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Cazzetti awards 2010/2011

Cari amici, bentrovati alla premiazione annuale dei Cazzetti Awards, ovvero “Non ve ne frega una ceppa delle mie opinioni cinematografiche, ma le leggerete lo stesso per poter sbeffeggiare i miei gusti”. Siete pronti? Partenzi! Via!

Cazzetto d’oro: The Social Network di David Fincher, ma soprattutto scritto da Aaron Sorkin. Il che conferma che, per me, il cinema è soprattutto scrittura. Può non fregarmente niente di quella patata bollita di Zuck, ma sono rimasto conquistato dalla narrazione, dall’intreccio, dalla potenza dei dialoghi.

Cazzetto d’argento: Il Grinta di Joel ed Ethan Coen. Non a tutti è piaciuto questo remake dei Coen, un western assolutamente puro e classico, crudo e duro. Beh, a me sì. Mi ha proprio incantato, molto più delle atmosfere simili eppur dissimil di Non è un paese per vecchi.

Cazzetto di bronzo: Easy Girl di Will Gluck. “E che cacchio è?” E’ una commediola americana che strizza l’occhio (a volte pure due) ai classici adolescenziali anni ’80 di John Hughes. Un sacco divertente e intelligente, reinventa un genere. Non un capolavoro, ma ce ne fossero di film così.

Cazzetto moscio: nessuno in particolare quest’anno. Ho visto diversi film bruttini, ma nessuno così orripilante. Sto invecchiando?

Cazzetto di cartone per il miglior film animato: una volta tanto che la Pixar non fa uscire alcun film, gli altri se la possono giocare. Porco Rosso è fuori concorso, troppo facile. E allora, sebbene forse sia un passo indietro rispetto al suo film precedente, la tenera storia de L’illusionista di Sylvain Chomet conquista il premio

Premio speciale “Pernacchia” al film con più pretese fallite: Inception di Cristopher Nolan. No, non posso accettare che l’inconscio diventi una serie infinita di inseguimenti e sparatorie. Era già noioso in Batman, figuriamoci in un film che vuole dire qualcosa di più. Cristo’, torna ai mutandati col mantello, dai.

Premio speciale “Taricone” al film più tamarro: era attesissimo e non ha deluso; Machete di Robert Rodriguez è il film più tredicenne che tabbia visto da tempo. Tette! Budella! Auto a dondolo con ruote gigantesche! Che spasso, ragazzi!

Premio speciale “Ipnosi“: quest’anno non è uscito nessun film Pixar. Quest’anno non è uscito nessun film Pixar. Quest’anno non è uscito nessun film Pixar.

Premio speciale “Meh” al film che tutti dicevano bello e invece bah: Nessuno mi può giudicare di Massimiliano Bruno. Sì, non è un film di Boldi, ma è comunque una commedia italiana scemina e prevedibile. Potevo farne anche a meno.

Premio speciale “Pizzaspaghettimandolino” al miglior film italiano: nonostante tutto, a me Habesum Papam di Nanni Moretti,  con tutti i suoi difetti, è piaciuto molto. Moretti parla sempre di Moretti anche quando fa finta di parlare di papi, ma va bene così. Lo amiamo anche per questo.

Premio speciale “Bufala” al film che tutti dicevano geniale e invece bah: Buried di Rodrigo Cortés. Eh beh, sì, ok, hai fatto un film con una sola location di un tizio sepolto vivo, ecco una medaglia, ma non è mica vero che tieni la tensione alta per 80 minuti. Ci si annoia, e il tanto decantato finale sconvolgente non è nulla di che.

Premio speciale “Uovo di Pasqua” al film che è stata una sorpresa inaspettata: dopo sette film altalenanti, ma più dimenticabili che memorabili, l’ultimo film della saga potteriana Harry Potter e i doni della Morte parte II è proprio bello. Spumeggiante, epico, tiene incollati alla poltrona e riesce persino a commuovere per il finale chi, come me, apprezza l’antipaticissima creatura della Rowling senza però esserne fan.

Update!

Premio speciale “Italo Svevo” per la vecchiaia che fa paura: Hereafter di Clint Eastwood. A tratti si vede la magia del grande regista, ma il film è talmente scemo, noioso e Matt Damon che ho paura delle prossime opere di uno degli autori che ho più amato in questi ultimi anni.

(E dov’è Il Cigno Nero? Eh, mi è piaciuto ma non l’ho sentito un film mio. Capita.)

Squadra rialzo (hop!)

Ogni volta che vado in treno a Milano rido un sacco perché arrivati in stazione Centrale c’è un cartello con scritto “Squadra Rialzo Stazione Milano Centrale”.

Io mi immagino sempre quei signori che, hop! si allenano per giocare a rialzo! Hop! Che talenti bisogna avere per poter entrare in una Squadra Rialzo? E che allenamenti si fanno?

Da grande farò il ferroviere per poter entrare nella Squadra Rialzo di Milano Centrale. Hop!

(non so mica se son tornato, ma dai, facciamo un tentativo!)

Calci nel culo

Gli studenti di architettura che vivono al primo piano del mio palazzo hanno appeso questo sulla loro porta:

Quanti calci nel culo avreste voglia di dare a questi babbi di minchia?

Misteri della vita CXIX: Ripensarsi musicalmente

Mi sembra evidente che i musicisti si stufino di suonare sempre le stesse cose, ed è per questo che, ai concerti, fanno malvolentieri i pezzi più vecchi. Mi pare in effetti comprensibilissimo che, dopo decenni a suonare “Satisfaction” in tour gli Stones preferiscano fare altro (anche se poi quella canzone la suonano perché altrimenti i fan li linciano; anzi, di solito in generale il pubblico predilige sentire una bella fetta di vecchia roba).

Ma allora, perché non rielaborano mai quegli stessi pezzi? Non parlo di riarrangiamenti, quelli li fanno un po’ tutti, ma proprio rifare una canzone, cambiandone il testo anche radicalmente (*), tagliando una strofa perché è troppo lunga o aggiungendone una perché hai qualcos’altro da dire, sperimentando una nuova intro, usando qualche nuova idea per l’assolo. Ho cioè l’impressione che le canzoni, una volta scritte e pubblicate, siano sostanzialmente immutabili, e la cosa un po’ mi sorprende. C’è qualche ragione di copyright per cui nessuno lo fa o semplicemente “non si usa”? O qualcuno ha utilizzato comunemente idee simili e la mia ignoranza musicale è sconfinata? :)

(*) Mi pare che i Dead Kennedys abbiano fatto questo dedicando una nuova versione di California Uber Alles a Reagan invece che a Jerry Brown, e anche De André ogni tanto cambiava qualche verso col tempo.

Annecy 2011 parte IV: Cosa c’era di bello (corti fuori concorso)

Quest’anno, niente corti di scuola, e ho perso uno spettacolo su quattro di quelli fuori concorso. In compenso, le rassegne mi sono piaciute e ho visto e rivisto alcune cose interessanti. Ma, con ordine, partiamo da qualche citazione dai corti fuori concorso.

Bisclavret (Émilie Mercier, Francia) è una favoletta di licantropi in stile un po’ iconico-medievale, e ha la grossa curiosità che i cattivi, anche se sconfitti, non vengono puniti come meritano;  il finale di “vissero felici e contenti” è addirittura dedicato a loro. Dripped (Léo Verrier, Francia, immagine a sx) è invece un’originale corto su Pollock, rappresentato come un ladro di quadri che se li magna ma che non sa disegnare ed è per questo che finisce per pollockare (foto a sx). Oltre a quello in concorso abbiamo un altro Zaramella, En la opera (Juan Pablo Zaramella, Argentina) anche se vecchiotto, e fuori concorso. Una gag, anche abbastanza divertente, in tecnica plastilinosa, ma solo una gag. Un antibrivido di eccitazione grazie a La Femme du lac (Mathilde Philippon-Aginski, Francia): una tizia si mette dei pesci nella passera e non si capisce perché, ma ci si annoia.  Ero molto curioso di vedere Mourir auprès de toi (Spike Jonze, Simon Cahn, Francia, a destra), un corto animato del celebre regista Spike Jonze. Boh, niente di che, abbastanza divertente ma banalotto (personaggi che escono dai libri) e realizzato in una stop motion un po’ grezza. Bella sorpresa invece per Muzorama (Elsa Brehin, Raphaël Calamote, Mauro Carraro, Maxime Cazaux, Émilien Davaud, Laurent Monneron, Axel Tillement, Francia, a sinistra): una serie di ritratti surreali con un grosso debito alla visionarietà di Dalì ma con un’estetica completamente diversa. Molto originale, è piaciuto molto.  Grazie a Oh, Paris! (Oleksandr Shmygun, Ucraina, a destra) ora sappiamo che le vecchie ucraine muoiono appena arrivano a Parigi. Siano avvisate. Rullo di tamburi per Sergei Prokofiev (Julia Titova, Russia, Bielorussia): si tratta di una biopic, o meglio biocorto (da non confondere con bioparco) sull’omonimo compositore russo. Non è incredibile la coincidenza? Hanno fatto un corto intitolato “Sergei Prokofiev” e parla proprio di Sergei Prokofiev! E’ straordinario! Facezie a parte, è un buon lavoro. The Gentleman’s Guide to Villainy (Aidan McAteer, Aurélie Cauthier, Irlanda) riprende un topos e, nello stile dei vecchi film muti (o, perlomeno, di quello che crediamo che siano essi oggi), fornisce una guida umoristica ai cattivi di tali film, in questo caso su “come legare la fanciulla inerme sulle rotaie”. Carino, se ne potrebbe fare una breve serie. Per concludere le segnalazioni, un caveat: The White Snake (Ying Fang Shen, Taiwan).  Ho cercato in tutti i modi di dormire durante questa pallosissima favola calligrafica orientale. Non ci sono riuscito. Volevo morire. Non ci sono riuscito. Meno male.

E ora parliamo un po’ delle rassegne. Quest’anno era l’anno degli Stati Uniti, che rappresentano probabilmente la nazione con maggior produzione di animazione al mondo insieme al Jappone (nonché la culla di gran parte dell’animazione moderna). Una rassegna dedicata a questa nazione, quindi, doveva fare una scelta ben precisa, che, a mio parere, è stata parziale e non molto azzeccata. Ci sono stati ben tre programmi dedicati agli Oscar durante gli anni. Ne ho visti due, e ho apprezzato entrambi: uno era una rassegna di alcune opere dagli anni ’70 a oggi. Molte cose le avevo già viste, ma fa sempre piacere rivedere Tango (sul grande schermo, poi. Peccato abbiano proiettato una VHS!), Anna & Bella (foto a sinistra, se non l’avete mai visto correte a cercarlo, è meraviglioso!), persino Crac!, suvvia. Ho anche avuto occasione di vedere il vincitore dell’anno scorso, Logorama, che mi mancava. L’altro programma invece era dedicato a cose più vecchie: un po’ di pallosette Silly Simphonies, e poi una serie di vistissimi ma mai abbastanza Warner Bros e UPA. Adorabile. Meno interessante un altro programma che ho visto dedicato agli indipendenti (un sacco di PES e suoi emuli, ma quasi tutto dimenticabile), e imbarazzante (per me) la proiezione del film The adventures of Mark Twain. In questo seminale film di Will Vinton (foto a destra), ho dormito dall’inizio alla fine. Svegliandomi nei titoli di coda e leggendoli mi son chiesto: “Ma davvero c’era Indiano Joe? E Adamo ed Eva? Fiiico!”. E’ vero che avevo fatto tardi la sera prima ed era verso la fine del festival, quando si inizia a essere stanchi, ma è stato abbastanza ignominioso. Comunque mi dicono che non valesse una sega. Infine, ho avuto anche occasione di rivedere un po’ di fratelli Fleisher: la trilogia di Popeye e le Mille e Una Notte più qualche altro corto sparso. Roba datata, ma sempre gradevole.
Al di là della nazione dell’anno, c’erano i soliti Morti (il programma dedicato agli autori morti durante l’anno, mai visto uno!), il solito Politically Incorrect (che ormai mi sta sui marroni, trovo che il Politically Incorrect consapevole sia ancora più atteggiato ed ipocrita del Politically Correct – che comunque è ormai passato di moda!) e inoltre una bellissima sorpresa: The world of Flying Machine. Si tratta di un progetto polacco (sì! sempre loro!) dedicato al compositore Frederick Chopin, che qualcuno potrebbe aver sentito nominare. Una dozzina abbondante di cortometraggi sono legati dal fil-rouge della musica di questo autore e dall’immagine visiva di un pianoforte volante che compare in tutti i corti, a volte come guest-star, a volte come cameo, a volte come protagonista. E’ particolare degno di menzione il primo e più lungo corto, Magic Piano di Martin Clapp, realizzato addirittura in 3D (a sinistra), che seppur un po’ troppo lungo lascia davvero a bocca aperta, ma la qualità media dei corti è molto alta e così anche la varietà di tecniche e registri utilizzati. Si esce dalla proiezione un po’ storditi dal piripì di Chopin, ma un sacco contenti.

E insomma That’s all folks. Mi sono divertito un sacco e ci risentiamo tra un anno! Tremate.

Annecy 2011 parte III: Cosa c’era da vedere (cortometraggi in concorso)

Ed eccoci al piatto forte di ogni festival che si rispetti, i cortometraggi. Una piccola invettiva & lamentazione: ci hanno tolto la nostra amatissima proiezione dei corti in concorso alle 21 in Grande Salle, spostando la proiezione principale alle 18, e anticipando quella successiva alle 20.30. Siccome i corti in concorso, che spesso hanno il regista in sala, finiscono per durare un po’ più a lungo, ecco che le nostre cene si sono progressivamente ridotte.

Ma ecco cosa mi ha colpito, nel bene e nel male, in ordine alfabetico:

A Lost and Found Box of Human Sensation (Martin Wallner, Stefan Leuchtenberg, Germania)
Il mio vincitore di quest’anno. E’ una dolorosa e spietataa autoanalisi di una persona che ha subito un lutto. Non so se si autobiografico di uno degli autori, ma credo di sì, perché suona molto sincero e con un che di terapeutico. Mi ha colpito molto, come dicevo, ma probabilmente solo a me.

A Morning Stroll (Grant Orchard, UK)
Una storia raccontata in modo simile in modalità 1959, 2009 e 2059, in un crescendo di senso dell’assurdo. Nel 1959 la gente è gentile e in bianco e nero, nel 2009 è a colori e ascolta gli iPod, nel 2059 ci sono gli zombi e i fiori giganti, e siccome ci sono gli zombi lo devo citare. Ha vinto il premio Jeunesse.

Big Bang Big Boom (BLU, Italia)
Toh, un italiano, l’unicissimo italiano selezionato, vince un premio ad Annecy! Nello specifico, il Premio Speciale della Giuria (il secondo posto, insomma). A me il primo corto di BLU stava sui marroni, non amo i graffiti come espressione artistica e il suo corto mi era parso comunque molto inconcludente: c’è l’idea di animare i graffiti, appunto, e basta, poi procede a casaccio. Qua c’è un filo conduttore più netto e qualche idea in più, ma ho visto di molto meglio.

Chroniques de la poisse (Osman Cerfon, France)
Candidato alla Ghisa di Annecy (il corto che verrà ricordato e non è molesto, pur non avendo alcuna possibilità di vincere), invece un premietto se l’è preso, quello Canal+ che poi sono anche soldini. Un pesce antropomorfo, quando gli vengono fatti dei torti, emette bolle di infelicità che causano un sacco di disgrazie. E’ divertente però soprattutto perché parla male degli scout.

Conto do vento (Claudio Joardao, Nelson Martina, Portogallo)
Due genovesi in sala si son persi un buon minuto di questo corto perché ridevano come degli scemi dopo la prima frase: “U ventu è lo shpiritu du tempo” pronunziata con perfetto accento zenese. E comunque tra i vari portoghesi in concorso questo era il migliore: un disegno aspro per una storia di streghe e superstizione.

Kamene (Katarina Kerekosova, Ivana Šebestova, Slovacchia)
Kamene, ovvero la versione a pupazzi di Dancers in the dark in una cava di pietra. Un musical, quindi, su una storia tragica di uomini rudi, donne disperate, tradimenti e omicidi su uno sfondo aspro e più grigio che mai. A me è piaciuto molto, ma è piaciuto solo a me (e ai selezionatori dei corti, suppongo). La cantante sembra la stessa di Jonah/Tomberry di Rosto.

La Détente (Pierre Ducos, Bertrand Bey, Francia)
Un altro dei miei vincitori personali, forse perché tocca uno dei miei grandi pallini (la I guerra mondiale). Un soldato in trincea, per sfuggire all’inferno che lo circonda, trasfigura nella sua immaginazione il campo di battaglia in una sorta di luna park. Ma l’orrore è talmente grande che nemmeno la sua mente riuscirà a scappare.

Luminaris (Juan Pablo Zaramella, Argentina)
Meritatissimo vincitore del premio del pubblico e del premio FIPRESCI (giornalisti), Luminaris è una pixilation come si deve, fluida pur essendo surreale, per una storia ricca di gag e a modo suo anche tenera e commovente. Una menzione speciale al capufficio ciccione che si arrabbia.

Maska (Timothy Quay, Stephen Quay, Polonia)
Il corto polacco delle barzellette. Lunghissimo, a pupazzi, con colonna sonora stridente (gneeek! gneeek!), storia – pare – assurda e addirittura già vista. Dico “pare” perché mezza sala ha lasciato il cinema prima che iniziasse, e io stesso mi sono arreso dopo pochi minuti. Un po’ me ne pento, ma ci avevo fame e Maska era troppo. Incredibilmente, ha vinto il premio per le musiche, ma per me è il vincitore del “Corto molesto” dell’anno.

Millhaven (Bartek Kulas, Polonia)
Ho un piccolo pallino per Murder Ballads di Nick Cave & the bad seeds, quindi quando ho capito, dopo un paio di versi, che si trattava di una messa in scena ricantando The curse of Millhaven a mo’ di filastrocca, sono andato in sollucchero. Solo io in tutta la sala, temo. :)

Paths Of Hate (Damian Nenow, Polonia)
Bellissimo, Paths of Hate. Ovazione del pubblico e certezza di un premio, che però è arrivato solo in qualità di Menzione Speciale (terzo premio). Meritava di più, ma non passerà indimenticato. Paths of Hate è un funambolico scontro tra due aerei durante la Seconda Guerra Mondiale, durante il quale i due piloti perderanno progressivamente tutto ciò di umano che hanno, fino a sublimare nel finale. Non ci sono parole per descrivere la quantità di idee di regia e di animazione che ci sono in questi pochi minuti. Va proprio visto.

Pixels (Patrick Jean, Francia)
L’inaspettato Cristallo di Annecy per i cortometraggi gira da un paio d’anni per internet e l’abbiamo visto tutti. Potrebbe anche essere finito sulla colonnina infame di Repubblica.it tra lo scoiattolo che sbadiglia e le chiappe di Pippa. Per carità, è divertente e ben fatto (e la scena del tetris è davvero geniale), ma di lì a essere un primo premio ce ne passa, visto che di roba bella ce n’era non poca quest’anno. Un po’ di delusione, quindi.

Sudd (Erik Roselund, Svezia)
Primissimo corto visto quest’anno, è una produzione quasi tutta dal vivo in un bellissimo e suggestivo bianco e nero con qualche incursione di animazione tradizionale. Lo si può definire come Take on me che incontra un film di zombi. L’attrice è enorme e graziosissima e a me i film di zombi piacciono un sacco quindi me lo sono goduto un sacco.

Świteź (Kamil Polak, Polonia, Francia, Danimarca, Canada, Svizzera)
Rapida citazione per Świteź perché ha vinto un premio come opera prima e perché è visiviamente molto interessante, riprendendo l’estetica bizantina per narrare di una città perduta (in modo piuttosto confuso, va detto).

The Monster of Nix (Rosto, Olanda, Francia, Belgio)
Si tratta del corto che più attendevo e che più mi ha deluso. Dopo anni passati a rivedere Jonah/Tomberry ed amarlo sempre di più a ogni visione, attendevo Rosto alla prova della maturità. E, ahimé, The Monster of Nix non è male, ma è troppo lungo, a tratti addirittura banale (belin, in certi punti è esattamente La Storia Infinita!) e, sebbene riprenda l’estetica dei corti precedenti nella saga e la loro potenza e visionarietà, non aggiunge moltissimo. Forse rivedendolo lo apprezzerò di più, ma non ne sono certo…

Viagem a Cabo Verde (José Miguel Ribeiro, Portogallo)
Molto attesa questa prova di Ribeiro, celebre autore di A suspeita, ma alla fine non ha colpito moltissimo. Lo spunto è interessante: l’autore decide di mollare tutto, lasciare orologio e cellulare a casa e viaggiare per qualche tempo nelle isole di Capo Verde, riscoprendo il ritmo della natura, del proprio corpo e facendo conoscenze tra la gente del luogo. Eppure, forse perché non sappiamo l’origine del disagio dell’autore, manca qualcosa e tutto sembra un po’ troppo fine a se stesso, quasi un esperimento sociologico.

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