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La Pallina Schizofrenica

Boing. Hop, presa.
Boing. Hop, presa.
Boing. Mancata, la vado a recuperare.
Boing. Hop, presa.

Mamma XXmiglia: – Cosa sta facendo tuo figlio?
Papà XXmiglia: – Sta giocando con la Pallina Schizofrenica

Per non poco tempo da bimbo ho avuto una saltuaria passione: mettermi per terra sul pavimento del salotto di casa mia e lanciare una pallina di gomma (una di quelle note come palline rimbalzine) sul muro e poi riprenderla. I miei genitori avevano battezzato questo gioco la Pallina Schizofrenica, in parte per l’associazione del suono con "schizzo" e "frenesia", in parte perché la parola fa ridere e in parte perché, sotto sotto, non sembrava loro molto normale che un bambino passasse ore a lanciare una pallina contro il muro per afferrarla al volo. Il richiamo ad una malattia mentale, anche se di tipo diverso, probabilmente era un po’ freudiano.
Quello che non ho mai detto loro è che in realtà l’esercizio di lanciare e recupare la Pallina Schizofrenica era un modo che avevo per concentrarmi meglio, attraverso l’automatismo dei gesti che acquisivo col la ripetizione e che aiutavano a distaccarsi in un certo modo dal corpo. Potrei dire che si trattava di una specie di yoga spontaneo, se avessi la minima idea di come funziona lo yoga.
E quindi, lanciando la mia amata pallina, iniziavo a pensare, a risolvere piccoli e grandi problemi, ad immaginare mondi strani e ad escogitare strane invenzioni. Ovviamente non ricordo quasi nulla di quello che pensavo con la Pallina Schizofrenica, erano flash che andavano e raramente venivano sviluppati in qualcosa di coerente, e il fatto che siano passati oltre vent’anni e io non abbia preso appunti non aiuta. Peccato, una volta mi pare di ricordare di aver scoperto il Senso della Vita. Magari a qualcuno farebbe piacere sapere quale sia: procuratemi una pallina rimbalzina e potrebbe tornarmi in mente.

Tanti auguri a me

Oggi è il mio compleanno, faccio trentadue anni. È una cifra importante, poiché è una potenza di due. Auguri. Non ho mai capito perché si facciano gli auguri per il compleanno: implicitamente, forse, si augura all’interessato di arrivare al compleanno successivo, altrimenti non ci sarebbe ragione di augurare lunga vita o felicità proprio in questo giorno e non negli altri. In ogni caso, qualcuno potrebbe obiettare che la cosa porta sfiga, senonché la sfiga non esiste. Ma io divago.

Cosa ricordo dei miei compleanni? Mah, non molto! Io non sono mai stato una persona popolare, quindi non ho mai avuto molti amici con cui fare feste, quindi tutto sommato sono pochi gli anniversari che si sono fissati nella mia mente.
Il mio ottavo compleanno è stato poco frequentato. Ho invitato i miei compagni mia classe, e sono venuti in quattro. Gli è che il 26 giugno è il compleanno di Cesare e di Alessandro, e tutta la classe va alla loro festa. Andare ad un’altra il giorno dopo è fuori discussione (più per i genitori che per i bambini, ovviamente), e i compleanni vanno festeggiati esattamente nello stesso giorno, non è proprio possibile anticipare di un giorno. Però Enrico mi ha regalato il gioco in scatola de Il pranzo è servito che ho gradito molto e molto utilizzato.
Il mio decimo compleanno l’ho festeggiato a Sassello coi miei carissimi amici d’infanzia. Mia nonna Amelia ha preparato la torta al cioccolato e ha fornito me, Daniele, Marco e Simone di una Fanta a testa. Mia nonna ritiene che la Coca Cola faccia malissimo e quindi ripiega su bevande a sua opinione più salutari. Tanti auguri, gnam, e poi tutti a giocare a pallone in giardino. Ho un bellissimo ricordo del 27 giugno 1984.
Il mio diciottesimo compleanno è stato anch’esso in compagnia di pochi amici. Dalle mie parti non si usa fare grandi feste come invece in qualche modo è la prassi a Milano, dove da quello che sento tutti affittano discoteche e invitano interi rioni. Tuttavia, una cena a casa mia con Giampaolo, Andrea e Luca forse è stata eccessiva dal lato opposto. Di quel fatidico compleanno ricordo che mio padre aveva fatto preparare la mia torta perfetta, ma che l’ho appena assaggiata perché mia mamma ha poi distribuito il rimamente alle sue amiche.
Il mio ventesimo compleanno è stato invece più gaio. A un anno dalla maturità si ritrova la mia classe per una festa nel giardino di casa mia. Ho sofferto però il cambio di decennio: continuavo a ripetermi "venti, due zero, la mia gioventù è finita."
Il mio ventitreesimo compleanno è stato quasi inesistente. Nessun festeggiamento in assoluto, appena gli auguri della mamma e di un paio di amici. Stavo preparando un esame difficile, e quindi studiavo molto concentrato. Ho però sollevato gli occhi per un momento dalle dispense di Metodi per il Trattamento dell’Informazione per scambiarmi gli auguri con il mio compagno di studi Marco A., che è nato il mio stesso giorno e che si era addirittura dimenticato del suo anniversario. Chissà se oggi se lo ricorda.
Il mio trentesimo compleanno è stato sofferto. Ho patito di nuovo molto il passaggio di decennio, e mi sono sentito molto vecchio. Allo scoccare della mezzanotte, ero al cinema Ritz di Alassio a vedere Big Fish insieme ad un’amica. Le ho detto "La mia gioventù è terminata" e lei ha ritenuto che mi fossi addormentato.
Il mio trentunesimo compleanno è stato invece allegro, festeggiato con tante persone e dividendo la festa con altre tre. Un buon auspicio per il futuro.
Il mio trentaduesimo compleanno è oggi. Auguri.

Tennisti in pantofole

Tra la fine del 1995 e l’estate del 1998 ho vissuto in una casa condivisa con altri studenti, la stessa casa in cui si svolge l’aneddoto delle birre e degli amici. Tale casa, nella zona popolare/universitario che sta tra i quartieri di San Fruttuoso e di San Martino a Genova, era a piano terra e aveva un piccolo giardino. Da bravi cazzeggioni, nei tardi pomeriggi primaverili Giampaolo, il Sire Ennio ed io ci siamo messi a fare qualche piccolo passaggio con le racchette da tennis e, pian piano, siamo diventati sempre più competitivi fino a che tali scambi non sono diventati partite, e per estensione uno sport col pomposo nome di Tennis Garden. È quindi sorta  la necessità di strutturare alcune regole: già da allora ero una persona poco seria ma precisa, e mi sono preoccupato di stendere un regolamento che alternasse punti precisi a paurose cazzate.
Tale era il nostro entusiasmo che Giampaolo mise online un sito sul tennis garden dal quale si deduce come io sia il vicecampione mondiale di Tennis Garden, grazie ad una vittoria sul campione. Niente male, eh?
Tale pagina è anche uno splendido esempio di archeologia internettiana: si sappia che la password per modificarlo è andata perduta, e quindi questo, ehm, documento, rimarrà a disposizione nei secoli dei secoli. Grazie ad esso, inoltre, ci ricorderemo cosa si sapeva su Star Wars Episode I nel 1997: addirittura si pensava che fosse un film!

Ma ecco il regolamento: le note sono scritte oggi, mentre il testo è, a parte qualche piccola modifica ortografica, quello redatto nel 1997.

Regolamento del giuoco del Tennis Garden 
Scopo del giuoco
Lo scopo del giuoco del tennis garden è vincere. Per raggiungere questo scopo è valido tutto, tranne ciò che è espressamente vietato.[1]
Campo ed attrezzature
Il giuoco si svolge nel giardino di Salita Inferiore della Noce 4/2, a Genova (Italia). Eventuali altri campi sono possibili, sotto il permesso degli ideatori del giuoco.
Si giuoca rigorosamente in due, poiché il giardino è troppo piccolo per poter giuocare in quattro giuocatori. È sotto studio la versione pippa del tennis garden, da giuocare da soli. [2]
Ogni giuocatore è fornito di una racchetta da tennis. Si usano anche palline da tennis, preferibilmente non troppo dure.
Il campo dovrebbe essere diviso in due da una rete ad altezza da definire, altrimenti si divide ad occhio il campo in due.
L’abbigliamento dei giuocatori (detti tennisgardenisti) non ha particolari requisiti, se non che è obbligatorio giuocare in pantofole. L’abbigliamento classico, comunque, prevede una tuta da casa, possibilmente sporca, oppure dei pantaloncini più marci possibile.  [3]
Punteggi
Un match di tennis garden si svolge al meglio di tre o cinque set, come il tennis normale, con la differenza che un set è composto di soli quattro games. Ogni game ha un punteggio identico a quello del tennis. Si serve un game per uno, si cambia campo ogni due games (cioè quando la somma dei games svolti è pari). In caso di 3-3, si va ai 5, in caso di 4-4 si giuoca il tie-break. Il tie-break si svolge sui cinque punti, con vittoria conseguita con almeno due punti di vantaggio. Si serve una volta per uno, cambiando campo ogni due games, in modo del tutto analogo ai games normali.[4]
Svolgimento del giuoco
Innanzitutto la regola fondamentale: non vale tirare forte. Altrimenti è troppo facile, il campo è piccolo, chi cazzo la prende se tiri forte? In caso ciò avvenga, se non lo si è fatto troppo apposta si rifà, altrimenti, se uno ha fatto lo stronzo, perde il punto, così impara. Una palla è considerata forte se chi ha subito il colpo bestemmia, o muore, o entrambe.[5]
C’è un solo servizio a disposizione. Non si rifà in caso di net, che intanto c’arrivi, mentre si può rifare, a discrezione di chi riceve, se la palla finisce nel canale[6]. Se il servizio è fuori, il punto è perso (Singolo fallo). Il servizio, comunque, deve cadere nella metà del campo più vicina alla rete.
Inizia a questo punto lo svolgimento del giuoco, che avviene secondo le normali regole del tennis, tenendo conto che:
– Se la palla, dopo aver rimbalzato nel campo avversario, rimbalza sul muro, allora è ancora giuocabile (Carambola)
– Si considera fuori ogni palla che finisca sugli ostacoli nel campo (da una parte il tubo della grondaia e dall’altra gli scalini).
– Le palle che rimbalzano male, in particolare quelle nel canale, sono buone, a meno che non siano sul servizio.
– I confini del campo non sono precisissimi, anzi variano a seconda delle circostanze. In generale, si può dire che se un giuocatore è a fondo campo, la palla deve rimbalzare nel campo (prima della linea della casetta dei giornali da una parte, prima dell’aiuola dall’altra). Se il tennisgardenista è invece a rete, allora i pallonetti possono essere un po’ più lunghi: possono rimbalzare sulla casetta di cui prima o non arrivare dalla recinzione coi vicini dal lato della cucina, può andare nell’aiuola ma non sulla rete dall’altra. Per i passanti si vede ad occhio.[7]
-Non è valido fare male fisicamente all’avversario, mentre è consentito distrarlo in qualsiasi modo. E’ anche consentito fare bastardate del tipo tirare quando il nemico è distratto, si soffia il naso, è andato in bagno, ecc. [8]

[1] Nonostante l’appiglio, due medici ed un informatico non hanno sfruttato questa clausola come avrebbe saputo fare un avvocato. Peccato.

[2] Questa aggiunta fa ridere ma non ha senso.

[3] Il giuoco in pantofole è fondamentale e parte dello svolgimento delle partite (si può mettere in difficoltà l’avversario sfruttando le calzature inadatte), mentre l’abbigliamento costituiva semplicemente la prassi.

[4] Si è voluto variare leggermente il regolamento del tennis per distinguerlo dal giuoco originale. L’unico macroscopico difetto sta nel fatto che, cambiando di campo ai games pari, si finisce sempre per ricevere o servire nello stesso campo. E dato che i due campi sono parecchio diversi, non è una cosa da poco.

[5] Questa gag fa molto ridere, e nasce dall’osservazione che tutti facevano leggendo la prima bozza del regolamento: chi decide se un tiro è troppo forte? Decisi quindi di rispondere in modo semi-ironico con questa postilla. D’altra parte rimane ancora il problema di distinguere la volontà precisa di tirare forte. Pazienza, nessun regolamento può essere perfetto.

[6] Il "canale" è un canaletto di scolo che attraversa una delle due metà del campo. La regola è fondamentale, poiché il rimbalzo nel canale è molto irregolare. Se durante lo svolgimento dei punti mirare al canale può essere una strategia accettabile, è davvero troppo facile puntarlo col servizio.

[7] Forse l’ossimoro più geniale sta in questa parte, ovvero definire in un regolamento, per definizione preciso e non ambiguo, il fatto che "si vede ad occhio, dipende, a volte sì e a volte no". I vicini, due anziani molto pazienti, avevano un giardinetto simile al nostro nel quale spesso finivano le palline per pallonetti troppo lunghi.

[8] Ho in effetti vinto diversi games mentre l’avversario parlava al telefono con la fidanzata. Con pazienza, servivo, facevo punto, andavo a raccogliere la pallina e così via per l’intero game.

Il piccolo Luca alle prese col malvagio e dentuto Gianfranco

Alassio, 1978, giardino dell’asilo delle suore Maria Ausiliatrice.
Il giovane Luca, vestito con un grembiale color pastello, giuoca. Gettando lo sguardo in un’aiuola, qualcosa attira il suo interesse. Egli si china.
Arriva Gianfranco. Tutto quello di Gianfranco che passerà alla storia è il suo nome e il suo ruolo in questo aneddoto, quindi che non si chiedano altre notizie su di lui. Gianfranco è transitivamente incuriosito dall’interesse di Luca.
– Ehi, cosa hai trovato lì?
– Una lumachina.
– Me la fai vedere?
– No! (voltandosi di scatto)
Gianfranco, indispettito, si vendica mordendo Luca sul braccio. Luca piange e va da Suor Luciana:
– Gianfranco mi ha morsicato!
Suor Luciana si reca da Gianfranco e lo sgrida severamente.

Morale: se trovate una lumachina per terra e qualcuno che ha il vizio di mordere vi chiede di mostrargliela, voi fatelo. È un consiglio che sfrutterete spesso, quindi tenetelo bene a mente. D’altra parte, se siete dei mentecatti che non vogliono mostrare le lumachine a chicchessia e per di più siete spioni, forse qualche morsicata ve la meritate.

Storea di uno stereo

Alassio, giugno 1992.
Luca compie 18 anni. Ormai è grande. I genitori gli chiedono cosa vuole come regalo per questo passo così importante, probabilmente sperando che chiedesse roba da sci . No, Luca in quel periodo è fissato con la musica: vuole uno stereo. Di quelli belli, col mobiletto, piatto dischi, doppia cassetta, magari con High Speed Dubbing, e persino quella diavoleria moderna chiamata CD. Luca non sapeva (e non sa tuttora) una mazza di HiFi, quindi ne prende uno un po’ a caso, un Panasonic.
Questo povero stereo ne ha passate tante. Ha suonato heavy metal e punk a più non posso, si è sintonizzato su Planet Rock, su di esso sono finiti dischi di gruppi scarsissimi come i Sodom, gli Ifix Tcen Tcen o i Tankard, e probabilmente la sua anima dura e pura si sarà sentita un po’ tradita quando col tempo si è trovato a suonare De André e occasionalmente Radio Deejay.
Quattordici anni dopo, il mobiletto è ancora lì. Il piatto dischi ha perso la puntina. Il CD "salta" da parecchio tempo, la lente andrebbe pulita o sostituita. Le piastre per le cassette funzionicchiano ancora, ma quella di sinistra fatica un pochino con le cassette da 90′. Il vetro davanti, in compenso, è riempito di adesivi che ho preso un po’ ovunque, tra cui diversi Parental Advisory Explicit Lyrics che ho pazientemente staccato dai dischi, diversi souvenir delle Lucca Comics a cui ho partecipato dal 1994 in poi, nonché uno splendido adesivo con l’icona di "bagno delle donne" che mi pare di aver rubato in un pub di Pietra Ligure. La collezione di vinili è stata regalata da tempo a persona più degna e nella parte inferiore del mobiletto ora stazionano gli appunti e le dispense dei corsi universitari. Anch’essi, a quasi otto anni dalla laurea, iniziano a divenire un po’ polverosi, ma a questi sono ancora affezionato. Anche se dubito che avrò mai bisogno di ripassare la teoria dei database logici o dimostrare che l’SK-calcolo è un linguaggio equivalente alla Macchina di Turing [1], due anni fa mi sono riletto con piacere le dispense di Analisi I di Fioravante Patrone, e le fotocopie di Algebra mi occhieggiano da un po’ di tempo suggerendo: "Dai, ci hai trattato malissimo e alla fine hai preso solo 20! Come minimo devi rileggerci, chissà che tu non riesca a completare la dimostrazione dell’Ambarabacicicocò multiplo !".
Lo stereo sopravvive tuttora in virtù della citata funzione di libreria e, soprattutto, come amplificatore. Le casse funzionano ancora egregiamente e sono più che discrete, per le mie necessità. Avendo un solo ingresso Aux ho montato uno switch affinché possa ricevere input da PC, DVD e videoregistratore, anche se ultimamente quest’ultimo pare destinato ad un onorevole pensionamento.

Quello però che testimonia i vecchi fasti dello stereo sono le cassettine di compilation che sento ancora spesso nei viaggi in macchina (sì, ho ancora l’autoradio con cassetta!). E di cosa ho ficcato in queste compilazioni, pomposamente chiamate Roba Bella, ne parlerò un’altra volta.

[1] Cazzo ridete? Sono domande che mi hanno fatto agli esami di Documentazione Automatica e Metodi per il Trattamento per l’Informazione!

Gloriose giacche del passato

Quando cambia la stagione si tirano fuori dall’armadio giacche rimaste appese per diversi mesi senza essere indossate. Molto spesso ficcando le mani nelle tasche trovo qualche oggetto che per qualche ragione è rimasto lì a languire per parecchio tempo: trovo qualche spicciolo, dei volantini, a volte custodie di occhiali.
In una nebbiosa domenica autunn…, ehm, primaverile, per portare a spasso il mio cane ho tirato fuori per la prima volta la mia giacca di jeans. E’ un capo da giovane, ed essendo io poco giovane, poco la uso. La mattina è umida e fa abbastanza freddino. Mettendo le mani nelle tasche scopro tre scontrini: basisco. Uno è del 10 settembre 2005 e ricorda un acquisto di una bottiglia di vino alla Sagra del Pigato a Salea d’Albenga. Il secondo, più misterioso, è un acquisto da 0,80 euri a La Cave Srl in via Ponte 8 a Genova (non ho la minima idea di che locale sia, forse un bar), datato 16 settembre 2004. Infine, il terzo è di nuovo della Sagra del Pigato, ma addirittura del 14 settembre 2003. La coincidenza è abbastanza sorprendente, e posso dedurre due cose:
a) La giacca è stata indossata pochissimo e probabilmente solo a settembre. L’uso primaverile del 2006 dev’essere una novità.
b) La giacca non è stata lavata da almeno tre anni, anzi, probabilmente non è mai stata affatto lavata.
Questo settembre, prima della Sagra del Pigato, la ficcherò in lavatrice per poter sorbire la prelibata bevanda coi vestiti e col cuore immacolati. E starò attento a mettermi in tasca uno scontrino per ritrovarlo con gioia l’anno prossimo.

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