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Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Decalogo del cinefilo integralista

Primo
I film si vedono solo al cinema. E’ ammesso il DVD per vedere i film in lingua originale quando altrimenti non sarebbe possibile. Bandita rigorosamente la TV tradizionale, che inserisce le pubblicità (di solito male, ma è irrilevante) e taglia pezzi di film. E’ al vaglio uno studio che stabilisca se sono ammissibili la pay-TV e i DivX, ma nel dubbio è meglio evitare.

Secondo
Il cinema non è un evento sociale. Si va al cinema per vedere un film, non per intrattenersi con altre persone. Quindi, è meglio andarci da soli.

Terzo
Al cinema non si produce il minimo rumore. Non solo non si parla mai, per nessuna ragione, non solo il cellulare viene tenuto spento (e non in vibrazione, può comunque recare disturbo), ma non si mangia niente (nemmeno caramelle) ed è vietato tossire o starnutire. Se state male, imbottitevi di medicinali o rimanete a casa. Le risa e i pianti, quando i film li richiedono, sono ammessi ma con discrezione.

Quarto
I film si vedono dall’inizio alla fine senza interruzioni. Alvy Singer e Michele Apicella vengono personalmente a picchiarvi a casa (minaccia poco spaventosa, si dirà!) se arrivate in ritardo anche solo di cinque secondi dall’inizio del film. E’ auspicabile, ma non obbligatorio, vedere anche gli Opus Proclama e i trailer precedenti l’inizio della proiezione vera e propria. Nei cinema che tradizionalmente iniziano 10-15′ dopo l’orario è comunque obbligatorio andare nell’orario indicato. Non si sa mai.

Quinto
I titoli di coda si vedono per intero. Fanno parte del film e spesso portano alcuni indizi utili a interpretare il film e la sua realizzazione, per non parlare di quando, come nel remake de L’alba dei morti viventi, il vero finale è durante i titoli di coda. Inoltre la visione dei titoli è un segno di rispetto per tutte le persone che hanno lavorato al film. Ultimo ma non meno importante, chi non guarda i titoli di coda viene colpito dalla maledizione del Best Boy: i Best Boy che lavorano ad ogni film la invocano e le peggiori disgrazie capitano a chi non legge i loro nomi.

Sesto
Nella scelta del cinema, considerare i seguenti parametri, oltre agli ovvi parametri di qualità audio/video:
– un cinema che fa l’intervallo tra il primo e il secondo tempo è da evitare.
– evitare i multisala solo perché sono antipatici.
– scegliere uno spettacolo il meno affollato possibile: possibilmente un pomeridiano (ma non di domenica) e non di mercoledì.
– la comodità delle poltrone non è importante, una sedia troppo comoda può favorire la distrazione dal film. Solo per i film sopra i 120′ la si può considerare come parametro, perché i crampi alle gambe e al culo possono distrarre dalla visione.
– sono da evitare i cinema in cui la presenza di uno spettatore nella fila davanti oscura anche lo schermo anche in minima parte.

Settimo

Il film deve essere visto il più avanti possibile, nella prima fila in cui lo sguardo abbracci l’intero schermo, longitudinalmente situati nel mezzo. Nel caso ciò sia impossibile, meglio troppo avanti che troppo indietro, meglio troppo indietro che troppo di lato. I cinema che nel mezzo hanno il camminatoio (sempre più rari, per fortuna) sono da evitare.

Ottavo
Terminata la visione, il film può essere commentato con altre persone, ma ricordandosi che le sensazioni devono sempre marinare. Ogni commento deve quindi iniziare con: "Dovrei rifletterci un po’ sopra, ma…".

Nono
Appena possibile, la visione va registrata da qualche parte: in un database è l’ideale (si può usare anche quello dell’imdb, volendo), ma van bene anche un foglio excel, un documento di testo o un tradizionale quadernetto. Se il film non è stato visto in modo completo (per cause di forza maggiore) o in condizioni non accettabili, non va registrato e la visione va ritentata prima possibile

Decimo
Queste regole valgono per tutti i film, da Giovannona Coscialunga a Quarto Potere. Fanno solo eccezione i film degli autori che se la tirano troppo, come Michael Haneke (Funny Games) o Godrey Reggio (Koyaanisqatsi), i quali per sberleffo non meritano la visione dei titoli di coda.

PS: ho scritto queste regole interrompendo la visione a 1h:35′ di Cape Fear di Scorsese, quindi al climax del film, visto in dvd in italiano, durante il quale ho anche bevuto un tè e sono andato in bagno senza mettere in pausa.

Analisi della Settimana Enigmistica: terza parte

3. I rebus

Nonostante quello che i lettori più maliziosi potrebbero pensare, "L’antologia di Edipo" di pagina 10 non è una sfilata di persone che si vogliono trombare la propria mamma, ma il posto principe per i rebus nella Settimana Enigmistica. I rebus concettualmente sono molto simili alla categoria degli enigmi in versi, ma la palese differenza strutturale (cioè la presenza di un disegno) li distingue parzialmente, e fa sì che essi ricadano in due locazioni, all’interno della "Sfinge" (vedi il capitolo 2) ma anche in altri posti ad essi dedicati: nella citata "Antologia di Epido" e nelle variazioni "Stereoscopico" a pagina 40 e "Anarebus" a pagina 6. Come da tradizione dell’intera rivista, i rebus all’interno delle "Sfingi" verso l’inizio sono più facili di quelli verso la fine.
Un rebus è composto da una vignetta con alcune lettere poste sopra alcuni oggetti. Il disegno è sempre in stile realistico, ripassato a china al tratto e di qualità media piuttosto buona: magari non verrebbe accettato da Bonelli, ma è di solito meglio di gran parte dei disegni nei fumetti porno o di paninari. La composizione della vignetta inoltre deve prevedere la giustapposizione di diversi oggetti, quindi spesso è necessario studiarla con attenzione perché elementi di diverse proporzioni possano essere messi nel corretto ordine: la sovrapposizione dei piani prospettici a volte non è certamente elementare.

I rebus non sono di solito particolarmente ermetici nelle loro risoluzioni (ovvio, ci sono quelli facili e quelli difficili!), ma necessitano di un minimo di iniziazione. Personalmente, ho sempre saputo come funziona il meccanismo dei rebus ma più di una volta mi sono sorpreso nel dover illustrare i principi basilari della risoluzione dei rebus a persone insospettabili. Insomma, quello che a me pare lampante e di per sè evidente, la costruzione di frasi mediante lettere e parole desunte dalle immagini ricombinando la struttura dei termini in parole dal numero di lettere indicato in testata, forse così ovvio non è.

È pur vero che i rebus hanno alcune convenzioni che solo l’esperienza può insegnare, dal punto di vista strutturale e da quello lessicale.
Per quello strutturale, esistono alcune regole che vanno conosciute: ad esempio, i rebus si leggono da sinistra a destra e dall’alto in basso. Pare ovvio, ma è importante vedere che la posizione delle lettere rispetto all’oggetto a cui fanno riferimento può indicare anche se esse vanno prima o dopo la parola. Quando è esattamente sopra l’oggetto, in genere vanno poste prima se l’oggetto è all’inizio della frase, dopo altrimenti, ma non c’è una regola precisa.
Esistono poi alcune regole per le lettere: infatti un parametro per giudicare la qualità di un rebus è di valutare quante lettere sono presenti. Una buona soluzione deve averne poche, ma non troppo poche (almeno una per ogni oggetto). E per risparmiare lettere esistono alcuni trucchi: due lettere poste una accanto all’altra si leggono insieme (anche se possono essere ovviamente separate in due parole differenti) ma se sono separate da uno spazio si sottindende una congiunzione "e". Ad esempio "N S" diventa il gruppo "nes". Meno comune è l’espediente di scrivere una lettera piccola e rialzata rispetto ad un’altra, mimando un esponente: in tal caso si legge "a". Ad esempio "NS" diventa "nas". Per mimare la lettera "a", infine, si usa anche il poco ortodosso trucco di mettere un oggetto in mano ad una persona, sottintendendo il verbo avere "ha" che perde l’"h" nella costruzione della soluzione. Può far rabbrividire i puristi, ma è interessante notare che è uno dei pochissimi mezzi che si ha in italiano per giocare con le pronunce multiple, cosa che invece è la base dei rebus in inglese e in francese.

Dal punto di vista lessicale, alcuna parole ricorrono con maggiore frequenza di altre spesso nei loro sinonimi meno consueti. Il mondo dei rebus è un mondo popolato di altari sparsi in mezzo alla campagna, spesso in coppia (are), di armadi aperti o persiane spalancate (ante), di bugiardi matricolati o di bevande rinfrescanti (mente): questi tre elementi sono comunissimi perché compongono suffissi di vocaboli comuni in italiano (rispettivamente, verbi all’infinito o al participio presente e avverbi derivati da aggettivi).
Ma accanto a questi nel mondo dei rebus si trovano spesso donne con mani giunte e un rosario in mano (pie), bevande delle cinque del pomeriggio piazzate ovunque, quasi sempre della varietà "ceylon" chiaramente indicata (), panoramiche di Torino col fiume che lo attraversa in bella evidenza (Po), vecchiette o vecchietti (ave o avi), coltelli conficcati un po’ ovunque (lame).
Non mancano infine i riferimenti al mondo classico e operistico, con statue o manifesti di opere. In entrambi i casi, qualche indizio aiuta a capire di che si tratta: ad esempio, su una statua di Venere ci sarà scritto "La versione romana di Afrodite", o su un manifesto del Rigoletto il titolo sarà cancellato ma si scorgerà un gobbo chiosato da "Melodramma di Piave musica di G. Verdi" .
Inoltre, a differenza dei cruciverba, sono ammessi e sono comuni i verbi coniugati: una persona che compie una certa azione divente quel verbo alla terza persona singolare presente: un uomo che entra in un luogo è entra. In una variante dei rebus, gli "stereoscopici", si usa comunemente il passato remoto. Tali rebus, infatti, la cui definizione è curiosamente ripetuta ogni volta che compaiono ("Questo rebus è costituito da due vignette perché la sua soluzione deve essere determinata dal raffronto di esse"), prevedono che nella prima vignetta un personaggio compia un’azione, e nella seconda compaia di nuovo lo stesso personaggio a fare altro. Quasi sempre, la soluzione prevede che si usi il passato remoto delle prima azione in raffronto a quello che fa successivamente. La blanda relazione tra fumetti e rebus, esplicitata solamente nel concetto di costruzione della vignetta e nel senso di lettura, negli "stereoscopici" diventa più forte perché introduce il concetto di closure tra vignette.

I rebus hanno un aspetto comico: si provi ad osservare una vignetta senza considerarla come un enigma ma come se fosse un quadro. E allora si nota come, nella grande maggioranza dei casi, ci si trova di fronte a scene assurde in cui elementi palesemente incompatibili sono giustapposti solo in virtù di dover illustrare un enigma. Scene che rappresentano i soliti altari campestri accanto ai quali sostano delle iene, o gente che cala delle giare giù da una finestra,, o anziane torinesi in una campagna accanto al Po meditano di fronte ad una finestra aperta. Dev’essere brutto, vivere nel mondo dei rebus.
Tutti questi esempi sono rebus reali pubblicati sulla Settimana Enigmistica n. 3803. Vale la pena però analizzare a fondo il rebus 803138 (4,12,10) nello stesso numero come esempio globale di quasi tutto quello che è stato detto finora. Preferisco non includere l’immagine per questioni di copyright (tanto più che con quest’analisi della Settimana Enigmistica arrivano su questo sito non pochi googlatori enigmisti), quindi mi limito a descriverla.
Siamo in un bosco: su un sentiero camminano due donne con un velo in testa, le mani giunte, e ovviamente il rosario d’ordinanza. Campeggiano le due lettere TI su di esse. Accanto a loro, una scena bucolica: una famigliola fa un picnic. Le due figliole sono impegnate con uno scoiattolo. Una di esse, denominata S, è terrorizzata dall’animaletto tanto che dai brividi per la paura quasi non sta in piedi. L’altra, tanto anonima quanto stronza, ride. I genitori si accingono a preparare il pranzo: il papà si occupa dei beveraggi e, essendo un intenditore, ha deciso di pasteggiare con due enormi flaconi con su scritto "Piperita", contrassegnati dalle lettere IR, flaconi che tiene in braccio gelosamente. Il babbo si chiama S (come la figlia!). La mamma, anonima, è china su un cestino ricolmo di ogni ben di dio: un pollo, pane, salame. Tale abbondanza è LI.
Soluzione: TI pie S trema mente IR a S cibi LI; tipi estremamente irascibili. C’è di tutto, qui: le pie, le mente, il verbo alla terza persona, il verbo avere che bara, la scena ridicola. Sono quasi commosso!

PS: per chi se lo fosse chiesto…gli anarebus non sono i rebus anali. Sono i rebus anagrammati.

Neve a fumetti

Manco a farlo apposta, pochi giorni dopo la mia invettiva contro gli sci e quella "roba bianca, fredda e bagnata" mi ritrovo con la mia città, Genova, sommersa da una coperta bianca. Che poi da piccolo mi dicevano a scuola che la neve tiene al caldo le sementi sotto la terra, e io mi chiedevo ma che cacchio, ma non è fredda la neve?
Comunque, complici vecchi ricordi di nevicate commentate con gli amici, la mente corre alle varie nevicate viste nei fumetti.

La neve dell’Eternauta, silenziosa e mortale, spietata e indimenticabile.
La neve che sorprende Petrilli in "Storiella Bianca" dell’immortale Andrea Pazienza.
La neve eterna del Tibet in una delle più belle avventure di Tin Tin.
La neve che compare in Watchmen, nella visita a Ozymandas. In Watchmen c’è tutto, non poteva mancare la neve.
La neve che persino in un fumetto cinico come Sin City va a portare un briciolo di commozione, in "Notte Silenziosa"
La neve che introduce un personaggio importante come Zio Paperone nel "Natale di Paperino sul Monte Orso".
La neve che per i soldatini delle Sturmtruppen non è altro che un ulteriore modo per morire.
La neve che suggella l’ultimo numero di Video Girl Ai, che in gioventù
leggevo sempre ascoltando "The Celts" di Enya e commuovendomi
inevitabilmente al comparire di Ai in mezzo alla neve.
La neve di Ken Parker, che nei territori selvaggi frequentati da Lungo Fucile è quasi sempre un’insidia mortale.
La neve che mi ha rivelato l’impareggiabile Trondheim nel suo bellissimo "Slaloms".
La neve giocosa di Calvin & Hobbes, che appena caduta verrà subito tramutata in pupazzi poco ortodossi.
La neve in persona, la deliziosa Oyuki in Uruseiyatsura.

E chissà quante ne ho dimenticate…

Analisi della Settimana Enigmistica: seconda parte

2. La Pagina della Sfinge

La Pagina della Sfinge, che è pagina 3, e le sue appendici (fisse a pagina 6 e a pagina 40, ma anche altrove) sono uno dei grandi misteri dei non iniziati. Altro che logge massoniche. Si tratta dei cosiddetti enigmi in versi, quelli, diciamo, in stile "indovinello": indovinelli propriamente detti, cambi di lettera, crittografie mnemoniche, zeppe, lucchetti etc., e se non sapete la differenza tra un monoverbo e un monoverbo sinonimico non sarà la Settimana Enigmistica ad insegnarvelo. E nemmeno io, se è quello che stavate sperando. Questa è putroppo la ragione per cui questi tipi di enigmi d solito riscuotono poco successo, ed è un peccato, perché forse è il tipo di giochi che danno più soddisfazione da risolvere. Suggerirò comunque che sullo pseudo-sito della Settimana Enigmistica vengono spiegati questi giochi, purtroppo in maniera poco chiara e in un’area del sito accuratamente nascosta.

Stabiliamo un po’ di tassonomia. Esistono grosso modo tre tipologie principali di enigmi in versi: quelli a incognita, quelli classici e quelli crittografici.

Gli enigmi in versi classici sono relativamente poco frequenti e di solito non semplicissimi. Ogni enigma di questa tipologia è strutturato mediante tre parti: un’intestazione, un titolo e una definizione. L’intestazione indica il tipo di enigma, seguito dal numero di lettere che compongono le diverse parti. Ad esempio, possiamo avere un Falso accrescitivo (4/6) che indica che la soluzione è composta di due parole, una da quattro lettere e una da sei, oppure Cambio d’antipodo (4), in cui, per definizione del gioco, la soluzione è data da due parole entrambe di quattro lettere.
Il titolo è spesso molto sottile: si tratta infatti, negli enigmi migliori, di una lettura non enigmistica della definizione. E’ quindi interessante da leggere, ma inutile e anzi dannoso per la soluzione. Diabolici inventori di giochini!
La definizione vera e propria è costituita da un poemetto di solito in due o quattro versi di otto o nove sillabe, a volte in rime baciate o alternate. Inutile dire che, dal punto di vista letterario, queste composizioni sono quasi sempre meno che spazzatura: d’altra parte non è il loro scopo. Se l’enigma prevede una soluzione in due o più parti, esse sono separate nella composizione dai puntini di sospensione. Di solito una parte dell’enigma riempe almeno un verso, ma a volte basta una parola per definire una parte della frase.
Vediamo un esempio, il numero 803127 (sic!) del numero 3803 della Settimana Enigmistica:

Spostamento di vocale (7)
Una tazza di camomilla
Azione sedativa ha certo fatto…
col gradimento pur del mio palato.

Non è facilissimo ma nemmeno impossibile: la soluzione è "paciere/piacere". Si noti come il titolo sia poco legato alla soluzione. A meno che il paciere non si beva la camomilla, ma questo non rientra nel contesto! La rima mal riuscita è abbastanza patetica.

Gli enigmi in versi a incognita sono forse i più celebri, i più frequenti e, in linea generale, i più facili. La composizione è simile a quella degli enigmi classici: intestazione, titolo e composizione, ma con alcune differenze. Innanzitutto, nell’intestazione non compare il numero di lettere, perché implicite nella morfologia del gioco. Il titolo è legato alla soluzione, ma, a differenza del primo tipo, non è fuorviante ma è parte integrante dell’enunciato, e spesso aiuta nella soluzione. La chiave di questo comportamento apparentemente strano è dovuto a come è definita la composizione: essa infatti ha alcune parole mancanti sostituite da lettere incognite, x, y, z, w secondo la tradizione matematica, che però completano in modo corretto la poesiola, conservandone il senso. Essendo dunque parole interne alla composizione, e non esterne, è giocoforza che non possa esserci contrasto tra titolo e soluzione. Sempre per questa ragione, alcuni enigmi come gli indovinelli puri non esistono in questa forma. Sì, insomma, sono gli enigmi citati da Elio nelle immortali parole: "La vita in fondo è una sciarada, all’inizio sembra xyx e invece è xzxyx"
Le x e le y non sono utilizzate in modo rigorosamente matematico: non è vero infatti che ad ogni incognita corrisponde una certa lettera. Piuttosto, ogni parte della soluzione è composta da tante lettere quante sono le incognite, che costituiscono quindi dei blocchi che in qualche modo si combinano: xxxx indica quindi una parola di quattro lettere: per questa ragione nella struttura non è indicato il numero di lettere della soluzione. Questo meccanismo aiuta il solutore mostrandogli la struttura della risposta, e, in alcuni casi, un lettore dotato di intuito può capire come funziona un gioco di cui non conosce il funzionamento solo osservando come si combinano le "incognite". Il poemetto con le x e le y spesso è meno rigoroso per quanto riguarda la metrica e le rime, appunto perché la lettura della composizione è rovinata dalle incognite. Meno male, almeno ci risparmiamo alcuni esecrabili esperimenti pseudo-poetici. In alcuni enigmi, tuttavia, la struttura poetica può aiutare nella soluzione: per la metrica, per propendere tra diverse soluzioni per accenti e numero di sillabe, per le rime, nei rari casi in cui c’è una parola "in chiaro" che fa rima con una incognita. Ma questo è troppo lusso!

Ad esempio, vediamo la sciarada alterna n. 803129:

Sciarada alterna
Un accompagnatore turistico
A far la xxxxx dei partecipanti
più volte fu costretto alla yyyyyyyy
una chiara, per lui, xxxyyyxxyyyyy
dell’impegno che dan tanti gitanti.

Personalmente non avevo mai sentito questo tipo di gioco, ma osservando come si incastrano le incognite è facile intuirlo. La soluzione è particolarmente semplice: conta, stazione, constatazione. Osservate come il titolo sia utile per la soluzione, e di come, in questo caso, la rima ABBA non sia utile per il solutore perché entrambe le terminazioni "B" fanno parte della stessa incognita.

Il terzo tipo, gli enigmi a crittografia, è il più difficile e il più ermetico. Fanno parte di questa categoria sostanzialmente le crittografie e i monoverbi di vario tipo. Come struttura, ci sono evidenti differenze rispetto ai due tipi precedenti. L’intestazione rimane ma, ogni tanto, compaiono anche segni di punteggiatura per indicare come legare le varie parti della soluzione. Il titolo scompare, divenendo inutile. La definizione è su una sola riga scritta tutta, per qualche strana convenzione, in lettere maiuscole, e, in alcuni casi, con alcune lettere sostituite da un punto.
Personalmente so poco su questi giochi. L’idea generale delle crittografie (e dei monoverbi, che sono la stessa cosa ma con la soluzione in una sola parola) è che siano una sorta di rebus in lettere, in cui, basandosi sulla struttura della frase più che sul suo significato, bisogna inventare una frase (o una parola) sensata. Confesso che secondo me si tratta di giochi più divertenti da inventare che da risolvere, perché riuscire ad entrare in sufficiente sintonia con l’autore per immaginare quello che lui pensava è davvero difficile. Ad esempio:

Monoverbo (2,1,3,1)
NN

Soluzione: Lincoln. Sì, proprio Lincoln: secondo l’inventore, da quelle due lettere dovevo capire che "Lì N col N". Ma sei scemo?!? A posteriori è un giochino elegante e grazioso, ma trovo che sia semplicemente impossibile risolverlo. O forse sono io che non ho presente i meccanismi e le convenzioni di questo tipo di giochi.
Conosco abbastanza bene invece le crittografie mnemoniche, dato che con alcuni amici ogni tanto ci si diletta a proporcele a vicenda. Sostanzialmente possono essere definite come un doppio senso particolarmente acuto che definisca una frase fatta. La mia preferita, ad esempio, ha la definizione che recita mestamente "CUCCHIAINO" e la cui soluzione è "Mezzo minuto di raccoglimento", in cui ogni singola parola è utilizzata in un senso differente.

Come si sarà intuito, trovo questi tipi di giochi più stimolanti dei cruciverba, perché fanno lavorare aree del cervello ben diverse dal bieco nozionismo richiesto dalla parole crociate, però è anche vero che sono più "enigmi" e meno "passatempi", quindi meno adatti da fare in spiaggia o in treno, che poi, diciamocelo, spesso sono i luoghi maggiormente destinati alla Settimana Enigmistica, e sono anche meno condivisibili con persone intorno. Però la soddisfazione per una soluzione particolarmente ostica non è davvero paragonabile a quella per la risoluzione di un cruciverba, anche di quelli difficili. Bartezzaghi, tiè!

Geografia

Ehi, voi! Studentelli sfaticati e furbacchioni che passate da queste parti cercando i commenti sui Malavoglia su internet! Vi do un consiglio prezioso. Per le interrogazioni di geografia, basta ricordarsi tre cose:

…e con questi siete in una botte de fero. Assicurato.

Luca on the skis with diamond
Ho iniziato a sciare quando
avevo sei anni. Coi miei scietti e imbacuccato sotto strati di piumini,
andavo goffo sul baby: persino un bimbo brutto come me doveva essere
carino, messo così. Per tutte le scuole elementari mi son fatto la mia
brava bisettimana bianca, in cui si sciava solo al mattino, di solito
con un maestro. Uno di essi, Serafino, quando sbagliavo esclamava "Porca puzzola".
Il pomeriggio a non far nulla di particolare, compiti delle vacanze e
cartoni animati. Meno di frequente si partiva la domenica, sacrificando
una preziosa mattina di sonno, e in capo ad un paio d’ore si era a
Monesi, Prato Nevoso, San Giacomo o una delle località sufficientemente
vicine alla Liguria da permettere un giorno bianco. E a Natale, spesso,
preziosi "slot" da regalo di diversi parenti erano fagocitati dalla
roba da sci, che doveva essere adeguata alla mia crescita ancor prima
l’usura la rendesse inservibile.

C’era però qualcosa che non mi
convinceva
completamente in tutto questo traffico. Mi chiedevo cosa ci
fosse di così bello nel salire e scendere per le montagne tutto il
giorno. Mi domandavo se avesse senso dedicare un terzo scarso del tempo
a scendere e due terzi a fare code e a risalire in quegli noiosissimi
skilift, soffrendo alternativamente caldo e freddo. Mi interrogavo sul
fatto se fosse normale spendere così tanti soldi in spostamenti,
skipass e pessimi pranzi, tollerando l’ingiustificabile scortesia
tipica della gente di tutte le località sciistiche. Mi chiedevo se
valesse la pena di alzarsi presto la domenica per sobbarcarsi
sbattimenti simili. Mi meravigliavo del fatto che un’attività del
genere giustificasse l’assenza di due settimane da scuola, quando per
il resto i miei erano rigorosissimi nel limitare le assenze. Mi pareva
assurdo quello che molti sciatori dicevano, e cioè che la cosa più
bella dello sci è togliersi gli scarponi per mettersi i doposci al
termine di una giornata sulle piste: è come dire che è bello farsi
prendersi a martellate nei coglioni perché quando si termina la tortura
il dolore smette! Mi sorprendevo sul senso di mettere a dura prova la
salute: era quasi inevitabile che, tra me e mia sorella, almeno uno dei
due durante la settimana bianca cadesse malato, probabilmente per
conseguenza degli sforzi e degli sbalzi di temperatura. E, soprattutto,
mi chiedevo se non era meglio dedicare quei regali ai Masters o altri
giocattoli invece che a stupidi scarponi o racchette.
Ma, da
bambino, certe cose non vengono messe in discussione. Se tutti mi
dicevano che sciare è tanto bello, probabilmente ero io che non capivo
qualcosa, e allora stavo zitto, subivo e speravo di capire cosa ci
fosse di così divertente.

Verso il liceo ho spinguinato la cosa:
come da definizione di "Pinguino nel salotto", a posteriori c’è da
chiedersi come ho fatto a metterci così tanto tempo a rendermi conto
che non mi piaceva sciare, ma il processo non è stato immediato. La mia
ultima settimana bianca invernale è avvenuta nel 1990, in seconda
liceo. Per un paio di anni sarò andato a sciare ancora tre o quattro
volte, fino all’estate 1992, quando, a Le Deux Alps, ho messo su gli
infernali aggeggi per l’ultima volta.
Riesaminando la cosa, devo
dire che dev’esserci qualcos’altro sotto, al di là delle ragioni
perfettamente razionali che ho sopra esposto e che avevo perfettamente
chiare già a dieci anni. Infatti, quando penso ai miei ricordi delle
gite in montagna, mi sovvengono una quantità impressionante di ricordi
sgradevoli: quella volta che mi sono perso nella nebbia e mi sono
spaventato a morte; quella volta che mia mamma si è arrabbiata perché a
suo parere facevo i capricci (ma ero solo stanco e stressato); quella
volta che abbiamo avuto l’idea di andare in montagna con la parrocchia
e, dopo essersi sincerato che tutti gli iscritti fossero presenti
all’appello alle sei di mattina, un prete imbecille ha costretto tutti
ad andare a messa prima di partire; quella volta che sono caduto in un
fosso ai bordi della pista e non riuscivo a risalire, con la gente che
passava, mi indicava e rideva senza aiutarmi; quella volta che sono
stato male perché mi avevano dato un panino con la salsiccia cruda (che
da bambino mi disgustava, ora la adoro); quella volta che, sulla strada
del ritorno, ho avuto dei problemi fisiologici e me la sono fatta
addosso.
Niente male, eh? C’è quasi da stupirsi che si ancora in
grado di avvicinarmi ad una montagna senza gridare dal terrore. O
forse, più semplicemente, sono un uomo di mare e quella roba bianca,
fredda e bagnata
non fa parte del mio mondo.

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