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Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Astuzia mica male

In quarta elementare la maestra ci portò a fare una “scampagnata” a Madonna della Guardia, una chiesa con un bel parco in cima alle colline dietro Alassio. Giunti là sopra, per giuoco la classe si divise in due organizzando una sorta di guerriglia nel sottobosco. Il gruppo a cui appartenevo decise di darsi una parola d’ordine, probabilmente solo per fare figo o perché nei film fanno così. Io, dall’alto della mia intelligenza, proposi come parola d’ordine “non c’è”, dimodoché che se qualcuno fosse stato catturato e gli fosse stata chiesta la password, egli avrebbe potuto non mentire e i nemici avrebbero creduto che non c’era alcuna parola d’ordine.
Detta a oltre vent’anni di distanza la cosa appare deliziosamente surreale: perché usare una parola d’ordine? Perché i nemici avrebbero dovuto credere che ce n’era una? E perché la necessità di dire la verità se catturati? Ancora, se si fosse stati sotto tortura, che vantaggio a far credere ai nemici che non c’è alcuna parola d’ordine, visto che non ci avrebbero mai creduto?
I miei compagni non colsero però la finezza di questa sorta di auto-riferimento, che ricalca forse un po’ il Nessuno dell’Odissea e in qualche modo si avvicina ad essere Godeliano, e decisero per una parola d’ordine più semplice.
La mia permalosa memoria non ricorda quale fosse.

Ptuh!

1981 circa, dialogo tra un fratello minore e una sorella maggiore di un anno.
Luca: – Ptuh! (sputa per terra)
Chiara: – Non si sputa!
Luca: – Ma lo fanno anche Simone e la Piera.
Simone G. era uno degli amici estivi in campagna a Sassello, la Piera (rigorosamente con l’articolo) era la corpulenta donna delle pulizie che lavorava a casa mia.
Chiara: – (immediatamente) Simone sputa perché è maleducato…(esita non poco) …e la Piera sputa perché è grande.
L’argomentazione mi parve piuttosto debole, ma da bimbo rispettoso delle gerarchie che ero, non sputai più.
Mia sorella, a quei tempi, era stata influenzata più di me dalla scuola cattolica e dalle vecchie zie, e riteneva sinceramente che l’educazione e l’abnegazione fossero principi fondamentali. Infatti:
Inverno 1983, una sera di tempesta.
Luca: – Che bello poter stare a casa al calduccio quando piove e fa freddo!
Chiara: – (incupendosi) Ci sono dei bambini che non hanno una casa, pensa a loro!
Quasi altomedievale.
Completerò questa breve trattazione rassicurando i miei lettori informando loro che col tempo mia sorella è rinsanvita e, pur essendo una persona molto più seria di me, si è liberata dell’influsso di suore e zie.

The asskicker

Sassello, fine anni ’80
Nonna Amelia parla con un’ignota interlocutrice.
– È arrivata quella giostra, come si chiama, il vaffanculo.

C’era una volta un giostraio di Albenga che, ad agosto, quando la Riviera di Ponente si riempiva di turisti danarosi, decideva astutamente di abbandonare quei lidi affollati per "fare la stagione" a Sassello. Saliva sul suo enorme camper, si faceva mezz’oretta di autostrada fino ad Albisola, poi inforcava la statale verso il Piemonte e, giunto nella patria degli amaretti, lì si installava con la sua giostra luccicante coi seggiolini, il cosiddetto Calcinculo, corredato della versione più piccola per bimbi, il punchingball ("Ehi bimbo, torna dalla mamma!") e ammenicoli minori.
Cambio di scena. Luca è un fresco teen-ager. Va alle medie, al massimo al biennio del liceo. È un’età sgradevole, sia per chi la vive che per chi ha a che fare con quelle personcine piene di ormoni. I ragazzi hanno i baffetti e passano ore chiusi in bagno, le ragazze leggono Cioé e si credono già grandi. Difficile capire chi sia peggio, e tutto sommato, io non costituivo un’eccezione.
La mia infanzia in campagna era fatta di scorribande con gli amici, interminabili partite a pallone, passeggiate nei boschi, l’occasionale passatempo inconcludente: quand’ecco che all’improvviso si profila un’attività che appare più interessante; non esiste altro modo di passare una serata differente dallo stare intorno alla giostra che gira, facendovi un giro o due per serata, raramente prendendo il "fiocco" e ascoltando sempre le stesse hit del tempo. Non so quante volte ho sentito Zucchero e il suo mare impetuoso, Vasco Rossi e le sue antipatie per il lunedì, Samantha Fox che implorava di essere toccata e Michael Jackson che dichiarava di essere cattivo.
Certo, per chi ha qualche anno in più e frequenta le città con tutto ciò che esse offrono, può apparire ridicolo che un’attività così ripetitiva e inutile fosse così dominante, e ancora più ironico che la vita di un gruppo di adolescenti girasse intorno ad un oggetto che si chiama CALCINCULO, ma ricordiamoci di inquadrare la cosa nel contesto: un paese di campagna senza nessuna possibilità di aggregazione al di là di qualche bar, un’età in cui si tende a fare gruppo intorno a qualunque cosa (meglio una giostra di un muretto, quindi). E, non nascondiamolo, una certa tendenza a sopravvalutare le proprie esperienze. Qualche sciocco ha detto che il bello dell’adolescenza è che la maggior parte delle cose che si fa la si fa per la prima volta. Ad esempio, passare due mesi intorno ad un calcinculo! [1]
Non sono più stato su un calcinculo da quegli anni. Le mie chiappe ne sono grate.

[1] No, non amo l’adolescenza. Trovo sia un periodo della vita davvero sopravvalutato.

Bagni “Da Licurgo”

Ai miei tempi andare al mare per tre mesi era considerata una cosa assolutamente normale. Uno dei privilegi di vivere in una località balneare come Alassio era che i bambini si facevano praticamente tutta la stagione estiva al mare; d’altronde, molti di essi non andavano da nessun’altra parte perché i genitori in estate lavoravano, e più avanti molti dei ragazzi stessi "facevano la stagione" lavorando sodo.
La stagione balneare iniziava a giugno, ancora prima che terminasse la scuola. I bambini più sfortunati avevano la mamma attaccata al vecchio detto per il quale "non si fa il bagno prima di San Giovanni", e quindi fino al 24 giugno dovevano stare sulla riva a schiattare di caldo guardando gli amici sguazzare felici. Aggiungerò con un tocco di malizia che ancora a diciott’anni un mio compagno di classe del liceo era costretto ad osservare quest’assurda regola.
Eppure, rispetto alle spiagge di oggi, l’approccio verso il bagnante da parte dei tenutari degli stabilimenti era assai differente. Forse la mia spiaggia, i bagni Europa Concordia Beach (sic. Si trattava dei bagni privati dell’albergo omonimo di Alassio, con appendice pubblica), era particolarmente arcigna, ma andando nelle spiagge organizzate di oggi io rimango basito dalla differenza. Innanzitutto il bagnino D. aveva una certa passione per i bicchierini di bianco, e quindi quando c’era necessità di lui si sapeva che probabilmente bisognava andarlo a scovare al bar. Penso proprio che Sant’Antonio abbia posato la sua mano benedicente sulla spalla di quell’uomo per decenni, dato che D. ha avuto la fortuna che non sia mai successo nulla quando lui non c’era o non era in condizioni di intervenire. Pensando ai baywatch di oggi che sono obbligati a scrutare il mare dal seggiolone innalzato per dodici ore al giorni mi viene da ridere. Le cabine (rigorosamente condivise) sono state le stesse per vent’anni, raramente riverniciate e sempre con le serrature un po’ difettose. Cambiandosi il costume bisognava sempre stare attenti all’ingresso precipitoso di qualche coinquilino distratto. Le sdraio erano del vecchio modello: di legno, si sprofondava in un tessuto rigorosamente sintetico facendosi anche un po’ male alle giunture. Quando le spiagge vicine hanno iniziato a dotarsi di lettini il nostro bagnino ha resistito eroicamente, e credo che tuttora sia sprovvisto di attrezzatura più comoda per prendere il sole. Le docce erano rigorosamente di acqua gelida, mica come i giovani d’oggi che hanno l’acqua calda al mare. In realtà mi chiedo tuttora come fosse possibile che ad agosto l’acqua corrente fosse di una temperatura così rigida. Suppongo che venisse da un freezer e fosse un trucco per risparmiare acqua, giacché questa era l’ossessione di Marta.
Marta era la madre del bagnino, una vecchietta arcigna il cui compito era stare intorno alle docce per fare sì che non si verificassero sprechi di acqua. Una zia Adelina idrologica, insomma. Ricordo la sua espressione di stupito terrore quella volta che ho provato a portare dei palloncini d’acqua in spiaggia: "Perché vuoi farmi questo?" mi dicevano i suoi occhi vacui. E, soprattutto, la vegliarda verificava che ci si lavasse i piedi una volta sola. Ad Alassio c’è la sabbia molto fine, quindi prima di andarsene dalla spiaggia è obbligatorio sciacquarsi i piedi con l’acqua corrente. Se però per caso capitava di risporcarseli, per distrazione o per andare a prendere un oggetto dimenticato in riva al mare, lei interveniva pronta dicendo "Te li sei già lavati, ora basta", poco importa che fossero sporchi.

Adesso io detesto andare in spiagge organizzate perché ritengo che il mare sia un bene da dover fruire senza pagare. Questa mia convinzione mi porta a grossi problemi ad Alassio poiché le spiagge libere sono dei fazzoletti affollatissimi relegati nelle zone meno pregiate. Ho il sospetto che le cose nelle spiagge organizzate siano leggermente cambiate a causa della concorrenza economica della Grecia, della Spagna e di Sharm El-Sheik. Tuttavia, sono abbastanza convinto che un esercito di novelle Marte spii ancora con apprensione i turisti che fanno docce troppo lunghe, purtroppo senza osare intervenire. I bei tempi sono passati.

Pippe mentali: birre ed amici

Negli anni dal 1993 al 1998 ho fatto l’università da fuori sede, e come molti ragazzi di quell’età ho condiviso la casa con altri studenti. La facoltà che ho scelto e le mie abitudini di studio mi portavano a stare a Genova praticamente tutto l’anno, mentre i miei coinquilini rimanevano solamente per i periodi di lezione e poi occasionalmente per i giorni di esame. Ho quindi passato dei mesi interi con la casetta di Salita Inferiore della Noce tutta per me.
No, non è così bello come sembra, perché non avevo l’attitudine (nonché i mezzi economici) ad uscire molto durante la settimana, e quindi andava a finire che mi facevo delle serate lunghissime e un po’ tristi davanti alla TV piazzata sopra il frigorifero di una cucina vecchiotta di una casa da studenti. Le mie consolazioni primarie erano due: la birra economica e Friends in televisione.
A quei tempi (1996-1997) Friends era trasmesso su base quotidiana, avendo diverse stagioni arretrate da recuperare, e così intorno alle 20.30 su Raitre potevo godere un frammento di sollazzo sbevazzando Dreher o Bavaria da 66 cl. Mi piaceva far coincidere i due eventi, quindi mi ero dato la regola di aprire la birra quando iniziava Friends. Tuttavia, la tentazione del biondo spumeggiante liquido non era trascurabile, quindi mi ero dato la deroga di attaccare a sorbire la bevanda saporita alle 20.30 nel caso che il telefilm ritardasse. D’altra parte, è da ubriaconi iniziare a bere troppo presto, quindi mi ero imposto parimenti di attendere le 20.30 se la sit-com iniziava troppo presto .

Mi stupisce ancora oggi che io abbia impiegato diversi giorni per rendermi conto che in ogni caso iniziavo a bere alle 20.30.
(vero che state ridendo con me e non di me? vero?)

Scorie del passato

(un post molto anomalo. Fate finta, per una volta, che questo sia un blog normale. O quasi.)

Venerdì scorso, 11 novembre 2005, ho fatto una cosa che era tanto tempo che sognavo di fare, e forse ne sono pentito.
Partito da Genova in macchina con la mia Kakavolo dopo pranzo, inforco l’autostrada diretto verso Alassio. Arrivato ad Albisola, mi viene in mente che avevo il pomeriggio libero, ero in macchina ed ero rilassato. Che occasione migliore? Sono uscito dall’autostrada e, dopo tredici anni, sono andato a Sassello a rivedere i luoghi della mia infanzia.

Nella mia immaginazione mi ero formato due ipotesi: che tutto fosse rimasto immutabile o che tutto fosse cambiato. La realtà è quasi sempre più conciliante, e infatti il paese ha avuto un’evoluzione ma non è irriconoscibile.
La statale da Albisola a Sassello non ha risvegliato ricordi nascosti. Tuttavia, poco dopo l’ingresso nel paese, percorrendo la stradina che portava nella frazione in cui abitavo (il Piano), ho scorto il panorama del paese. Questo è stato un momento di grandissima emozione. Ho fermato la macchina e sono rimasto qualche minuto in riflessione. Poi mi son fatto coraggio e ho proseguito fino al Piano.

Ecco, qui sì che posso dire che è cambiato pochissimo. La strada è stata rifatta col porfido al posto dell’asfalto, il rubinetto della fontanella alla base della creuza di San Giovanni è differente, il parapetto in corrispondenza del Rio Sbruggia non è più verde, il cane della famiglia Zunino è un altro. Però l’assurdo motivo della pittura del muro di Giocondo è sempre quello, è solo più consunto, le porte sono sempre tutte verdi, la panchina per i vecchietti è esattamente la stessa. È tutto solo più piccolo. C’è però un luogo che devo assolutamente vedere: la mia casa. Mi inerpico su per la salita. Passando di fronte a casa di Baciccia, esattamente nel punto in cui ruppi la bottiglia, una signora mai vista spunta da una finestra e mi apostrofa sospettosa. Ripensandoci, un venerdì pomeriggio di novembre alle 14 in un borgo di 25 abitanti spunta un trentenne con gli occhiali da sole, la barba di due giorni e la giacca di pelle che fa foto in giro. La cosa è sicuramente inquietante. Le spiego comunque che abitavo in cima alla salita; citando il mio cognome la vedo rasserenarsi e mi lascia andare.

Mia nonna purtroppo non c’è più, ma spero che, ovunque sia, sappia che la casa che amava tanto è in ottime condizioni. Il giardino è curato, pieno di piccoli accessori: al posto dell’altalena ora c’è un pozzo (finto, probabilmente), c’è una tettoia nuova. Il cancello d’ingresso è grigio e non più marrone, ma l’edera è esattamente al suo posto come i platani che facevano da porta durante le partitelle di pallone.
Sono passato di fronte a case di gente che conoscevo, ma un po’ per l’ora (nel primo pomeriggio in campagna si fa il pisolino!) un po’ per vigliaccheria non ho osato suonare alla porta e presentarmi. Forse è meglio così.

Credo di aver visto abbastanza del Piano. Ora andiamo in centro: mi incuriosisce guidare a Sassello. Ho smesso di andarci a 17 anni, quindi non ho mai percorso le strade in macchina. Non mi sono mai posto il problema di quali di quelle strade che affrontavo quotidianamente a piedi o in sella alla mia bici Azzari "da cross" fossero a senso unico o addirittura inibite al traffico, né di dove si potesse parcheggiare. Comunque, lascio la macchina un po’ a caso e vago a piedi. L’impressione generale del centro di Sassello è la città abbia ceduto un po’ alla vocazione turistica che ai miei tempi trascurava, ma che non abbia perso l’anima di paese di campagna. Quindi, se ora ci sono i parcheggi a pagamento (ma solo in estate!) e si scorgono banchetti di funghi e amaretti dovunque, appena fuori dal centro storico si trovano mucchi di letame, segherie e vecchie signore che ti guardano sospettoso. E inoltre un’istituzione come "la Gina" del bar omonimo è sempre uguale.

Se al Piano avevo ancora tutto fissato in mente in modo fotografico, in paese invece riscopro scorci che avevo dimenticato. Eh già, accanto al tabacchino c’era un negozio di ferramenta! E come ho fatto a rimuovere la pista da pattinaggio accanto allo spiazzo che ad agosto ospita il Calcinculo? Eppure ogni tanto ci giocavo a basket! E il vicolo che conduce dal fornaio, quel vicolo che alle dieci di mattina profumava di tirotto di patate, aveva quell’arco così caratteristico: perché non lo ricordavo?

Basta, ho visto abbastanza. Partendo, inizio a riflettere e mi assalgono i dubbi: non era forse meglio conservare nella mia memoria il ricordo del Sassello passato, con tutto ciò che si porta dietro, e nella mia immaginazione il Sassello del presente? A cosa serve andare a cercare la propria infanzia quando so bene che è passata e che non tornerà? Non è una pratica in qualche modo autolesionista o addirittura quasi malata? O forse, più semplicemente, mi son tolto una curiosità, ho fatto una piacevole gita e ho rinfrescato alcuni ricordi. Insomma, perché devo sempre complicare tutto?

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