La visione del mondo di un bambino è inevitabilmente filtrata dalla famiglia. Anche con quattro ore al giorno di scuola per confrontarsi coi coetanei e tre, quattro ore al giorno di televisione con una prospettiva su un mondo ben più ampia (anche se magari distorta), c’è un grado di “verità” in quello che accade in famiglia che viene percepito come superiore.
Ed è quello che è successo a me da piccolo col riposino pomeridiano. A casa mia, per qualche ragione, tutti hanno sempre fatto la siesta. Ero circondato da parenti le cui attività lavorative non richiedevano strettamente le prime ore del pomeriggio (insegnanti, negozianti, pensionati, casalinghe…), quindi i miei genitori, i miei nonni, le numerose zie avevano l’abitudine di fare il pisolino dopo pranzo. Ma non un riposino da dilettanti, sulla poltrona o sul divano: proprio a letto, sotto le coperte, con la luce spenta e la sveglia puntata, di solito tra le 15 e le 15.30. Roba da professionisti.
–E’ importante andare a riposare dopo pranzo, diceva zia Adelina
–Ma riposarsi di cosa? E’ pomeriggio, finalmente la scuola è finita, si possono fare tante cose! Si può giocare, leggere fumetti, guardare i cartoni animati, scorrazzare in giro, al limite anche fare i compiti così dopo ho più tempo per giocare! Perché perdere tempo a letto?
–E’ importante andare a riposare dopo pranzo.
E’ possibile che si trattasse di residui di una certa saggezza contadina, per cui nei periodi di maggior lavoro ci si alzava prestissimo, si lavorava sodo la mattina e poi si evitavano le ore più calde della giornata riposandosi al fresco. Però risulta un’abitudine un po’ meno comprensibile per una professoressa di italiano e latino o per un’anziana la cui attività primaria consisteva nel far mangiare i nipoti tutto quello che avevano nel piatto.
Il silenzio in casa doveva essere rigoroso: niente palloni in giardino o altri giochi rumorosi, televisione bassissima, parlare sottovoce e addirittura (in modo un po’ incosciente, ripensandoci a posteriori) telefono staccato. Per fortuna il riposino coatto di solito mi veniva risparmiato, a patto di non far rumore, quindi lettura e giochi solitari silenziosi erano le mie attività prevalenti del primo pomeriggio. Solo quelle disgraziate delle suore dell’asilo ci costringevano, per un’oretta o due dopo il pranzo, a stare chini sui banchi verdi per “riposarci”. E chi può mai dormire in posizioni del genere? In realtà probabilmente volevano riposarsi loro, ma chissà quelle pinguine quante schiene storte hanno sulla coscienza!
C’è stato solo un periodo, quando avevo circa 17-18 anni, che anch’io mi sono piegato ad una versione dilettante del pisolino. Accadde in quel periodo che, come accade spesso agli adolescenti, volevo sentirmi più grande. Invece di mettermi a fumare o a picchiarmi negli stadi, mi ero così imposto di andare dormire tardi la sera, diciamo non prima di mezzanotte. Il mio fisico però un po’ di ribellava, quindi di pomeriggio presto, al ritorno da scuola, era inevitabile una mezzoretta di occhi socchiusi sul divano mentre in tv trasmettevano Lupin. Però mi sono sempre sentito in colpa.
Ora, da adulto (anagraficamente parlando, almeno), faccio un lavoro in cui quelle ore della giornata devono essere produttive. Tutte le mie conoscenze sono nella stessa condizione, tanto che i pisolini mi paiono un lusso di un’infanzia in provincia così lontana da essere a malapena ricostruibile nei ricordi. Eppure, quando a pranzo mi capita di concedermi qualcosa di più pesante e/o la sera prima ho fatto bisboccia, verso le 14 gli occhi mi si chiudono senza pietà, e allora invidio un po’ quelle abitudini che non ho mai conosciuto e che probabilmente non mi godrò mai.
Non stupirò nessuno facendo notare come la quasi totalità degli articoli marcati “Aneddoti inconcludenti” si svolga durante la mia infanzia, o al massimo nella mia preadolescenza. Per capirci: Luca all’asilo, Luca alle elementari, Luca alle medie, Luca a Sassello. Ma l’Attento Lettore (la versione pinguinesca dello Stupido Utente Medio, che purtroppo qua non bazzica) si chiederà:
“Ok, tutto molto bello, ma dopo i tredici anni non hai combinato nulla? Non hai gustosi aneddoti da raccontare sul liceo? Avrai sicuramente saltato scuola per andare in spiaggia! E le bravate in gita? Gli scherzi ai professori? E poi, gli anni dell’università! Ah, gli universitari fuori sede ne combinano di cotte e di crude! Feste Erasmus! Birra a fiumi, sesso, droga e rock’n’roll! Poi avrai messo la testa a posto, d’accordo, ma nel mondo del lavoro se ne vedono tante. Io leggo Dilbert, lo so bene: colleghi sfaticati e colleghi sgobboni! Capi malvagi e terribili ingiustizie! Colleghe zoccole, colleghe brutte come la morte e colleghe zoccole e brutte come la morte! E poi, a proposito, vediamo di parlare anche un po’ di patata!”
Sì, sì, qualcosa sì e qualcosa di meno, ma nel complesso un po’ di tutto questo, bravo Attento Lettore, tu la sai lunga. Suppongo in effetti che qualche aneddoto inconcludente degno di essere raccontato ci sia anche nei diciotto anni successivi al conseguimento della licenza media. Ma sono eventi dai colori brillanti, privi di quella patina di ingiallimento e di relativa nostalgia agrodolce che me li rende più gustosi da raccontare. E’ sostanzialmente roba un po’ contro lo spirito con cui racconto i miei aneddoti: non ho ancora (e non so se mai l’avrò) rimpianto per gli anni del liceo e dell’università, e poi è roba troppo, troppo fresca.
Detto questo, mi contraddico:
Albenga, ottobre 1988
Luca è in prima liceo (ok, non andiamo molto più in là, però siamo già alle Scuole Superiori!). E’ il giorno delle elezioni scolastiche, e per la prima volta nella sua vita egli eserciterà diritto di voto. Il nostro eroe indossa una felpa gialla e blu, e fiero pone il suo voto, esprimendo la preferenza per Massimiliano Guido (ops, ho commesso un reato violando un segreto elettorale?). Giunto a casa, egli si rende conto di avere la citata felpa gialla e blu messa al contrario, davantididietro. Si sente umiliato al pensiero di cosa avranno detto di lui le neo-compagne di classe, ma probabilmente non se n’è mai accorto nessuno o nessuna. Non lo sfiora invece l’idea di rapportare simbolicamente le elezioni con l’avvenimento.
(appendice di “Razzismo“)
Diàmine, quanto poco ho viaggiato! Riesco a riassumere tutte le nazioni in cui son stato in un solo post, pure corto.
Sono stato in Inghilterra, due volte, entrambe coi viaggi studio: a Nottingham e poi nei dintorni di Londra. Non ho un bellissimo ricordo di quest’ultima città, anche se l’ho gitata parecchio, probabilmente perché ero troppo giovane per apprezzare musei e architetture. Però ho potuto comprare le cassette degli Iron Maiden in versione originale. La cosa che più mi è rimasta impressa dell’Inghilterra è quanto cazzo si mangiasse male.
Sono stato in Irlanda, sempre con un viaggio studio, quando avevo 17 anni. Mi son divertito molto di più che in Inghilterra perché avevo una compagnia migliore e perché in effetti l’Irlanda è proprio bella, ma la mia permanenza è stata adombrata dal fatto che ai minorenni non davano la birra.
Sono stato parecchie volte in Francia, con sorti alterne di sollazzo. Ma del mio contorto rapporto con la Francia parlerò un’altra volta.
Sono stato due volte in Spagna, una volta facendo il turista balneare (ero appena laureato e non credo di essere mai stato così tanto rilassato in vita mia) e una volta girando diverse città in una specie di gita scolastica per professori (è una storia lunga e non la narrerò a meno di richieste esplicite in questo senso). In entrambi i casi mi son goduto il viaggio, anche se in termini completamente differenti. Barcellona però, ad istinto, mi è risultato antipatica.
Sono stato in Turchia nel lontano 1986, e gli adulti dicevano che era come l’Italia negli anni ’50. Io negli anni ’50 ero nella mia reincarnazione precedente ed ero un calzolaio di Berlino Est. Lavoro di merda, e per di più il visto per la Turchia non me lo davano. Comunque, non mi è rimasta un’impressione forte della Turchia, e sicuramente vent’anni dopo è tutto cambiato.
Sono stato negli Stati Uniti una volta sola, nell’autunno 2003. E’ impossibile non rimanere affascinati dall’America in quanto tale e poi c’è poco da fare, New York è veramente la capitale del mondo.
Sono stato in Svizzera più volte, tra Zurigo, Ginevra e Sankt Moritz. La Svizzera mi diverte, come ho già scritto, e ne provo un’attrazione un po’ morbosa, ma non credo di capirla a fondo. Ciononostante, torno sempre volentieri in Elvezia (approfitto per salutare l’Università di Zurigo che pare ami molto questo sito).
Sono stato tre volte in Grecia, sempre in vacanza in estate, sempre ad Agosto, in tre isole differenti, e una volta ho pure fatto un giretto nell’orrenda Atene. La mia visione di questa nazione è stata perciò troppo parziale e distorta per essere sensata. Ma i greci mi son simpatici, e un mare bello come quello di Paros non l’ho mai trovato altrove.
Progetti per il futuro: Germania, Svezia, Giappone, un’isola tropicale. E Kamchatka, suvvia, giusto per proseguire con la mia lista. A proposito, tripode. Flogisto. Paradigmatico.
Tanto tempo fa (i soliti anni ’80), in una galassia lontana lontana (il solito Sassello, frazione Piano), un gruppo di ragazzetti ebbe una scimmia durata diversi anni per il giuoco delle biglie. Ma non, si badi, le piste di biglie nella sabbia, quelle che piacevano tanto a Giulio il torinese, ma bensì le più inusuali e vetuste biglie di vetro.
Le preziose palline di vetro non venivano vendute dall’unico tabaccaio/giocattolaio del paese, quindi dovevano essere portate dai genitori che venivano da fuori o cercate nel mercato settimanale. Incredibilmente, ad un certo punto il tabaccaio si è messo a venderle, probabilmente afferrando che erano piovute un mucchio di richieste per un articolo che non avevano. I bambini del Piano hanno smosso la stagnante economia sassellese (soprattutto io e Daniele, che, come vedremo, perdevamo sempre).
Ora le nuove generazioni giuocano ai videogiuochi e l’arte delle biglie è perduta, e quindi riassumerò qui le regole del giuoco delle biglie di vetro ad uso dei giovani d’oggi [1].
Regolamento del giuoco delle biglie, versione Buca [2]
Fase 0: Campo di giuoco e attrezzature
Il campo di gioco può essere un qualunque spiazzo, con l’unico vincolo che deve essere abbastanza ampio (diciamo almeno 10 mq) e con la possibilità di scavare una piccola buca, del diametro di circa cinque-dieci centimetri e profonda sui cinque, o di meno se i giuocatori non hanno voglia di scavare: tale oggetto viene chiamato la Buca. In mancanza di un terreno scavabile (condizione abbastanza frequente nelle partite indoor, a meno di non demolire i pavimenti), la Buca può essere sostituita da una biglia più grossa delle altre e comunque facilmente distinguibile, detta Biglione. Devono essere inoltre indicati almeno approssimativamente i confini del campo di giuoco: "il campo è questo spiazzo" "Ma dove finisce?" "Boh, da quelle parti". Un terreno accidentato tende a rendere il giuoco più imprevedibile e divertente, ma uno più regolare favorisce le reali abilità dei giuocatori. Se siete scarsi, giocate in mezzo ai sassi.
Ogni giuocatore dev’essere fornito di una biglia di vetro che viene messa in palio. Eh, sì, le biglie sono un giuoco d’azzardo. Non giuocateci nei bar, altrimenti ritirano la licenza.
Fase 1: Lanci iniziali
Ogni giuocatore si pone ad una distanza dalla Buca concordata ma non prefissata, di solito un paio di metri, e lancia la propria biglia in direzione della Buca. Dato che la regola prevede di tenere i piedi fissi a quella distanza, non è raro vedere giuocatori astuti che fanno acrobazie per avvicinarsi il più possibile senza staccare i piedi.
Se due biglie si toccano in questa fase, si proclama Cicchetto (sic) e la partita va a monte. [3] L’ordine di giuoco è stabilito dalla vicinanza dalla Buca, dal più vicino al più lontano. Una biglia che entri direttamente in Buca salta la fase 2 ed entra immediatamente in stato Superbiglia (vedi sotto). Due biglie che entrano in buca risultano in un Cicchetto.
Fase 2: andare in Buca [4]
Nell’ordine appena stabilito, ogni giuocatore cerca di spingere la propria biglie, colpendola con le unghie, verso la Buca. E’ concesso, ogni volta che si colpisce la biglia, avvicinarsi di un palmo nella direzione desiderata. Tale operazione, chiamata sorprendentemente Fare Palmo, ha origine un po’ oscura: siccome avvantaggia chi ha le mani più ampie, si suppone che serva a favorire i più grandi. Questi sono evidentemente un po’ rincoglioniti se giocano ancora a biglie, quindi il regolamento ha pietà di loro e li aiuta.
I giuocatori, quindi, cercano di mandare le proprie biglie in Buca e farcele rimanere (se la biglia esce, è come se non fosse entrata. Qui entra in giuoco la voglia di scavare la buca profonda in fase di preparazione del giuoco). Prima che ciò accada la biglia è detta Infrabiglia, mentre dopo essa cambia di stato e diventa Superbiglia; subito dopo il giuocatore trionfante ha diritto ad un nuovo turno a partire dalla Buca.
Due Infrabiglie che si toccano danno origine ad un Cicchetto e la partita va a monte. È considerata quindi una tattica accettabile, seppure un po’ vigliacca e fetente, fare un Cicchetto volontario quando un giuocatore va in Buca troppo presto e diventa pericoloso per la collettività.
Fase 3: Superbiglie
Una volta che una biglia è entrata in Buca e ha ottenuto l’ambito status di Superbiglia, l’obiettivo del giuoco cambia: al suo turno egli continuerà a Fare Palmo, ma i suoi tiri avranno come obiettivo le biglie avversarie. Una biglia colpita (è indifferente se Superbiglia o Infrabiglia) viene eliminata dal giuoco e va a finire nella saccoccia del vincitore. Quest’ultimo dovrà gongolare e irridere spietatamente il perdente [5].
Mirando ad un avversario, è possibile (ma non obbligatorio) compiere le operazioni di Muro o Spostamento, mutuamente esclusive.
Spostamento significa che, se la biglia avversaria è stata mancata, è possibile traslare la propria in qualunque parte del terreno di giuoco. Ovviamente la si posizionerà in zone tatticamente valide, di solito lontano da altre Superbiglie o vicino a qualche Infrabiglia.
Muro significa incaricare un altro giuocatore di mettere i propri piedi ad angolo intorno alla biglia che si desidera colpire. Se la propria biglia colpisce quella avversaria dopo aver rimbalzato sui piedi avversari, il tiro è valido. È evidente che si tratta di una tattica particolarmente efficace nel caso di Superbiglia vs. Infrabiglia, mentre è assai rischioso nel caso che l’avversario abba a sua volta una Superbiglia. Infatti, non essendo ammesso spostamento, in caso il tiro non vada a buon fine la biglia predatrice sarebbe un obiettivo molto facile per la ex-preda. Ognuno scelga la sua metafora preferita a proposito. La scelta del Muro, nelle fase avanzate della partita, è assai delicata. E’ anche importante valutare l’angolo di chiusura dei piedi ("più chiuso…un po’ più aperto…" "che palle, tira!") e scegliere, come autore del Muro, qualcuno che abbia i piedi lunghi e le scarpe adatte, il più possibile regolari e con buon rimbalzo. Sono ottimi gli zoccoli di legno, a questo proposito.
Fase 4: Conclusione del giuoco
Il giuoco si conclude quando tutte le biglie tranne una sono state eliminate. Capita inoltre il caso in cui rimangono in giuoco solo due Superbiglie, e che quei due giuocatori continuino con gli Spostamenti da lati opposti del campo senza mai concludere. In tal caso, è ammesso l’accordo di pareggio tra i due incapaci pusillanimi rimasti.
Come accennato, le biglie conquistate durante il giuoco diventano effettiva proprietà del vincitore. E’ ammesso tuttavia scambiare la biglia persa con un’altra di uguale valore (a giudizio collettivo). Si usa fare questo per le cosiddette biglie fortunelle. [6]
Il giuoco a questo punto può riniziare. E rinizierà, credetemi, fino a che il sole calerà e sarà pronta la cena. Allora i perdenti (Luca e Daniele) esamineranno con sconforto il proprio sacchetto delle biglie quasi vuoto e mediteranno di fare un salto dal tabacchino il giorno dopo a comprarne di nuove. I vincitori (Simone e Marco) si chiederanno che fare di tutte quelle palline di vetro, sempre di più. Probabilmente se lo chiedono ancora.
[1] In realtà anche ai miei tempi si giuocava ai videogiuochi, seppure coi vari Commodore, e nessuno a parte noi si dedicava alle biglie. Ero matusa anche a dieci anni.
[2] Esiste anche una versione "col cerchio" della quale ignoro il regolamento. Ma siccome io non ci giuocavo, la ignoro.
[3] Adesso se devo farmi un cicchetto vado al bar, ma ai tempi ci si accontentava delle biglie.
[4] Il che, poi, è quello che avrebbe impegnato i giovani virgulti negli anni successivi.
[5] Non è facoltativo, è parte del regolamento.
[6] Ma sei hai perso, che cazzo di fortunella è?
Alassio, primavera 1986
Il giovane Luca è in prima media. Un giorno, come fonte di sollazzo, decide di portare a scuola una palla da tennis di gommapiuma, così da poter giuocare nell’intervallo coi suoi due compagni di classe maschi. La cosa non stupisca: la I A è costituita da 15 femminucce e 3 maschietti: la cosa non è particolarmente gradita a Luca, giacché egli è ancora nell’età in cui si preferisce la compagnia del proprio sesso. E dirò pure che, a posteriori, la qualità della materia prima femminile era comunque in generale piuttosto scadente sotto ogni punto di vista.
Ma torniamo al protagonista della storia. Dopo un paio di lanci in corridoio con Andrea e Simone, intervengono Quelli di Terza. Si tratta di una masnada di omaccioni enormi, tutti coi baffi. Essi sono Veramente Grandi: basti pensare che vanno a fumare in bagno! Comunque, come numero e prestanza fisica sono superiori ai primini, e conquistano la palla. Luca fa spallucce e pensa "Beh, tenetevela, se proprio volete" e se ne torna in classe.
L’intervallo volge al termine, quand’ecco che compare nell’aula della I A la minacciosissima figura della Preside, incazzata come un’ape, che tiene in mano la pallina di cui sopra.
– Chi ha portato questa?, sbraita l’autorevole dirigente scolastico.
Silenzio. Luca, che è sempre stato una persona responsabile, si fa avanti e sottovoce reclama la sua proprietà.
– Lo sai che questa pallina ha provocato una rissa lì fuori?
Infatti Quelli di Terza, invece di utilizzare la pallina per lanciarsela o altri sollazzi, hanno ben pensato di menarsi per il possesso dei un pezzo sferico di spugna sintetica. Sì, l’imbecilità umana non ha limiti.
– Ma io…veramente…non partecipavo alla rissa, prova il colpevole ragazzetto a difendersi.
– Ah, capisco. Tu ti limiti a procurare il movente, dice sarcastica quella gran zoccola.
Si volta e se ne va, lasciando il sensibile ometto umiliato e terrorizzato. Mi auguro che la Preside abbia fatto un culo ben maggiore a Quelli di Terza, ma ho il forte sospetto che il padrone della pallina abbia fatto da capro espiatorio.
Vittima di questa terribile ingiustizia, è vent’anni che attendo che il karma faccia il suo corso e di ottenere quindi qualcosa in cambio. Per ora, niente.
(un post pieno di acredine)
Massimiliano il Bergamasco veniva da Bergamo, ed è stato un mio pseudo-amico di tanti anni fa che ha lasciato il segno. Da allora, infatti, quando sento "bergamasco" penso subito a "imbecille spudorato approfittatore". Non son mai stato a Bergamo (e d’ora in avanti credo sia meglio che me ne tenga alla larga!) ma ho conosciuto diverse brave persone da lì provenienti. Tuttavia, questo non ha mitigato un granché il mio pregiudizio e sogghigno sempre quando sento parlare della lombarda città. Ma veniamo a Massimiliano.
La mia casa di Alassio è una villetta situata in collina, quindi non ho mai avuto veri e propri "vicini". Tuttavia, esistono alcune persone la cui casa è sufficientemente prossima alla mia perché sia raggiungibile a piedi. Tra di esse, spiccava Massimiliano il Bergamasco: era un bimbo mio coetaneo la cui famiglia aveva una casa delle vacanze in zona, e lo frequentavo all’età di sette-otto anni.
A volte andavo da Massimiliano il Bergamasco. In tal caso, c’era una sola attività possibile: andare avanti e indietro con la sua motoretta. Massimiliano il Bergamasco, infatti, come tutti i migliori bimbi viziati, aveva una micromotoretta con motore a scoppio, e, caricatomi dietro di lui, scorrazzava lieto e beota tutto il giorno, salendo e scendendo da una salita lunga cinquanta metri o giù di lì all’interno del suo ampio giardino. Io mi spaccavo i marroni ma non osavo dire nulla, lui era contento e ciò mi bastava.
A volte Massimiliano il Bergamasco veniva a casa mia e giuocavamo coi miei giocattoli. "Miei" non per molto, perché quel bambino aveva l’abitudine di chiedermeli in regalo. "Che bello il tuo Baron Karza, me lo regali?" "Certo!" (a scuola dalle suore mi avevano insegnato a condividere i miei averi con gli altri, persino coi bergamaschi). Una volta, il figuro aveva preteso in dono qualcosa di più rilevante. Persino io ho avuto un dubbio e ho chiesto il permesso a mia mamma. Ella, ovviamente, non solo lo ha negato, ma si è arrabbiata alquanto e mi ha ordinato di chiedere indietro tutti i miei balocchi a Massimiliano il Bergamasco. Non ricordo con precisione come sia finita, ma mi pare di ricordare vagamente che lui avesse ribattuto "roba regalata, mai più ridata" e che mia mamma fosse andata a protestare direttamente con la sua. In fondo, si trattava di una via di mezzo tra appropriazione indebita e circonvenzione di incapace.
L’ultima volta che ho visto Massimiliano il Bergamasco avevo la rosolia. Me lo son visto spuntare e mi ha chiesto "È vero che hai la rosolia?". Ottenuta la conferma, è scappato via senza salutare, e non è più ricomparso nella mia vita. Forse teme che io sia ancora contagioso.