Durante la mia carriera scolastica non ho partecipato a molte gite, soprattutto alle elementari. Per qualche strana ragione mia sorella, solo un anno più avanti nello stesso istituto, si è sciroppata qualcosa come sei giorni a Roma e cinque giorni a Venezia, laddove io, in cinque anni di elementari, ricordo solamente tre gite: una a Torino a vedere un tristissimo zoo e il Museo Egizio, una al Lago Maggiore con annessa visita al San Carlone di Tortona (wow!) e una al Parco di Pinocchio (con deviazione per la Torre di Pisa). Sì, le altre scuole andavano a Gardaland, a noi ci portavano allo sfigatissimo Parco di Pinocchio a Collodi. Come parziale spiegazione per questa penuria, ho il vago ricordo di una sospensione delle gite scolastiche per due anni in seguito ad un grave incidente in cui erano morti parecchi bambini; in quel periodo le scuole (o almeno, la mia scuola) avevano cessato di prendersi la responsabilità di scarrozzare per il mondo i babanotti.
Non mi devo essere mai divertito particolarmente in queste gite e non ho ricordi gai da riferire (beh, giusto un paio, ma li tengo per altra occasione). Però, curiosamente, mi è rimasta impressa la figura di Giacomo l’autista. Per qualche ragione, probabilmente derivata da una contorta mentalità cattolica, la maestra voleva farci credere che l’autista (Giacomo, appunto) non ci portasse in giro per mestiere, ma lo facesse per gentilezza, per farci un favore. All’alba, quando si partiva (le nostre gite, di un giorno solo, iniziavano tipo alle 6 di mattina), venivamo ammoniti: “Ringraziate Giacomo che si è svegliato così presto per portarvi in gita!”. Dopo un viaggio relativamente silenzioso per non disturbare Giacomo che doveva guidare, una volta giunti arrivati a destinazione il senso di colpa veniva pungolato ulteriormente: “Ora, mentre noi ci divertiamo, Giacomo deve stare qua nel pullmann!” Al che io pensavo: “Ma potrebbe venire anche lui a divertirsi con noi…”, ma tacevo. Infine, tornati alla base, non mancava l’esortazione: “Salutate Giacomo, che è stato così gentile da portarci in gita tutto il giorno!”. A me la cosa convinceva poco, e quindi, inconsciamente, al ritorno dalla gita sul Lago Maggiore mi sono vendicato. Ero seduto in prima fila insieme a mia nonna (usuale accompagnatrice in gita) e avevo sete. Volli a tutti i costi aprire una lattina di cocacola, che era stata sbattuta per tutto il giorno e…fizz! Tutta sulla giacca di Giacomo! Mia nonna si profuse in scuse e anch’io mi mostrai contrito…ma probabilmente, in fondo al cuore, gongolavo. Così impara, stupido Giacomo!
Nota di servizio: la settimana prossima me ne vado in vacanza a vedere i cartoni animati. Niente aggiornamenti per un po’, e quando torno arrivano i pallosissimi reportage su Annecy. Tremate!
Mi son detto: “No, dai, questo non lo posso scrivere. E’ troppo simile a qualcos’altro che ho scritto di recente”. Poi mi son risposto: “Ma vaffanchiappe, scrivo anche un po’ quel che strapicchio mi pare!” (non letteralmente). Infine ho pensato: “Uh, è quasi mezzogiorno, tra un po’ si mangia”. Ma questo non c’entra.
Beh, dicevo. In quarta elementare alle femmine della mia classe era venuta una mania: per diverso tempo, nell’ordine di settimane, forse mesi, le bambine passavano l’intervallo a cantare questa canzoncina:
Oh, Pony pony pony
Zaccaria mustafà
Mustafà-fa-fa
Baccalà-la-là
Tu mi emi emi emi
Tu ami ami ami
Tu mi vuoi vuoi vuoi
Tu mi vuo-o-i
La filastrocca era cantata e suonava così (questa non ve l’aspettavate, eh?) , ed era accompagnata da una specie di balletto da fare a coppie. Non sono in grado di ricostruirlo, ma non era nulla di complesso, era basato su battere le mani, toccarsi i talloni o gesti simili.
Io, che ero (e sono) un maschio non potevo partecipare, ma ero ipnotizzato dalla canzoncina quasi quanto le femmine che vi si dedicavano. In particolare ero affascinato dal testo, e cercavo di trarne un senso. Evidentemente un senso non l’ha, è solo una filastrocca nonsense per bambini, ancora più dadaista di Ambarabaciccicoccò o del ponte di Baracca. Un cavallo, qualcuno che ricorda un nobile mediorientale, un pesce essiccato, una dichiarazione d’amore al contrario, balbettata e dislessica.
Completerò la trattazione ricordando la parodia dei primi due versi che avevo composto: “Oh, miss Pony miss Pony miss Pony/ Suor Maria mustafà”, ovviamente ispirata da Candy Candy. Avevo anche cercato di andare oltre sfruttando “emi” del quarto verso per introdurre Magica Emi, ma non ero approdato a nulla. Che peccato.
Durante uno dei primi giorni di terza elementare, la maestra ci diede da fare alcune operazioni come compito a casa. Ancora intontito da un’estate di spasso, ne sbagliai una di troppo, e lei mi diede come voto Bene – (bene meno). Sbuffavo, anche se sicuramente Alessandro e Cristina avevano preso Male. No, la mia maestra non era una di quelle che distribuivano a piene mani Bravo e Bravissimo tanto da inflazionarli, i suoi voti erano piuttosto concreti. Il mio compagno di banco di allora, Emanuele, mi si avvicinò e sibilando come Salvatore, il serpente tentatore mi suggerì: “Se aggiungi una stanghetta verticale il voto diventa bene +“. La cosa mi ha illuminato nella sua semplicità, e allora presi la mia penna rossa dall’astuccio e, come per miracolo, il voto divenne in linea con le mie aspettative, senza lasciare alcuna traccia del misfatto.
O almeno, questo è quello che pensavo. Non ho minimamente considerato il fatto che la maestra aveva tracciato il voto con una biro rossa, mentre la mia stanghetta era stata fatta con un pennarello rosso: balzava quindi agli occhi di chiunque fosse vagamente un po’ meno ingenuo di me. Infatti appena a casa la mamma ha guardato il quaderno e mi ha sgamato subito. Alla sue richieste di spiegazioni mi son difeso con la verità: “Me l’ha detto Emanuele”. Lei, probabilmente sconfortata dalla mia imbecillità è ricorsa al classico argomento: “Se Emanuele ti dice di buttarti giù da un ponte tu lo fai?”. No, che c’entra, mica mi conviene buttarmi da un ponte, mentre invece trasformare un meno in un più è cosa desiderabile.
Comunque, quel giorno mi resi conto che un’altra carriera mi si chiudeva: non sarei mai stato un falsario. In effetti non lo sono.
Continua la serie di articoli del buon Kotekino, questa volta alle prese con la yakuza. “Pinguini nel salotto”, meglio di un film di Kitano!
Il marito della migliore amica di mia moglie è un bonzo buddista: l’anno scorso in occasione della mia prima visita nel paese del Sol Levante ebbi la fortuna di conoscere questo simpaticissimo elemento che mi raccontò che lui è sacerdote appartenente ad una scuola buddista che non impone voti di castità ne particolari morificazioni corporali, per cui, esplicitato il nostro comune amore per la carne di manzo, abbiamo convenuto che si doveva prima o poi andare a cena. Martedì scorso, memore della promessa, ci ha telefonato invitandoci a cena in un “posticino che conosce lui”. Prima di continuare preciserò che il racconto che segue vede il manzo solo come protagonista marginale: il protagonista principale è la famosa Yakuza, ovvero la mafia giapponese.
Durante il viaggio per le tangenziali di Osaka sulla sua lussuosa automobile mi racconta che lui è nato e cresciuto nel quartiere dove hanno inventato la ricetta di carne che andremo a mangiare: quello è il quartiere più antico e ora anche più povero di Osaka, quello è il quartiere dove oggi l’unica legge vigente è quella della Yakuza. In più aggiunge, amabile, che suo padre, bonzo anch’egli, più che un sacerdote è in realtà “praticamente” uno Yakuza. E così ci fa visitare il palazzo di famiglia: ho l’onore di apprezzare la struttura di 5 piani dove vive la famiglia, con servitù, il gigantesco tempio in oro (foto a destra) dove si celebrano i riti, la sala ricevimenti e pranzi di lusso, il cimitero dove custodiscono le urne dei fedeli, la pinacoteca dove sono conservati i quadri donati dai “pezzi grossi”, la sala con i ringraziamenti agli amabili donatori di generose offerte in danaro (sempre di provenienza Yakuza).
In passato, leggendo Terzani, ho appreso che la Yakuza non è esattamente un’organizzazione criminale all’occidentale ma, diciamo, un tollerato “interlocutore” dello Stato che regola e tiene sotto controllo la criminalità (i pezzi piccoli sono effettivamente criminali, i pezzi grossi sono rispettabilissimi ed onorevoli appartenenti al “governo ombra”). Essa importa la droga, ma ne limita la diffusione e ne controlla la qualità del taglio, impedendo ad altre organizzazioni criminali di intromettersi e dilagare; controlla e regola la prostituzione, impedendo il degrado di violenza a cui può arrivare. Insomma è senz’altro criminalità ma in qualche modo è accettata (e a volte protetta) dallo Stato giapponese perchè permette di contenere e regolare la criminalità stessa. Ed effettivamente quanto avevo letto, coincide perfettamente con quanto visto ed udito in quella memorabile serata: loro, la famiglia di bonzi, sono i sacerdoti delle rispettate e potenti famiglie Yakuza, gentiluomini d’onore devoti al buddismo e dai modi raffinati.
Abbastanza shocckato ma molto incuriosito, proseguo la serata visitando a piedi i veri bassifondi di Osaka, dove case fatiscenti si alternano a ristoranti di lusso, con un occhio al portafoglio ma nient’altra preoccupazione rilevante insieme com’ero ad un “intoccabile”; segue visita al quartiere delle prostitute (decine e decine di “vetrine” dove una gentile vecchietta mostra la deliziosa fanciulla alle sue spalle elegantemente seduta in attesa del cliente e ti invita rispettosamente a scegliere la sua protetta – foto a sinistra); per concludere tour dei “quartieri generali” delle famiglie importanti (qui, su suo consiglio, non ho scattato foto). Infine la cena nel più valido, a suo dire, ristorante di lusso tra quelli incontrati poco prima. Il menu. Tutti i tagli migliori dell’ormai celebre, su queste pagine, manzo di Kobe in varie declinazioni: fegato crudo in salsa di limone (surreale); fettine sottilissime mangiate come sashimi (con le salse appropriate per lo più a base di sesamo); pezzi spessi da fare sulla piastra presente al centro del nostro tavolo e opportunamente conditi con un sugo di cui ignoro la totalità degli ingredienti; tritato di filetto disteso su un intruglio fatto con la rapa giapponese (non induca in errore il termine “rapa”: è buono); birra e sake a fiumi e un conto che non mi sono neanche azzardato a far finta di voler pagare al posto del gentilissimo bonzo, perchè tanto non avrei potuto farcela neanche liquidando ogni mio avere. E’ stata una cena veramente memorabile: tutto delizioso e un po’ esotico, euforia data dall’alcool (che il nostro bonzo non ha consumato, accontentandosi di una quarantina di sigarette distribuite tra un piatto e l’altro: nulla di religioso, le multe per chi guida sotto l’effetto di alcool sono molto pesanti in giappone), una lieve ma costante sensazione di vivere all’interno di un film appassionante. Aggiungendo la ciliegina sulla torta rappresentata dalla moglie del bonzo, che è una ragazza di una bellezza abbagliante, avrete un quadro preciso della mia depressione attuale: quando mi ricapiterà una serata così ?
La maggior parte dei lettori ha già letto il seguente articolo, non scritto da me ma dal fedele commentatore (nonché amico di vecchia data) Kotekino. Io e il logorroico figuro abbiam deciso di dare maggiore visibilità ai commenti dedicati alle sue visite in Giappone (la leggendaria Terra dei Musi Gialli, lo Shangri-La degli otaku), e quindi nei prossimi tempi assisterete ad una breve serie di articoli di suo pugno. La parola a Kotekino…
Essendo io un feroce carnivoro e avendone sentito parlare, ho chiesto informazioni a mio suocera Takako sulla Mucca di Kobe (Kobe-Ghiu): il simpatico bovino viene nutrito a birra quotidianamente per diversi anni e costantemente e continuamente massaggiato da masso-fisioterapeuti specializzati. Sbalordito (e un po invidioso della mucca stessa) ho voluto assolutamente comprarne una bisteccona nonostante i prezzi proibitivi me lo sconsigliassero vivamente; entrato nel negozio apposito e scelto un taglio relativamente costoso (ma in saldo) sono passato all`osservazione del pezzo; dal punto di vista estetico una bistecca di tal fatta si presenta come una bistecca particolarmente rosa, guardando meglio se ne capisce il perché: tutto il grasso è perfettamente ed equamente distribuito in microquantità all’interno del taglio scelto e non attorno al muscolo come normalmente capita, ciò oltre al colorito roseo conferisce alla bistecca la consistenza più morbida di quanto potessi sperare nel sogni più spinti; ecco svelato il mistero dei continui massaggi. Consegnata alla padella in compagnia di sale grosso e un pizzico di pepe essa ne e` uscita grigliata a meraviglia, non restava che assaggiarla: e qui ho capito finalmente anche il segreto della birra. Un gusto che definire celestiale (per chi ama la carne come il sottoscritto) è assai riduttivo. Veramente impressionante, se non fosse per il costo (i tagli più pregiati degli allevamenti più rinomati arrivano a 500 euro al kg) avrei trovato il monoalimento di cui fare uso per i prossimi 90 anni…
(Foto: a sinistra le bistecche in esposizione, a destra la bistecca che ha in seguito fatto un giro nel corpo di Kotekino)
Credo che la mia prima uscita fuori dall’Italia sia avvenuta alla fine degli anni ’70, ed abbia avuto come modesta meta la Costa Azzurra, con particolare riferimento all’Acquario di Monaco. Non ho un ricordo vivido di quest’ultimo, se non per lo scheletro di balena che campeggia in una sala. Più avanti, quando diventai un fan dei dinosauri, mi autoconvinsi di aver visto un fossile di plesiosauro, ed ero esaltatissimo all’idea di aver visto un dinosauro vero. In realtà dovettero passare oltre vent’anni prima che potessi ammirare un fossile di dinosauro vero e proprio, e ho dovuto trascinare le mie pesanti chiappe fino a New York per lo scopo.
Ma torniamo in Francia (o nel Principato di Monaco, vabbè, non formalizziamoci). Non ebbi lo shock culturale che ci si può aspettare dal trovarsi per la prima volta in un posto dove tutti parlano una lingua diversa. Fu una concomitanza di più fattori a mitigare il trauma: innanzitutto la consapevolezza che avevo dell’esistenza di lingue straniere (cosa lungi dall’essere automatica), poi la presenza costante e protettiva dei miei che facevano da filtro e scudo verso i malvagi autoctoni, il paesaggio sostanzialmente identico a quello a me familiare della Riviera Ligure di Ponente, e, ultimo ma non meno importante, persino il cibo. Infatti dopo la visita ci recammo a pranzare in un ristorante, e probabilmente mangiai qualcosa di non troppo estraneo ai miei gusti: in fondo, la cucina ligure e quella nizzarda hanno poche differenze.
L’innocenza fu perduta quando, dopo mangiato, uscii nel giardino del ristorante mentre i grandi si attardavano a tavola. Antistante al locale un piccolo parco giochi era a disposizione dei giovani clienti, e io mi trastullai allegramente. All’improvviso, il dramma. Si avvicinò un bimbo francese che attaccò a parlarmi, ovviamente in francese. Dopo un monologo accorato, si rivolse a me e mi chiese qualcosa, rimanendo in attesa di una risposta. Io, un po’ in panico, capii che mi stava parlando in francese, e decisi di rispondere con l’unica parola in quella lingua che conoscevo: Bonjour. Lui mi guardò come si guarda un imbecille e se ne andò.
Mi rimarrà per sempre la curiosità di sapere che cacchio aveva detto quel piccolo mangiarane.