Sassello, 1981 circa, casa di Marco Pesce
La compagnia degli amici di Sassello prevedeva la frequentazione delle case degli altri con una naturarezza che, a ripensarla, è quasi imbarazzante persino per dei bambini. Si entrava senza bussare, ci si sedeva sulla poltrona e, se a uno scappava un bisognino, andava in bagno senza chiedere niente a nessuno. Un giorno che ero da Marco e mi scappava la popò, ho preso un giornaletto e mi son messo a fare la popò.
Questo giornaletto era intitolato I tuoi amici in TV o qualcosa di simile, ed era costituito principalmente da versioni a fumetti delle serie tv. Erano adattamenti fatti in Italia e apparivano orrendi persino al mio stomaco abituato a Trottolino e Nonna Abelarda. Come riempitivo tra questi fumetti, c’erano alcuni redazionali, uno dei quali era costituito dai personaggi dei cartoni animati che rispondevano alle domande dei lettori. Sì, proprio loro in persona (cacchio ridete, tuttora metà dei fumetti Bonelli prevedono che la pagina della posta sia affidata ad un personaggio del fumetto!).
Una di queste domande era rivolta a Lupin, e chiedeva perentoriamente: “Fujiko e Margot sono la stessa persona?”. Lupin stesso rispondeva (citazione quasi letterale, per qualche strana ragione mi è rimasta appiccicata alla memoria): “Mah, forse sì, forse no…chi può dirlo? Suvvia! Un pizzico di mistero non guasta!”
Per coloro che ritenessero che a volte un pizzico di mistero guasta eccome: Lupin dev’esserselo dimenticato, ma Margot è il nome appioppato a Fujiko nella seconda serie delle sue avventure (giacca rossa, per capirci). Nelle altre due (giacca verde e giacca rosa) viene correttamente chiamata col suo nome da muso giallo. Quindi sì, sono la stessa persona.
[GIGI] Alassio, inizio 1984
Durante la quarta elementare, la mia maestra scelse un’attività didattica che fu molto gradita agli scolari: la redazione di un giornalino di classe.
Come prima cosa, tenne una democratica elezione per stabilire il titolo della testata: come compito a casa, ognuno di noi avrebbe dovuto escogitare un nome. Io, dopo lunghe riflessioni, me ne uscii con un perentorio Frutta e verdura. Come al solito ero molto più avanti di tutti, persino della maestra che si sentì in diritto di chiedermi:
– Luca, perché Frutta e verdura?
Al che io pazientemente replicai:
– Vuol dire “un po’ di tutto”, maledetta pinguina rincoglionita!
Forse non proprio con queste parole, ma il senso è quello. Cristian propose Il ristorante e manco quello fu capito dalla maestra, ma egli, alla richiesta di spiegazioni, disse di non conoscere il significato della propria creazione. Ma sì, che lo sai, dai, hai copiato Il caffè, il primo giornale italiano.
Comunque sia, venne fatta una prima scrematura e poi venne effettuato un ballottaggio tra i 3-4 titoli più votati. Vinse la proposta di Susanna, quella che effettivamente avevail titolo migliore e che anche adesso mi suona molto bene: Il Galletto Cantanotizie. Tuttavia, in un impeto di cerchiobottismo, la maestra decise di attribuire come sottotitolo il secondo arrivato, per non scontentare coloro che l’avevano votato. Questo secondo titolo, a mio parere di ora e di allora, è paurosamente sciapo e ridondante: Pettegolezzi vari. Ma il capo era la maestra, e quindi il giornale si chiamò Il Galletto Cantanotizie, ovvero Pettegolezzi vari. Moan. Ovviamente, Frutta e verdura non prese nemmeno un voto, ma nemmeno Il ristorante. Magra consolazione.
Del Galletto uscirono due numeri, il primo nella tiratura di 1 (una) copia, il secondo di circa 25 (venticinque) copie. In pratica, entrambi i numeri erano fatti di pagine di quaderno incollate su grossi fogli di carta, e il secondo numero venne anche fotocopiato e distribuito, una copia per ogni alunno. La mia copia, nonostante mia mamma asserisca di averla ancora da qualche parte, secondo me è andata perduta, e purtroppo non riesco quindi a dirvi di che cacchio parlasse Il Galletto Cantanotizie. Già, nonostante la mia proverbiale memoria per i particolari inutili, non riesco a ricordare che taglio avesse la testata.
Posso però annunciarvi che io scrissi almeno due articoli. Il primo articolo era su un'”affare” (non saprei come chiamarlo altrimenti) che trasmettevano in televisione poco prima del tg della sera e che si chiamava Il Giramondo o Il Girotondo o Il Girarrosto o qualcosa di simile, ed erano dei microspezzoni di filmati buffi inseriti tra uno spot e l’altro, in modo da invogliare lo spettatore a sussarsi tutto il blocco pubblicitario. Credo che scrissi più o meno le stesse cose che ho appena citato, forse senza l’espressione “sussare”. Peccato, è efficace.
Il mio secondo articolo fu su Lupin III (sì, a ripensarci ero un teledipendente mostruoso, passavo almeno 4 ore al giorno davanti alla TV) in cui parlavo con entusiasmo di questa serie televisiva. La maestra, dopo aver letto la mia bozza, mi costrinse ad aggiungere la conclusione: “Certo, non è una serie molto educativa”. Invero, non lo è, ma è bella anche per questo. E, giacché si trattava di un giornale, io decisi arbitrariamente che ci si potevano anche mettere su gli annunci. Un giorno, colsi Mike a lamentarsi di aver smarrito una penna e lo trascinai dalla maestra costringendolo a chiederle di scrivere un annuncio sullo stile “A.A.A. Cercasi penna”. Entrambi erano perplessi di fronte a tanto rincoglionimento, ma nondimeno in un angolo libero, a pennarello verde, l’annuncio venne scritto. Mike ritrovò la penna dieci minuti dopo, e non grazie all’annuncio.
E questo è tutto quello che ho da dire sul Galletto Cantanotizie.
Nella prima metà degli anni ’80, prima che arrivassero le cingomme (cincingomme, cicche, cicles, gomma americana. Che ognuno scelga la sua localizzazione preferita) senza zucchero, spopolavano le Brooklyn, la gomma del ponte. I markettari della Perfetti, dopo essersi spremuti per trovare un nome che ricordasse il “mito americano”, tirarono fuori dal cilindro un grandioso concorso a premi che prometteva: “Diecimila biciclette! Mille motorini! Due viaggi in America!”. Io (e non solo io, come poi scoprii) mi chiedevo: “Ma che me ne faccio di diecimila biciclette? Me ne basta una, al massimo due, così una la tengo a Sassello!” e non compravo le Brooklyn. In realtà non le avrei comprate lo stesso, perché da piccolo non avevo mai un soldo in tasca e soprattutto perché ho sempre detestato cinciungare le cincingomme, le sputavo appena perdevano il sapore. Non parliamo poi delle Big Babol, non riuscivo a fare le bolle e quindi mi infuriavo e sbavavo dalla rabbia. Certo che fa proprio schifo vedere uno che fa le bolle coi cicles, eh (ok, anche uno che sbava). Quelle col grasso di topo, poi!
– E allora?
– Allora cosa? Se la categoria si chiama “Aneddoti inconcludenti”, che inconcludenti siano!
Io non sono un grande amante di dolci. Le mie perversioni alimentari sono più orientate verso le patatine, la carne, la pizza; tuttavia c’è un’eccezione: il cioccolato. Da piccolo, poi, era il mio “premio”: dopo aver sparecchiato la tavola o fatto qualche altra piccola incombenza, mi guadagnavo il diritto di prendere uno o due cubetti della delizia marrone, che inevitabilmente non mi bastavano mai.
Una mattina, durante la terza o la quarta elementare, vidi un po’ di folla intorno al banco di Nadia, e notai che la gente si allontanava con in mano una carta di cioccolatino. Col cuore in gola mi avvicinai e chiesi a Nadia senza pudore: “Posso averne uno?”. Lei fu un po’ sorpresa (non ero molto in confidenza con quella bambina) ma disse comunque “Certo!” e mi porse…una carta di cioccolatino di stagnola. Per un momento fui indeciso se mettermi a piangere o picchiare quella sfrontata, ma poi notai che mezza classe era impegnata in una strana attività: tutti coloro che prima avevo visto con una carta di cioccolatino in mano erano seduti sul banco ed erano impegnati a lisciarla con pazienza, togliendo ogni minima pieghetta. Si trattava semplicemente di una moda stupidina che era scoppiata e che, ovviamente, sarebbe durata meno di una pipì di farfalla.
A questo punto, con la mia carta in mano, mi diressi al mio posto. La lisciai un pochino, ma poi sentendomi troppo imbecille, emisi un sospiro e mi misi ad odorare la carta. Almeno così potevo immaginare il cioccolato che c’era stato dentro.
Alassio, primi anni ’80.
In seguito a non ricordo cosa, un giorno sbottai:
– Me ne frego!
Al che la Mamma mi riprese:
– Non si dice “Me ne frego!”. Si dice “Non mi importa.” Ma dove l’hai sentito?
– Non lo so.
In realtà lo sapevo benissimo, ma per qualche strana remora non volevo dirlo. I cattivi maestri erano nientepopodimenoché i Ricchi e Poveri. Infatti la loro hit sanremese “Sarà perché ti amo” recita le seguenti immortali parole:
Cade una stella
ma dimmi dove siamo
che te ne frega
sarà perché ti amo.
Un giovane virgulto destabilizzato da una brunetta, un baffo e un bello!
(potreste chiedervi cosa c’è di male nell’espressione “fregarsene”. In effetti la mia famiglia voleva che io crescessi il più retto possibile, anche quando, come in questo caso il legame con la “sconcezza” originale è completamente dissolto: “me ne frego” o, meno comune, “me ne stropiccio” indica il gesto di chi si sfrega i genitali per indicare la propria indifferenza. Un gesto perlomeno poco elegante).
Poi, poco tempo dopo, fui parcheggiato da mia nonna per una giornata e sentii in televisione una canzone che proclamava: “Che casino che è scoppiato quaggiù!”, mi pare sull’aria di Banana Boat. Colpito, cominciai a cantarla senza sosta. Al ritorno dei miei genitori, essi capirono con sconforto di aver perso una battaglia.
Oggi stigmatizziamo un evento successo in quarta elementare dalle mie parti. Tra parentesi, non è una parola splendida stigmatizzare? Usiamola tutti, tutti i giorni e in tutte le frasi! E chi non lo fa, che sia stigmatizzato!
Torniamo a noi, a quel giorno dell’anno scolastico 1983/1984 in cui la maestra ci annunciò che sarebbe venuto un signore a parlarci di una cosa. Gioimmo, poiché qualunque evento che spezzasse la monotonia dei giorni di scuola era il benvenuto. Più avanti, al liceo, si sarebbe coniata la parola bastandà per indicare il lodevole atteggiamento.
Arrivò quindi un untuoso omino che iniziò a magnificarci le virtù delle Cartine Mute Riscrivibili. Si trattava di cartine dell’Italia (da un lato fisica dall’altra politica, come da tradizione, ma senza scritte) stampate su una carta plastificata. Era quindi possibile scriverci sopra con appositi pennarelli e poi cancellare con uno straccio. L’indubbia utilità di tutto questo consisteva nella possibilità di ripassare fiumi, laghi, province e città scrivendoli sopra, oppure, uscendo dall’ambito della geografia per passare alla storia, e così tracciare l’evoluzione degli staterelli italiani nel Rinascimento, o indicare il percorso di Garibaldi! Wow!
Va da sé che, sì, uno strumento simile può essere un piccolo ausilio, ma la cosa è ben lungi dall’essere un vantaggio critico. Stupisce quindi che la maestra abbia avallato l’uso delle Cartine Mute Riscrivibili, invitando neanche tanto tra le righe tutti gli studenti a comprarle. Mi verrebbe quasi da pensare che avesse preso una bustarella, ma si sa che le suore sono brutte ma queste cose non le fanno. Forse.
Comunque, con ventidue alunni in classe furono vendute ventidue Cartine Mute Riscrivibili, ad un prezzo di circa 5000 lire l’una. Eppure, Emanuele non la comprò. Ai tempi fu stigmatizzato, ma ora riconosco che lui (o, meglio, i suoi genitori) la sapevano lunga. Ma allora, direte voi, chi acquistò due Cartine Mute Riscrivibili? O piuttosto, visto che la sapete lunga, state già escogitando il commento che scriverete per deridermi per l’incauto acquisto, vero? Infatti, preso dal Sacro Fuoco della Geografia, decisi di prenderne una per me e una per mia sorella. Non vi stupirete nel sapere che non furono mai utilizzate, se non per stupire i parenti con l’audacia di scrivere con un pennarello su una cartina. Cioè su una Cartina Muta Riscrivibile.