di Brullonulla (colui che detiene il dottorato), alla storia lunga di disgrazie amorose e secrezioni varie fino all’indispensabile comparsa del personaggio di Sbranzo. Mi rendo perfettamente conto che questo elenco non significa nulla, ma i soggetti, alla fin fine sono solo un pretesto: quello che conta in Daw è la battuta fulminante, il colpo di genio, il gusto della scelta inaspettata o della distorsione della parola. Sottovoce dico che, da questo punto di vista, il paragone appropriato non è Leo Ortolani come gli stolti potrebbero pensare (e tantomeno Eriadan…brr!), ma Andrea Pazienza. Un’opera meno colta di quella dell’autore cannibale, meno pensata ma altrettanto esplosiva, ricca di trovate e decorata da un certo cinismo. Quello che li differenzia è che Daw è ingenuo (almeno apparentemente), Pazienza disincantato. La supposta ingenuità dell’autore è uno dei temi sui cui si dilunga Brullonulla nell’introduzione: sì, lo stesso Brullonulla protagonista di una storia. Come dice lui stesso, è come se Paperoga presentasse un numero di Paperino Mese.
E come le prime opere di Pazienza erano godibilissime ma mancavano dello spessore di quelle mature, sono convinto che i prossimi fumetti di Daw saranno ancora migliori, una volta acquisita più tecnica, controllo ed esperienza. Lo aspettiamo coi fucili puntati.
Facciamo qualche esempio di come funziona “A” come ignoranza. Ecco il solito segnalibro promozionale:
Ben più di una persona, dopo averlo ricevuto, è tornata indietro e ha comprato l’albo. Siamo particolarmente orgoglioni dell’idea dei segnalibri.
Oppure godetevi l’intera storia di Sbranzo, in una tavola (cliccare per una risoluzione leggibile).
L’autore
Daw in realtà si chiama Davide Berardi e Daw non manco è il nick che usa su internet; nessuno ha capito bene da dove venga fuori questo soprannome, ma ormai se lo tiene. Daw è bergamasco, e conferma la mia idea sui bergamaschi: essi sono o buffi o malvagi. Lui è buffo e assomiglia, in apparenza, ai suoi fumetti: vulcanico, geniale, ricco di inventiva, cambia idea sei volte al minuto, si innamora di tutte le gnocche che vede passare e nasconde il cibo come le marmotte. In realtà ha anche un lato più riflessivo e timidone, ma pare che ci tenga a tenerlo ben nascosto.
A Lucca Comics lui era l’Autore con la A maiuscola presente allo stand di ProGlo, colui che faceva i disegnini sugli albi. Ne ha autografati oltre 200, tutti con dediche diverse che inevitabilmente mandavano in sollucchero il destinatario. Questa è una vera prova di genialità, l’inventiva sul momento! La mia copia è la prima che ha dedicato, e io, per metterlo in difficoltà, gli ho chiesto di farmi Elektra e Wolverine. Li ha fatti, ma temo che non avrà un futuro alla Marvel. Ne avrà uno molto più luminoso alla ProGlo.
Backstage
L’idea originale di ProGlo era di pubblicare semplicemente su carta quello che il blog di “A” come ignoranza aveva da offrire, integrandolo magari con qualche storia inedita. Praticamente gli abbiam detto: “Fai quello che vuoi e noi te lo pubblichiamo”. L’autore non ha voluto che pubblicassimo il blog, perché, a suo dire, esso è disegnato malissimo. Invero un po’ lo è, ma ritenevamo che parte del fascino di “A” come ignoranza risiedesse nelle vignette sgangherate; Daw è stato irremovibile e bisogna ammettere che aveva ragione, le nuove vignette non perdono lo stile vagamente underground ma migliorano in leggibilità. La storia lunga ce l’ha fatta sudare, invece. Come ammette lui candidamente nel suo blog, l’ha iniziata senza sapere come l’avrebbe conclusa e ha rifatto il finale più volte perché non ne era soddisfatto. Non dovrei dirlo in quanto editore e in quanto autore de La faccia come il culo, ma pur essendo una storia pregevolissima un po’ si vede il cambio di tono e di ritmo durante lo svolgimento della storia.
Infine, la quarta di copertina è presenta un’efficace gag: come per Angeli e Demoni di Dan Brown, abbiamo scelto una serie di citazioni da altri libri, tra cui l’immancabile “Ormai è più bravo di me – Stephen King” che da decenni campeggia sui libri di Clive Barker. E’ stata una pura scelta editoriale che l’autore non conosceva e che, in quanto non sua, ha detestato. Beh, pazienza. Siamo noi a cacciare i soldi…
Saltuariamente esce qualche libro che, per una combinazione di passaparola, di moda, di spinte mediatiche e di altre circostanze oltremodo casuali, diventa un enorme best seller. In qualche modo diventa il libro che tutti leggono, o, se preferite, uno dei dieci libri che compaiono nelle librerie delle persone che non leggono abitualmente, accanto alle prime uscite delle enciclopedie dei quotidiani, quelle date in omaggio. Io, come è noto, sono uno snob, ma essendo uno snob di livello 2 mi concedo spesso il piacere perverso di leggere questi libri. Ovviamente, quasi tutti fanno cagare. Non ho ancora razionalizzato in pieno perché mi conceda di leggere Dan Brown invece di Tolstoj: mi dico che è giusto sapere di cosa parla il libro che è sulla bocca di tutti e poter quindi giudicarlo con cognizione di causa. Troppo facile sputare su Dan Brown senza aver letto il suo libro! In realtà applico questa considerazione solo per i libri, non per i film né per i programmi televisivi. Un po’ per i fumetti, ma leggo molto di quello che esce e quindi ho una visibilità del mercato molto più ampia. Insomma, boh.
E così, durante gli anni (confessione!) mi sono letto:
Il Codice da Vinci di Dan Brown: brutto, ma non proprio brutto brutto brutto…però enormemente stupido. Tutto appare raffazzonato, improbabile, ficcato lì giusto per “fare figo”. Probabilmente è il libro il cui successo più mi stupisce, perché i temi e le situazioni non sono altro che quello che Martin Mystére propone da venticinque anni, con una classe e un amore per la cultura che Brown si sogna. Chissà quanto si è incazzato Castelli.
Io uccido di Giorgio Faletti: “Non ci crederete, ma quest’uomo è oggi il miglior scrittore italiano” recita la quarta di copertina. In effetti non ci credo, neppure dopo averlo letto. Intendiamoci: il thriller di Faletti è un libro “di genere” come se ne vedono tanti negli stati Uniti ad opera dei vari Follett, Grisham, Ludlum e che in Italia difettano. È un libro che ha qualche merito: l’ambientazione originale è forse ciò che rimane più impresso, ma anche svelare il colpevole a tre quarti del libro per poi passare ad un lungo anticlimax è piuttosto anomalo ma non errato, nell’economia del libro. Inoltre nel complesso scorre bene, ma il problema sta nella quantità soverchiante di luoghi comuni da thriller e banalità varie. Non ho concesso una seconda chance a Faletti.
Il diario di Bridget Jones di Helen Fielding: il prototipo della chick-lit, è probabilmente in senso oggettivo il miglior libro del lotto. Pur in un contesto che traveste da realtà quella che in fondo non è altro che una favola, è impossibile non affezionarsi all’imperfettissima Bridget e alle sue manie, pur odiandola per le stesse.
Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia: il peggiore del lotto. Non esite futuro per un Paese i cui giovani amano personaggi come Bebi e Step. O tempora! O mores! E poi, al di là della questione “morale”, è scritto proprio male.
Harry Potter di J.K. Rowling: ho letto sei capitoli su sette della saga dell’antipaticissimo maghetto (non ho una tale scimmia da leggermelo in inglese!), e devo dire che nel complesso si tratta di libri divertenti. Nulla di terribilmente innovativo, tanto che anche per Harry Potter ho un po’ di stupore per il suo successo planetario, ma sono letture piacevoli e innocue. Se ai miei nipoti/eventuali figli interesserà ancora tra dieci-quindici anni, non avrò nulla in contrario.
Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro: davvero pessimo anche questo. Forse lo lessi ancora al liceo, in questo caso più per curiosità che per scelta programmatica come in seguito. Ne ricordo pochissimo, ma la sensazione era di bere acqua calda con chili di zucchero. Il nulla più banale reso stucchevole. Sì, in effetti ci vuole talento.
E poi ci sono alcuni libri che sono al di sopra delle mie possibilità di sopportazione: i libri dei comici ad esempio, ma soprattutto la Fallaci. Non ho avuto il coraggio di sciropparmi gli scaracchi di odio di una donna malata. Pazienza. Prossimo obiettivo: Melissa P!