Continua la serie di articoli del buon Kotekino, questa volta alle prese con la yakuza. “Pinguini nel salotto”, meglio di un film di Kitano!
Il marito della migliore amica di mia moglie è un bonzo buddista: l’anno scorso in occasione della mia prima visita nel paese del Sol Levante ebbi la fortuna di conoscere questo simpaticissimo elemento che mi raccontò che lui è sacerdote appartenente ad una scuola buddista che non impone voti di castità ne particolari morificazioni corporali, per cui, esplicitato il nostro comune amore per la carne di manzo, abbiamo convenuto che si doveva prima o poi andare a cena. Martedì scorso, memore della promessa, ci ha telefonato invitandoci a cena in un “posticino che conosce lui”. Prima di continuare preciserò che il racconto che segue vede il manzo solo come protagonista marginale: il protagonista principale è la famosa Yakuza, ovvero la mafia giapponese.
Durante il viaggio per le tangenziali di Osaka sulla sua lussuosa automobile mi racconta che lui è nato e cresciuto nel quartiere dove hanno inventato la ricetta di carne che andremo a mangiare: quello è il quartiere più antico e ora anche più povero di Osaka, quello è il quartiere dove oggi l’unica legge vigente è quella della Yakuza. In più aggiunge, amabile, che suo padre, bonzo anch’egli, più che un sacerdote è in realtà “praticamente” uno Yakuza. E così ci fa visitare il palazzo di famiglia: ho l’onore di apprezzare la struttura di 5 piani dove vive la famiglia, con servitù, il gigantesco tempio in oro (foto a destra) dove si celebrano i riti, la sala ricevimenti e pranzi di lusso, il cimitero dove custodiscono le urne dei fedeli, la pinacoteca dove sono conservati i quadri donati dai “pezzi grossi”, la sala con i ringraziamenti agli amabili donatori di generose offerte in danaro (sempre di provenienza Yakuza).
In passato, leggendo Terzani, ho appreso che la Yakuza non è esattamente un’organizzazione criminale all’occidentale ma, diciamo, un tollerato “interlocutore” dello Stato che regola e tiene sotto controllo la criminalità (i pezzi piccoli sono effettivamente criminali, i pezzi grossi sono rispettabilissimi ed onorevoli appartenenti al “governo ombra”). Essa importa la droga, ma ne limita la diffusione e ne controlla la qualità del taglio, impedendo ad altre organizzazioni criminali di intromettersi e dilagare; controlla e regola la prostituzione, impedendo il degrado di violenza a cui può arrivare. Insomma è senz’altro criminalità ma in qualche modo è accettata (e a volte protetta) dallo Stato giapponese perchè permette di contenere e regolare la criminalità stessa. Ed effettivamente quanto avevo letto, coincide perfettamente con quanto visto ed udito in quella memorabile serata: loro, la famiglia di bonzi, sono i sacerdoti delle rispettate e potenti famiglie Yakuza, gentiluomini d’onore devoti al buddismo e dai modi raffinati.
Abbastanza shocckato ma molto incuriosito, proseguo la serata visitando a piedi i veri bassifondi di Osaka, dove case fatiscenti si alternano a ristoranti di lusso, con un occhio al portafoglio ma nient’altra preoccupazione rilevante insieme com’ero ad un “intoccabile”; segue visita al quartiere delle prostitute (decine e decine di “vetrine” dove una gentile vecchietta mostra la deliziosa fanciulla alle sue spalle elegantemente seduta in attesa del cliente e ti invita rispettosamente a scegliere la sua protetta – foto a sinistra); per concludere tour dei “quartieri generali” delle famiglie importanti (qui, su suo consiglio, non ho scattato foto). Infine la cena nel più valido, a suo dire, ristorante di lusso tra quelli incontrati poco prima. Il menu. Tutti i tagli migliori dell’ormai celebre, su queste pagine, manzo di Kobe in varie declinazioni: fegato crudo in salsa di limone (surreale); fettine sottilissime mangiate come sashimi (con le salse appropriate per lo più a base di sesamo); pezzi spessi da fare sulla piastra presente al centro del nostro tavolo e opportunamente conditi con un sugo di cui ignoro la totalità degli ingredienti; tritato di filetto disteso su un intruglio fatto con la rapa giapponese (non induca in errore il termine “rapa”: è buono); birra e sake a fiumi e un conto che non mi sono neanche azzardato a far finta di voler pagare al posto del gentilissimo bonzo, perchè tanto non avrei potuto farcela neanche liquidando ogni mio avere. E’ stata una cena veramente memorabile: tutto delizioso e un po’ esotico, euforia data dall’alcool (che il nostro bonzo non ha consumato, accontentandosi di una quarantina di sigarette distribuite tra un piatto e l’altro: nulla di religioso, le multe per chi guida sotto l’effetto di alcool sono molto pesanti in giappone), una lieve ma costante sensazione di vivere all’interno di un film appassionante. Aggiungendo la ciliegina sulla torta rappresentata dalla moglie del bonzo, che è una ragazza di una bellezza abbagliante, avrete un quadro preciso della mia depressione attuale: quando mi ricapiterà una serata così ?
Pissi: Accessorio Ikea entrato in commercio in tutto il mondo nel 2003. Pissi, una tavola di plastica dalle dimensioni di 100x150cm disponibile in vari colori, era stato pensato dal designer svedese Lars Strubølen come una “tavola da pissing” (sic). L’oggetto avrebbe infatti permesso alle coppie in cerca di emozioni bizzarre di praticare il pissing senza paura di sporcare in giro: sarebbe stato sufficiente fare adagiare il partner sulla tavola per preservare lenzuola e divani dalla pioggia dorata. La campagna promozionale di Pissi (celebre lo slogan: “Pissi pissi bau bau”) si indirizzò in particolar modo alle casalinghe annoiate, tentando di convincerle che l’accessorio avrebbe risvegliato la passione dei loro mariti. Tuttavia, appena messo in vendita, Pissi provocò le reazioni indignate delle Associazioni per la Famiglia di 22 paesi, oltre ad attirarsi gli anatemi di 12 confessioni religiose, alcune delle quali fondate per l’occasione. L’oggetto fu prontamente ritirato dagli scaffali tranne che nei punti vendita Ikea in Bielorussia, dove ha invece riscosso un notevole successo e tutt’oggi rimane fra gli articoli più venduti nel paese.
Blaue Krapfen (Krapfen Azzurro): corrente pittorica tedesca di inizi ‘900 antagonista al gruppo del Blaue Reiter, i cui componenti dipingevano esclusivamente utilizzando krapfen avariati.
Martellino: merendina industriale diffusa dalla Priaponi Dolciumi nei tardi anni ’70. Il Martellino era una merendina a base di mandorle e cioccolato, chiamata così per la tipica forma a “T”, simile a quella di un martello; la “testa”, di cioccolato, era marrone scuro e il “manico”, di pasta di mandorle, era color legno. La popolarità del Martellino derivava dalla sua durezza, più che dalla sua bontà. I bimbi si divertivano infatti ad utilizzarla per scherzi maneschi (ad esempio tirandola sui denti degli amichetti), per suonare coi tamburi allegri motivetti o come forme per le costruzioni più ardite. Le sorelle maggiori, invece, rubavano queste merendine ai fratelli più piccoli utilizzandole come limette per unghie. Un quotidiano di Caserta, il Gazzettino della Bufala Campana, sostiene che una volta il bimbo Gigino B. ne abbia mangiato uno.
Ho un debole per la “conta” scatologica del ponte di Baracca:
Sotto il ponte di Baracca
c’è Pierin che fa la cacca.
La fa dura dura dura,
il dottore la misura,
la misura trentatré
uno due tre.
Mi son sempre chiesto con quale unità di misura il dottore misurasse la cacca di Pierino. Trentatrè centimetri di lunghezza, forse? Ma dal contesto sembra che il dottore (ma poi sarà lo stesso con la figlia zoofila in Ambarabà?) misuri la durezza della cacca, non la lunghezza. E come sanno tutti i lettori di etichette di acque minerali, la durezza si misura in gradi francesi. La cacca di Pierino, quindi, ha una durezza di trentatré gradi francesi.
Eppure, c’è qualcosa che non mi quadra…
La maggior parte dei lettori ha già letto il seguente articolo, non scritto da me ma dal fedele commentatore (nonché amico di vecchia data) Kotekino. Io e il logorroico figuro abbiam deciso di dare maggiore visibilità ai commenti dedicati alle sue visite in Giappone (la leggendaria Terra dei Musi Gialli, lo Shangri-La degli otaku), e quindi nei prossimi tempi assisterete ad una breve serie di articoli di suo pugno. La parola a Kotekino…
Essendo io un feroce carnivoro e avendone sentito parlare, ho chiesto informazioni a mio suocera Takako sulla Mucca di Kobe (Kobe-Ghiu): il simpatico bovino viene nutrito a birra quotidianamente per diversi anni e costantemente e continuamente massaggiato da masso-fisioterapeuti specializzati. Sbalordito (e un po invidioso della mucca stessa) ho voluto assolutamente comprarne una bisteccona nonostante i prezzi proibitivi me lo sconsigliassero vivamente; entrato nel negozio apposito e scelto un taglio relativamente costoso (ma in saldo) sono passato all`osservazione del pezzo; dal punto di vista estetico una bistecca di tal fatta si presenta come una bistecca particolarmente rosa, guardando meglio se ne capisce il perché: tutto il grasso è perfettamente ed equamente distribuito in microquantità all’interno del taglio scelto e non attorno al muscolo come normalmente capita, ciò oltre al colorito roseo conferisce alla bistecca la consistenza più morbida di quanto potessi sperare nel sogni più spinti; ecco svelato il mistero dei continui massaggi. Consegnata alla padella in compagnia di sale grosso e un pizzico di pepe essa ne e` uscita grigliata a meraviglia, non restava che assaggiarla: e qui ho capito finalmente anche il segreto della birra. Un gusto che definire celestiale (per chi ama la carne come il sottoscritto) è assai riduttivo. Veramente impressionante, se non fosse per il costo (i tagli più pregiati degli allevamenti più rinomati arrivano a 500 euro al kg) avrei trovato il monoalimento di cui fare uso per i prossimi 90 anni…
(Foto: a sinistra le bistecche in esposizione, a destra la bistecca che ha in seguito fatto un giro nel corpo di Kotekino)
Dopo la pipa e la barzelletta pelosa, a voi un’altra barzelletta orrenda. Anch’essa proviene da qualche momento oscuro della mia infanzia, ma purtroppo non riesco a ricordarne il responsabile; ho qualche sospetto sull’amico sassellino Marco B., detto Il pamparotto, ma non potrei giurarlo. Ma ora si spengano le luci, si zittiscano i cellulari e si ascolti attentamente “Il pappagallo insolente“.
Allora, c’è una signora che va a comprare un pappagallo. Il negoziante le dice: “Stia attenta, signora, che questo pappagallo ripete tutto quello che sente”. “No, va bene, va bene, non c’è problema”. Mentre lo porta a casa dal negozio, si mette a piovere e un signore che passava di lì dice “Minchia, piove!”. Poco dopo incrociano un tizio con un carro trainato da un cavallo che ad un certo punto crolla dalla fatica. Un passante suggerisce al padrone del cavallo: “Schiacciagli le palle che si rialza!”
Però , una volta a casa, il pappagallo continua a stare muto, tanto che la signora si preoccupa e decide di farlo benedire. Chiama il prete che viene a casa della signora e cosparge l’uccello di acqua santa, al che il pappagallo esclama: “Minchia, piove!”. Il prete allora sviene e il pappagallo dice “Schiacciagli le balle che si rialza”.
Appena smettete di ridere analizziamo la storiella. Nel frattempo canticchio un po’.
Firulì, firulà. Lallallerò lallallà. Puffa una canzon.
Su, ora basta ridere! L’introduzione della barzelletta è debole, manca della verve necessaria ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore. Mi è stata raccontata così, ma si potrebbe aggiungere qualche dettaglio. Ad esempio, potrebbe essere un pappagallo in svendita perché troppo insolente. Oppure la signora potrebbe cercare qualcosa di economico e gli viene rifilato quello. E’ invece ovvio che uno compra un pappagallo perché parla (almeno, nel mondo delle barzellette). A che serve quindi l’avviso del pappagallivendolo?
Della seconda scena, quella del tragitto verso casa, mi piace la scena del cavallo sfiancato, a metà strada tra Tex (“Ehi amigo, schiaccia le palle a quel mustang!”) e Cuore (“Vedi, Enrico, i patrioti del Risorgimento soffrirono molto più di quel cavallo, ma il nobile sentimento dell’Italia Unita fece come se venissero loro schiacciate le palle”), e apprezzo del senso pratico del passante che non si fa i cazzi suoi. Visto che pioveva, però, il cavallo poteva essersi rinfrescato.
L’apoteosi dell’imbecillità sta nella terza scena. Il pappagallo non parla, e la signora che fa? Lo riporta indietro al negozio? Si rivolge ad un veterinario? Tenta qualche tecnica logopedistica? Ne è felice perché non le rompe i marroni? No, niente di tutto questo: chiama un prete! Alla faccia dell’oscurantismo!Il personaggio del prete forse è ancora più surreale di quello della signora o del pappagallo: un uomo di chiesa che evidentemente non ha di meglio da fare che accorrere a benedire pappagalli che non parlano, usando per di più l’acqua santa (la cosa tra l’altro mi puzza un po’ di blasfemo…) e che soprattutto sviene quando sente una parolaccia. Io amo quest’uomo, lo voglio come zio!
Il difetto primario della barzelletta sta a questo punto nel finale: lo svenimento del prete crea una situazione surreale, e la prima frase pronunciata dal pappagallo prelude al finale in modo troppo plateale, e quindi il climax è anticipato. Una delle regole di base delle barzellette è che il finale deve essere in crescendo. E’ come se ne finale della barzelletta del Fantasma Formaggino si aggiungesse: “E il fantasma rimase con un palmo di naso”. Una chiusura in calare deve essere tagliata e se non è possibile, come nel caso della barzelletta oggetto dell’analisi, allora è un’antibarzelletta. Insomma, per che cacchio ridevate prima?