Il primo giorno di scuola prima di entrare ero molto emozionato, confesso che avevo anche un po’ di paura.
Appena entrato mi accorsi che ne conoscevo solo tre: Enrico, Emanuele e Mariangela.
Allora, oltre che emozionato ero anche felice, inoltre la paura svanì.
Mi trovai bene in seguito conobbi il resto dei compagni e cominciammo a far scuola in quel punto ero più emozionato di prima. Mi sarebbe andata bene o male? Avrei preso voti belli o brutti? Avevo una maestra severa, buona o metà-metà? Le risposte di questi miei pensierosi problemi furono positive, fortunatamente. Dopo di questo pure l’emozione svanì. Mi sembrava di essere…non so, un paradiso ecco. Si avvicinava l’ora dell’uscita ed ero sempre più felice.
Alla fine mancavano pochi minuti ed ero veramente contento perché il mio primo giorno di scuola era andato bene.
Tratto dal quaderno dei temi di IV elementare. Gli errori sono letterali. C’è una ragione precisa per cui mi son soffermato tanto sulle mie sensazioni invece di narrare, come sarebbe più naturale, le attività svolte in quella fatidica mattinata. La maestra intendeva farci parlare del primo giorno di quarta elementare, non di prima, e quindi aveva chiesto esplicitamente di non soffermarsi sugli argomenti trattati durante le lezioni perché "ho tutto scritto nel registro" ma piuttosto di raccontare le proprie emozioni. Per la cronaca, il mio primo giorno di scuola è stato giovedì 18 settembre 1980, durante il quale ho disegnato, su un quaderno Fabriano dalla copertina marrone, un autoritratto con scritto sotto in stampatello maiuscolo "IO". La mia prima valutazione formale (probabilmente uguale per tutti) è stata "Bravo".
Dallo scontrino di una pizzeria milanese (facciamo i nomi? facciamoli! Anema e cozze, in via Palermo; la pizza è più che buona):
Limoncello omaggio 6 x 0,06
0,36
Ora, io non sono ricco, ma posso permettermi di fregarmene dei sei centesimi. Non sono neanche uno di quegli amanti delle questioni di principio che vanno a protestare per amor di giustizia. Il problema è che a me il limoncello fa cagare, e lo prendo quando me lo offrono per una combinazione di atavica cortesia e di squallida avidità. Ma tu, stupido ristoratore, inventore di simpatici calembour nelle insegne, se proprio vuoi fare lo splendido concedimi uno sconto oppure taglia quel piccolo furto chiamato coperto, e tienti pure quella fetida brodaglia gialla!
Autunno 2004: Genova, Coop di Piazza Piccapietra
Sono in coda alla cassa dopo una spesa svogliata. C’è gente, e, appoggiato al carrello, mi guardo intorno in attesa del mio turno.
Il mio sguardo cade su una signora bionda, piuttosto in carne, circa cinquantenne. Non è certamente una bellezza, eppure qualcosa scatta: sono assolutamente certo di averla vista prima. Provo a pensare a conoscenti e luoghi frequentati di recente, ma è il buio. Beh, pazienza. Quando è quasi il mio turno, però, sento una cassiera dire ad un’altra:
– Hai visto chi c’è? E’ proprio lei!
Questo mi fa intuire che stavo sbagliando strada: la bionda in questione dev’essere una vip! E allora il mio pensiero spazia alla tv, allo sport, al cinema. Niente, niente, niente di tutto questo. Mi arrovello, anche ben dopo che sono uscito dal supermercato. Forse una presentatrice? Una valletta di altri tempi decaduta? Magari lavorava anche solo a Primocanale. Oppure è in politica e compare ogni tanto nei Tg regionali. E se fosse la moglie di qualcuno di importante e godesse solo di gloria riflessa? Il vuoto.
Il giorno dopo mi arriva l’illuminazione mentre mi faccio la barba (al mattino, col cervello fresco, ho spesso intuizioni folgoranti). Si trattava semplicemente di una signora che l’anno precedente aveva frequentato la stessa palestra in cui faticavo io. Il discorso delle cassiere era totalmente indipendente dalla questione.
La morale è: Non fidatevi di quello che sentite dalle cassiere dei supermercati
(oh, che vi aspettavate? Le favole di Esopo o di La Fontaine non hanno affatto morali molto più furbe!)
Io sono una persona sostanzialmente prudente, e lo ero anche da giovane, quindi diciamo che mi è capitato assai raramente di vedere la Bieca Mietitrice da vicino. Ma una volta ho sentito chiaramente il suo fetido respiro aleggiare su di me.
Non si è trattato di quella volta che, neopatentato, ho avuto un brutto incidente con la Y10 di mammà, né di quando, al ritorno da una discoteca col mio fido Sì chiamato Ataru, sono stato abbagliato da un’automobile noncurante e sono finito contro un bidone della spazzatura; neppure sto parlando di quando, pochi mesi fa, un simpaticone ha accostato in doppia fila e ha spalancato la portiera senza guardare mentre stavo sopraggiungendo in motoretta, e l’ho schivato per un pelo.
Sto parlando di una sera un paio di anni fa che, tornato stanco dal lavoro, mi sono tolto sovrappensiero la camicia, omettendo di slacciare i polsini. Mi sono ritrovato con la camicia rovesciata, ancora ancorata a me per le maniche, senza la possibilità di usare le mani perché incastrate dentro l’ammasso di stoffa. Se fossi stato da solo in casa, avrei sofferto un’orribile morte di inedia. Forse in tal caso Mr. Bean sarebbe venuto a tenere un’orazione funebre.
Sassello, estate 1980.
La casa che ho accuratamente descritto era in cima ad una salita, la cui pendenza cresceva all’avvicinarsi alla meta e che, quando era ancora relativamente in piano, passava di fianco alla casa di Baciccia.
Ignoro qualche fosse il vero nome di Baciccia (forse Giovanni Battista?), anche se curiosamente ne conosco il cognome poiché era zio del mio amico Daniele. Lo ricordo come un uomo di mezz’età dal ventre enorme di solito a malapena coperto da una canottiera bianca, coppola in testa, naso rosso da buon bevitore. Parlava quasi sempre nel buffo dialetto mezzo ligure e mezzo piemontese della zona. Era un contadino, proprietario di qualche mucca, di un fienile e di un trattore che io chiamavo "trattore Baciccia", per distinguerlo dal trattore di suo fratello Giuseppe che, indovina un po’, si chiamava "trattore Giuseppe". Darò una nota di tristezza fuori luogo dicendo che Baciccia è morto intorno al 1990 in un campo di patate.
Una giorno, all’ora di pranzo, tornavo a casa da solo (anche se ero così piccolo a Sassello potevo girare da solo, entro certi limiti) e vidi accanto al muretto che cintava la casa di Baciccia una bottiglia di vetro di Cocacola da un litro, vuota e abbandonata. Mi prese un raptus che tuttora non riesco a spiegarmi, la afferrai e la scagliai in mezzo alla strada rompendola. Il rumore attirò Baciccia e suo figlio Paolo che, resisi conto dell’accaduto, si arrabbiarono.
"Se passa tuo padre in macchina si buca le gomme", disse Baciccia. "Adesso raccogli i cocci!".
"Ma no, lascia stare", interloquì Paolo. "Poi finisce che si taglia. Vai, vai via".
E io me ne andai, mezzo gongolante, lasciando quei due uomini a raccogliere i frammenti di vetro, come se non si spaccassero abbastanza la schiena nei campi.
È bello, una volta tanto, essere il cattivo della storia.
Era un giorno d’autunno del 1984, poco dopo pranzo, nella mia tranquilla casetta di Alassio. Scolaro di quarta elementare, mi stavo facendo gli affari miei, come al solito a quell’ora: leggevo Topolino, giocavo coi Lego, riflettevo.
Mio papà, all’improvviso, mi chiamò e mi disse di mettermi la tuta e le scarpe da ginnastica. Non capivo perché, ma mi adeguai (ero un bimbo ubbidiente). Salimmo sulla Kadett verde e partimmo. Il mio babbo, chissà perchè, non volle dirmi dove stessimo andando e la cosa mi inquietava. Avevo ragione. Mi stava portanto al campo sportivo per mandarmi a giocare a calcio.
No, non è che mio padre volesse avere un figlio calciatore. Più semplicemente il medico gli aveva detto che mi avrebbe fatto bene praticare uno sport e lui aveva scelto la soluzione più semplice. Così andammo lì, lui parlò con l’allenatore, mi affidò al figlio di un suo conoscente, più grande di me di due anni, e se ne andò. Trauma.
Probabilmente la sua idea era anche di mettermi a contatto con un ambiente nuovo, preoccupato dal fatto che fossi un bambino troppo timido, e quindi aveva pensato di provare una terapia shock. Trauma.
Il figlio del conoscente mi mollò dopo cinque minuti (che cacchio, lui aveva dodici anni! Mica poteva farsi vedere con uno sbarbatello di dieci!) e rimasi disperato da solo. Fare amicizia con gente sconosciuta era fuori discussione, quindi mi sedetti su una panchina e mi misi a piangere lagrime amare. Dopo una mezzoretta, vidi una faccia nota: Alessandro M., il mio compagno di classe un po’ tardo! Lo inseguii e, scondinzolando, gli andai dietro. Scoprii da quelle parti in seguito altri due compagni di classe , Mike M. e Cesare R., e quindi iniziai ad allenarmi e a integrarmi nel gruppo.
Lieto fine, quindi?
Eh, no, le mie sofferenze erano solo all’inizio. Il mio amalgamarmi coi giovani calciatori di Alassio era reso molto difficoltoso da due fattori: ero un un bravo bambino ed ero un pessimo calciatore.
Il primo fattore era un problema mio. Il mondo del calcio ad alto livello è fatto di persone rozze, ignoranti e senza scrupoli. È un mondo dove la "furbizia" conta di più dell’educazione. Nel piccolo dei Pulcini dell’Alassio l’ambiente era simile. Ero sconvolto da ragazzini che continuavano a dire parolacce, a far scherzi maneschi, a rubare sui punteggi o per stare in squadra. Ma non dovremmo essere qui per divertirci?, volevo gridare. Tuttavia, come dicevo, il problema stava in me, nella mia scarsa capacità di adattarmi ad un ambiente anche se diverso dalle mie abitudini e oggettivamente sgradevole. Ripensandoci, probabilmente non era altro che la versione in piccolo di una caserma.
Meno bello è però il fatto che io non fossi bravo a giocare a calcio e non mi fosse concessa la possibilità di imparare o, perlomeno, di divertirmi lo stesso. È da questo punto di vista che trovo inconcepibili e imperdonabili alcuni comportamenti, come quello di quel mediocre portiere, tal Paolo C., che mi aveva soprannominato Stasso de’ Stassis ("stasso", a quei tempi da quelle parti, era sinonimo di "brocco", di "poco abile"), oppure di Fabio F. che forte della sua capacità un pochino superiore nel dribbling imponeva a tutta la squadra di non passarmi mai il pallone, oppure Federico M., che ordinatogli dall’allenatore di allenarsi in coppia con me, lo fece con enorme scazzo e, parlandomi come si parla ad un ritardato, mi disse: "Tu Ventimiglia sei bravo, sì, ma solo se giochi bene". Grave colpa, da questo punto di vista, era degli allenatori più che dei ragazzi.
Si supporrà quindi che la mia avventura sia durata poco. Eh, no. In qualche modo mi ero autoconvinto di voler giocare e che mi piacesse il calcio, anzi, in effetti mi piaceva veramente giocare nonostante tutto (ai giardinetti mi divertivo da matti!). Fatto sta che ho continuato ad andare al campo sportivo due, tre volte a settimana (comprese le partite rigorosamente in panchina, ogni tanto l’allenatore mosso a pietà mi faceva giocare gli ultimi cinque minuti) per tre anni finché, quando ero già in prima media e quindi grandicello, sono scoppiato a piangere disperato a casa gridando di non volerci più andare.
Da allora, non amo il calcio né da vedere (mi concedo solo le partite della nazionale con Peroni e frittata di cipolle) né da giocare, nemmeno tra amici. Certe ferite non si rimarginano.