Milano, 1980 circa
Quand’ero piccolo ogni tanto mi capitava di andare in città, più frequentemente a Milano e Torino (per presenza di parenti vari) che a Genova. In una delle visite nel meneghino capoluogo, fui condotto alla Rinascente, noto grande magazzeno. In quel luogo di meraviglie ci fu un tipico shock da “Ciccio di Nonna Papera va in città” per la presenza di tanta gente, tanta roba, un piano intiero di giocattoli. E soprattutto per gli ascensori.
Quello che infatti più mi colpì fu la presenza di tre ascensori distinti: uno più grande per salire e per scendere, e due più piccoli, uno riservato alla salita e uno alla discesa. Questi ultimi due, per caso, erano fuori servizio. Io allora scossi la testa e pensai: “Ma come si fa a essere così imbecilli da progettare un ascensore che, una volta arrivato in cima o in fondo non serve più a niente e deve essere buttato via? I lombardi sono proprio un popolo inferiore!”.
Ed è da allora che non mi piace Milano.
Aneddoto fresco fresco, come nei blog veri.
Stamattina, mentre percorrevo Corso Italia a Genova in motoretta, ho affiancato per un breve istante un’automobile ad un semaforo. Il verde è scattato subito, ma dal finestrino aperto di quella macchina ho fatto in tempo a sentire un signore che, con aria a metà tra l’arrabbiato, lo scocciato e il disperato gridava: “Ci vuole la stessa quantità di calore!”. Non ho fatto in tempo a vedere l’interlocutore e sono dovuto andare via, ma sono pressoché certo di avere capito quale fosse il tema del discorso: qual è il momento migliore per mettere il sale nell’acqua per la pasta? All’inizio o quando l’acqua è già bollente?
E’ la stessa cosa. Giuro. Aveva ragione quel tizio, per portare una miscela di acqua e sale a ebollizione “ci vuole la stessa quantità di calore”, sia che metti il sale prima sia che lo metti dopo. Il problema è che, da esperienza, so che è impossibile convincere del contrario chi è convinto che “si fa prima mettendo il sale quando l’acqua bolle già”. Vabbè. D’altronde, essendo la stessa cosa, non ci vedo nulla di male a lasciar fare in quel senso.
Quindi, caro il mio signore, non ti crucciare, e goditi il lungomare al mattino. E’ quasi bello trovare i semafori rossi perché puoi guardare un po’ il mare. Sì, il mare è acqua salata e potresti avere voglia di bollirlo e fare il minestrone come Zio Paperone nella storia del caldo Spray, ma tu non ci pensare. Ecco, magari invece insisti per l’uso del coperchio. Quello invece serve.
(questa la prendo alla larga e ci ficco un po’ di anedottica inconcludente, quindi mettetevi comodi)
Ormai saprete bene che ho frequentato le scuole elementari dalle suore, e le funeste conseguenze sono sotto gli occhi di tutti (ad esempio guardando il “fotoromanzo” della scorsa settimana). Ovviamente, in un istituto simile si prestava particolare attenzione alla formazione religiosa, e per quanto riguarda i sacramenti, la regola di quella scuola era “comunione in terza, cresima in quinta”. Se è abbastanza comune fare la prima comunione alle elementari, è invece più consueto posporre la cresima più in là, alle medie se non oltre, poiché persino nelle parrocchie si riconosce che la cresima dovrebbe essere fatta in piena coscienza e non come semplice “rito di passaggio”. Evidentemente da noi non la pensavano così, e l’idea era di far diventare tutti soldati di Cristo (immagine che mi ha sempre fatto un po’ paura) prima che fosse troppo tardi e uno magari potesse cambiare idea.
Nel mio caso, la situazione è stata peggiorata da un sillogismo operato in famiglia: mia sorella ha solo un anno più di me, fare una festa con tutti i parenti è molto impegnativo, quindi facciamo anticipare a Luca i suoi sacramenti. Fu così che io feci la comunione in seconda e la cresima in quarta. Inoltre, poiché il catechismo avveniva in classe, arrivai completamente impreparato a entrambi i sacramenti, tanto che il mattino stesso della cresima mia sorella mi istruì con l’indispensabile: “Dopo che il vescovo ti unge, devi dire E con il tuo spirito e poi Amen” (o quel che è, non pretendete da me le frasi giuste!). E’ vero, imparai qualcosa l’anno dopo, durante la preparazione della mia classe, ma ormai il danno era stato fatto.
Dopo le due cerimonie, a casa mia si tenne una festa di grandi proporzioni. Non ricordo altre occasioni in cui una tale quantità di parenti si sia raccolta in un solo luogo, nemmeno ai matrimoni che sono seguiti negli anni, e mi rendo conto di come fosse razionale l’idea di dimezzare lo sforzo, visto che evidentemente l’imposizione del sacramento non era altro che una scusa per una festa in famiglia. E nelle due occasioni i parenti fecero i regali. Purtroppo, a differenza di molti miei amici per i quali si trattò di un Natale supplementare, gran parte dei miei regali furono (giustamente) a tema: Bibbie, piccole croci d’oro, libri a tema religioso. E, in occasione della cresima, un mucchio di compassi.
Ed eccoci finalmente alla domanda, una cosa di cui non riesco ancora a capacitarmi: si può sapere perché diamine per la cresima mi hanno regalato tre scatole piene di compassi e balaustrini?
Vicino a casa mia, a Genova, è situato il prestigioso Teatro della Tosse di Genova. Passandoci davanti, poco tempo fa, mi son ricordato che un mio amico, che chiameremo S., lavora lì come tecnico delle luci.
S. , come me originario di Alassio e trasferito a Genova, è stato mio compagno di classe alle medie, compagno di giochi di ruolo durante le superiori, e mio coinquilino nonché compagno di camera durante il primo anno di università. Non è stata una convivenza molto felice, tanto che da allora, in tutti i coinquilinaggi in cui mi sono trovato, ho sempre imposto come vincolo irrinunciabile la camera singola.
Non che io ed S. non andassimo particolarmente d’accordo, ma soffrivo per la mancanza dei miei spazi, e soprattutto lui russava come un ananasso. Dato che una delle Crudeli Leggi della Vita stabilisce che “chi russa si addormenta sempre per primo”, per evitare di trascorrere ore insonni a fissare il soffitto avevo preso l’abitudine di sentire la radio notturna per passare il tempo e coprire il rumore. Avevo uno di quegli stereo “portatili” con maniglione che si usavano ancora nei primi anni ’90, a cui attaccavo dei cuffioni enormi e ascoltavo Radio Due, Planet Rock (amatissimo programma che mi ha avvicinato alla radio nel 1991, ormai defunto da lustri) fino a mezzanotte e poi Rai Stereonotte. Ad un certo punto, comunque, mi addormentavo, e in seguito, verso il mattino, mi svegliavo un attimo per spegnere la radio e liberarmi delle cuffie.
Una notte, passò una canzone bellissima. Non mi è mai accaduto, né prima né dopo, di essere così rapito e commosso nel profondo dall’ascolto di una canzone. Sarebbe bello poter dire che l’ho cercata all’inverosimile e solo l’altroieri l’ho finalmente scovata e oggi sto festeggiando il ritrovamento di quel gioiello, ma non è così. Tutto quello che so è che si tratta di una canzone stupenda passata su Rai Stereonotte in una notte tra il 1993 e il 1994, a naso tra mezzanotte e le due. Non ricordo manco in che lingua fosse cantata. Un po’ poco, temo. Ma forse è meglio così: probabilmente quel pezzo mi era piaciuto tanto per le condizioni particolari in cui lo ascoltai, risentendolo sarebbe stata una delusione.
O no?
Ora che il primo decennio del XXI secolo sta volgendo al termine, il fattore nostalgia si sta spostando dagli anni ’80 ai ’90, e fioccano i revival di vario tipo. Come capita comunemente in occasioni simili il tempo trasforma e abbellisce ciò che tanto bello magari non era: per me gli anni ’80 sono i robottoni in tv e le partite di pallone con gli amici nei prati piuttosto che Craxi, Reagan, gli yuppie e le giacche da uomo con le spalline. E, similmente, l’orrenda techno anni ’90 o Sailormoon in TV mandano alcune persone in sollucchero.
Ma io per questo decennio ho deciso arbitrariamente che è troppo presto, ed è per questo che oggi stigmatizziamo un programma che in quel periodo ha fatto furore: il Karaoke di Fiorello. Per chi non lo ricordasse o fosse troppo giovane o ai tempi fosse vissuto in una caverna, ricorderò che si trattava di un programma televisivo in cui un signore con la coda di cavallo girava per le piazze italiane e faceva cantare dei concorrenti dilettanti mentre sullo schermo tv comparivano i testi delle canzoni, invitando quindi implicitamente il pubblico (a casa e dal vivo) a cantare insieme. Al termine dell’esibizione di ogni concorrente il pubblico acclamava e un apparecchio, chiamato applausometro, misurava il rumore dei fan in delirio. Chi otteneva più applausi vinceva. Tuttavia, spesso l’applausometro misurava valori a caso e il vincitore quindi era piuttosto aleatorio, o più probabilmente deciso a tavolino in base alla simpatia o alla telegenicità dei concorrenti. Appare evidente che si tratta di un programma che può avere un certo successo, perché racchiude il coinvolgimento del pubblico sia dal vivo che in tv, coniugato con canzoni conosciute da tutti. Più sorprendente invece il fatto che una formula così povera sia durata la bellezza di quattro anni: non c’è poi tanto da stupirsi se Fiorello si sfondava di cocaina, chissà che palle!
Io ho dei ricordi contradditori del Karaoke; certamente non lo guardavo quotidianamente, un po’ perché era trasmesso alle 20 e alle otto a casa mia si vedeva il telegiornale, ma soprattutto perché a quell’epoca ero fissato con l’heavy metal e, come è normale per gli adolescenti, non accettavo compromessi con altri generi musicali. Figurarsi la musica italiana! Eppure diverse puntate devo averle viste, giacché c’è un momento che ricordo con affetto un po’ trash: la promozione dei jeans Lee. In queste occasioni saliva sul palco un fortunato astante del pubblico che per vincere un premio doveva annunciare un personaggio famoso che si chiamasse Lee, come i jeans. Inutile dire che, evidentemente, la risposta era suggerita dalla produzione. Dopo pochi giorni i Lee più ovvi erano esauriti (Spike Lee, Stan Lee, Sheryl Lee, Bruce Lee…) e iniziarono le risposte più spurie, come Jerry Lee Lewis, Jamie Lee Curtis o il Generale Lee inteso come automobile di Hazzard. Esauriti anche questi, con la telepromozione che non era ancora terminata, gli autori gettarono la spugna e passarono a orrori pseudo-spiritosi come “Leeno Banfi” o “Topoleeno”.
Ancora oggi, quando sento parlare di quanto Fiorello sia bravo e come sia il futuro salvatore della tivù italiana io ripenso a quel signore con la coda da cavallo e lo sguardo un po’ spento che, sentendosi dire “Topoleeno”, ha l’aria di pensare “Che me tocca fa’ pe’ campa’!”. Amico Rosario, figurati che noi ti guardavamo…
Quand’ero bambino la famiglia Ventimiglia possedeva due automobili. La macchina grossa, quella guidata quotidianamente da papà, era una Opel Kadett prima verde e poi blu (evidentemente papà si era trovato bene), la macchina piccola invece era di solito usata da mamma, ed era una splendida Panda color crema con tettuccio apribile, dal quale, in estate, a volte era concesso sporgersi durante i tragitti. Alla faccia della sicurezza, era un’esperienza divertentissima.
Sul vetro posteriore della Panda era attaccato un lungo adesivo, che attraversava il lunotto per intero e che recitava: “Sì, Fiat Autofossati è meglio!”. Si trattava di un’astuta idea del concessionario che si pubblicizzava attraverso le vetture vendute. Mi chiedo solo ora perché non avessimo rimosso quello stupido adesivo, ma in fondo è stato meglio così.
Infatti la decalcomania era trasparente e, vista da dentro, la scritta appariva al contrario (il cosiddetto “effetto aznalubma“) . Io e mia sorella, relegati nel sedile posteriore, avevamo deciso che “ìS, taiF itassofotuA è oilgem!” era una frase multilingue:
- Is è chiaramente inglese.
- Taif suona come tedesco.
- Itassofotua, pronunciato tronco, non può che essere francese.
- è (anzi, é) è italiano, vuole dire “è”!
- Oilgem era stato più discusso, ma mi pare che (miasorella potrà correggermi) si fosse deciso che era di nuovo tedesco.
Non avevamo però deciso quale fosse il significato della babilonica espressione. Forse, leggendola ad alta voce a mezzanotte, compare il diavolo.
Nota a piè di articolo: gli specialisti di specchi e simmetrie avranno notato l’anomalia per la quale la frase veniva ribaltata parola per parola ma non nel suo complesso. Non so spiegare perché leggessimo “ìS, taiF itassofotuA è oilgem!” e non, come sarebbe più naturale, “oilgem è itassofotuA taiF, ìS”. Forse, semplicemente, suonava meglio.