Ovvero, una figura di popò, direi una delle peggiori della mia breve e intensa esistenza.
Era, a naso, il 1990, avevo 16 anni e non ero ancora motorizzato (i miei mi avrebbero concesso l’agognata motoretta solo l’anno successivo). Mi trovato ad aspettare l’autobus per Moglio al capolinea di Alassio, attendendo con mio cuggino Gabriele, lì per caso e sua disgrazia, e una piccola folla di habitué del bus: ora come allora, quasi tutti bambini e vecchietti privi di mezzi propri. In particolare, c’era una signora il cui comportamento mi aveva sempre urtato: era una di quelle che parlano sempre di tutto e a sproposito di tutto, senza sapere quando stare zitta o quando disturbava la gente, e per di più schiamazzando forte con una voce da gallina. Mi rivolsi allora al mio incolpevole cuggino e, sottovoce, gli dissi: “Quella là è un’imbecille“, indicandola con lo sguardo.
Nonostante il volume a cui parlava continuamente che avrebbe dovuto renderla sorda, la cagacazzo in questione sentì la frase incriminata, e ovviamente si risentì, ma non osò affrontarmi a muso duro. Si vendicò invece trasversalmente, comunicando a tutto il gruppuscolo di persone in attesa che “quello lì ha detto che sono un’imbecille”. Tutti intorno allora iniziarono a mormorare “Ma chi è quello lì? Ma come si permette? Ma da dove viene? E’ forse il figlio del panettiere? No, no, quello è un bravo ragazzo, questo sarà un drogato” mentre io e mio cuggino, probabilmente imporporiti fino ai capelli, fissavamo il vuoto e fischiettavamo la canzone dei Puffi cercando di darci un contegno.
E, come si soleva dire ai miei tempi, parappapà, parappapà, parapparappappà, figu’ di merda…