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Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Undici cose che ci hanno insegnato i cartoni animati giapponesi

1-Una persona che mangia tanto o che dorme agitandosi è divertente.
2-Gli esseri umani da vecchi diventano piccolissimi
3-Le tette di solito non hanno i capezzoli
4-Se non hai nessuno che ti tagli i wurstel a forma di polpo sei un fallito.
5-La nuca suda parecchio.
6-L’allenamento duro nello sport paga, ma solo se sei il buono. Altrimenti è fatica sprecata.
7-Se sei grasso non rimorchi la bella del gruppo. Ma se sei bello, ricordati di essere anche un leader aperto e solare: se fai l’introverso è probabile che tu finisca male, e a questo punto ti conviene ingrassare. Invece, essere uno sfigato non lede le tue probabilità di rimorchiare.
8-Più hai gli occhi grandi e più sei buono. Basandoti su questo puoi capire se vale la pena allenarti duramente (vedi punto 6).
9-A scuola insegnano solo inglese e matematica.
10-Fucsia, viola, blu e verde sono colori perfettamente normali per i capelli.
11-Nessuno ce la fa contro Gundam.

¡Que viva la siesta!

La visione del mondo di un bambino è inevitabilmente filtrata dalla famiglia. Anche con quattro ore al giorno di scuola per confrontarsi coi coetanei e tre, quattro ore al giorno di televisione con una prospettiva su un mondo ben più ampia (anche se distorta!), c’è un grado di "verità" in quello che accade in famiglia che è assai superiore.

Ed è quello che è successo a me da piccolo col riposino pomeridiano. A casa mia, per qualche ragione, tutti hanno sempre fatto la siesta. Ero circondato da parenti le cui attività lavorative non richiedevano strettamente le prime ore del pomeriggio (insegnanti, negozianti, pensionati, casalinghe…), quindi i miei genitori, i miei nonni, le numerose zie avevano l’abitudine di fare il pisolino dopo pranzo. Ma non un riposino da dilettanti, sulla poltrona o sul divano: proprio a letto, sotto le coperte, con la luce spenta e la sveglia puntata, di solito tra le 15 e le 15.30. Roba da professionisti, insomma!
E’ importante andare a riposare dopo pranzo, diceva zia Adelina
Ma riposarsi di cosa? E’ pomeriggio, finalmente la scuola è finita, si possono fare tante cose! Si può giocare, leggere fumetti, guardare i cartoni animati, al limite anche fare i compiti così dopo ho più tempo per giocare! Perché perdere tempo a letto?
E’ importante andare a riposare dopo pranzo.
In realtà si trattava di residui di una certa saggezza contadina, per cui nei periodi di lavoro ci si alzava prestissimo, si lavorava sodo la mattina e poi si evitavano le ore più calde della giornata riposandosi. Però risulta un’abitudine un po’ meno comprensibile per una professoressa di italiano e latino o per un’anziana la cui attività primaria consisteva nel far mangiare i nipoti tutto quello che avevano nel piatto.

Il silenzio in casa doveva essere rigoroso: niente palloni in giardino o altri giochi rumorosi, niente televisione, parlare sottovoce e addirittura (in modo un po’ incosciente, ripensandoci a posteriori) telefono staccato. Per fortuna il riposino coatto di solito mi veniva risparmiato, a patto di non far rumore, quindi lettura e giochi solitari silenziosi erano le mie attività prevalenti del primo pomeriggio. Solo quelle disgraziate delle suore dell’asilo ci costringevano, per un’oretta o due dopo il pranzo, a stare chini sui banchi verdi per "riposarci". E chi dorme in posizioni del genere? In realtà probabilmente volevano riposarsi loro, ma chissà quelle pinguine quante schiene storte hanno sulla coscienza!

C’è stato solo un periodo, quando avevo circa 17-18 anni, che anch’io mi sono piegato ad una versione dilettante del pisolino. Accadde in quel periodo che, volendo sentirmi grande come accade spesso agli adolescenti, invece di mettermi a fumare o a picchiarmi negli stadi, mi ero deciso ad andare dormire tardi la sera, diciamo verso mezzanotte. Il mio fisico però un po’ di ribellava, quindi di pomeriggio presto, al ritorno da scuola, era inevitabile una mezzoretta di occhi socchiusi sul divano davanti a Lupin in tv. Però mi sono sempre sentito in colpa!
Ora, da adulto (anagraficamente parlando, almeno!), faccio un lavoro in cui quelle ore della giornata devono essere produttive. Tutte le mie conoscenze sono nella stessa condizione, tanto che i pisolini mi paiono un lusso di un’infanzia in provincia così lontana da essere a malapena ricostruibile nei ricordi. Eppure, quando a pranzo mi capita di concedermi qualcosa di più pesante come lo stinco o i tortellini, e verso le 14 gli occhi mi si chiudono senza pietà, invidio un po’ quelle abitudini che non ho mai conosciuto e che probabilmente non mi godrò mai.

Country road, take me home

E ora qualcosa di completamente diverso: una piccola perversione letteraria. Si tratta della descrizione in dettaglio maniacale della casa di campagna in cui passavo le mie estati da piccolo, a Sassello nell’entroterra savonese. Sì, dove fanno gli amaretti.

La casa di Sassello, posta sul pendio di una collina nella frazione misteriosiamente chiamata il Piano (dato che è tutta in discesa!), è circondata da un giardino abbastanza ampio e ben curato: appena entrati dal cancello ci si trova davanti due strisce lastricate, che chiamavo "le rotaie", su cui passare con l’auto per non danneggiare il prato. Alla sinistra, verso sud, svetta un filare di alberi, pioppi o betulle, mentre sulla destra un prato ben curato accoglie i bambini che vogliono giocare con un’altalena. Dirò sottovoce che gli alberi da un lato e l’altalena e un cespuglio di ortensie dall’altro costituivano le porte di un micro-campo da calcio.
Se immaginiamo il territorio della casa come un rettangolo, orientato secondo i punti cardinali, e poniamo il cancello in basso a destra (quindi nell’angolo di sud-est), allora la casa è in centro ma un po’ spostata verso l’alto a sinistra, mentre a nord c’è una zona rialzata, assecondando il pendio della collina, con a destra una "fascia" con un orto e un albero di ciliegie, e a sinistra un ampio stenditoio.

L’edificio della casa non è a livello del terreno: anzi, solo ora mi chiedo cosa ci fosse sotto, sempre che ci fosse qualcosa. Forse un tesoro nascosto. Per entrare si salgono tre gradini in graniglia rossa, nel secondo dei quali un fossile di conchiglia è intrappolato per l’eternità, e ci trova in un’ampio terrazzo, coperto di mattonelle rosse. Nella parte sinistra ci si può rilassare su un dondolo di plastica bianca, che col passare degli anni era sempre più malridotto. Si può entrare da ben tre luoghi diversi, in corrispondenza, da sinistra verso destra, di cucina, atrio e salotto, ma solo il primo, una porta a finestre costantemente coperta da tendine, e il secondo, una porta di legno chiara, sono usualmente aperti. La terza apertura, un’ampia porta-finestra a tre ante, viene spalancata solo per arieggiare o in altre rare occasioni.

Entrando, si incontrano i tre ambienti sopra descritti, sebbene non chiaramente separati. Il passaggio tra la cucina e l’atrio è segnato da un arco, alto e ottuso, mentre quello tra atrio e salotto è tutto sommato impercettibile, quasi una divisione di comodo. La cucina comprende due tavoli per lavorare, un frigo vecchiotto, con gli esterni color legno (non li fanno più!), un lavandino bianco, dei fornelli, armadi sparsi.
Nell’atrio, se così lo si può chiamare, troneggia una credenza, pseudo-antica, posta dirimpetto alla porta d’ingresso principale e ricettacolo di golosità quali Nutella, biscotti o caramelle. Il salotto è arredato con un divano sulla destra su cui mia nonna usava fare il suo riposino pomeridiano, due poltrone sulla sinistra con davanti un piccolo tavolino di vetro, un grosso tavolo da pranzo ovale in mezzo, e un caminetto quasi mai acceso e una TV nei due lati rimanenti. Numerosi oggetti africani fungono da accessori per la stanza: piccole sculture in legno e avorio, quadri, zanne di elefante e addirittura pelli di leopardo intere testimoniano i viaggi africani di mio zio Attilio e i suoi pochi scrupoli nell’esportare l’artigianato locale.
La televisione non riceve Raidue, è a colori ma non ha il telecomando e ha persino il pulsante di accensione rotto, tanto che bisogna agire sulla spina e c’è un biglietto sul pulsante di power con scritto "non toccare", redatto da qualche attento inquilino.

Una porta a vetri smerigliati conduce all’altra zona della casa, raccordata da un corridioio. Sull’immediata destra della porta c’è un bagno, piccolo e dominato dal color verde chiaro, mentre subito davanti è situata una camera da letto con due letti di vimini e un quadro con dei panda (opera di collage della gioventù di mia mamma), nonché un armadio. Un’ampia finestra guarda l’orto, e, essendo rivolta verso est, tende ad impedire le eccessive dormite mattutine.
Seguendo il corridoio, si incontra a sinistra una ripida scala a chiocciola che sale e che affronteremo in seguito e, poco oltre, un’altra camera da letto. Questa cameretta è più modestamente arredata con un solo letto, un armadio bianco decorato con qualche adesivo, un piccolo e scomodo divano verde con una bruciatura di sigaretta, e per terra una pelle di qualche fiera, forse una lince. Sulle pareti la vena artistica di mia madre continua a far mostra mediante collage a tema circense, mentre il lettino, identico a quello che ho avuto da piccolo a casa, è bianco con due cassettoni sotto, e con qualche piccolo scaffale accanto.

Esaurendo la visita alla camera e tornando nel corridoio, si incontra un piccolo scaffale con diversi libri, nessuno dei quali ho mai letto ad eccezione di un Millemondi Urania, e, oltre, la camera dei nonni, con un letto matrimoniale e un grosso armadio di legno massiccio. Pur andando raramente in quest’austera camera, ricordo su un comodino una splendida scacchiera di giada.
In fondo al corridoio si trova l’altro bagno, molto ampio, con una lavatrice, bagno e doccia. Al tramonto, essendo la finestra rivolta a ovest, attraverso i vetri smerigliati passa una bellissima luce.

Torniamo alle neglette scale a chiocciola, e inerpichiamoci. Il piano di sopra è mansardato, con un piccolo atrio che funge da separatore ad un’ulteriore stanza da letto e la soffitta. La camera, con due letti, è sempre calda in estate a causa della vicinanza col tetto, ma nelle frizzanti serate estive dell’entroterra ligure un piccolo riscaldamento naturale non disturba. Un poster con un mohai che riceve un raggio dallo spazio accoglie l’assonnato visitatore, mentre quello curioso, che voglia esplorare l’altra ala, non troverà altro che una soffitta piena di cianfrusaglie, fumetti e riviste di tutti i tipi.
Conclude il tour della casa una rapida visita al garage e la cantina, accessibili dall’esterno vicino allo stenditoio ma situati nell’edificio della casa. Associo il colore grigio al garage e quello verde alla cantina, ma non sono sicuro che ci sia una ragione valida.

La casa di Sassello è stata venduta nel 1990 alla famiglia di Baciccia. Le leggende vogliono che sia stata trasformata in una stalla, ma non sono mai più tornato a vederla.

Scripta manent
Pare che la gente abbia bisogno di scrivere. Una volta si diceva che metà degli italiani avessero almeno un racconto o una poesia nel cassetto, e che non pubblicassero un po’ perché si vergognavano e un po’ perché le case editrici investono raramente sugli sconosciuti. Di recente, col fenomeno dei blog, il secondo problema è stato superato e, probabilmente, anche il primo pian piano sta venendo meno. Siamo moderni, siamo spregiudicati, siamo anche un po’ metrosessuali.
Lateralmente a tutto questo c’è un’altra forma di grafomania che mi ha sempre incuriosito: la gente che scrive sui muri. Tralasciamo tutto il fenomeno dei graffitari, che mi interessa poco, e dedichiamoci alle scritte vere e proprie: c’è un campionario di umanità che è un vero tesoro.

C’è il tipo che a Genova, in passato, scriveva "Yngwie Malmsteen è il demonio" in elaboratissimi caratteri gotici (probabilmente usando una sorta di mascherina). Nessuno ha mai capito se fosse un estimatore del truzzissimo chitarrista o un suo nemico.
Recentemente, sempre a Genova, c’è qualcuno che tappezza il centro storico con la faccia di Arnold ("Che cavolo stai dicendo Willis?"). Non riesco ad immaginare che significato simbolico, etico o estetico possa avere questo gesto. Però fa ridere.
Ci sono le scritte politiche, in disuso negli anni passati e ora di nuovo in auge: sintomo dei tempi. Mi piace molto quella che si ammira in Viale Italia a Sesto San Giovanni: "Berlusconi vigliacco se sei convinto di essere innocente fatti processare". Pur essendo un esempio di pensiero lucido nella sua sintesi, mi viene un po’ da ridere a pensare che Berlusconi, passando di lì, possa leggere la scritta e all’improvviso pentirsi e decidere di consentire ai giudici di fare il loro lavoro. Nella stessa via, c’è anche un paleolitico "Basta con la concertazione! Rompiamo il patto sociale!". Evidentemente nella Stalingrado d’Italia i sindaci non hanno fondi da dedicare alla pulizia dei muri.
Ci sono poi coloro che correggono i manifesti in metropolitana. A volte si assiste a qualche colpo di genio, tipo coloro che, a Milano, hanno corretto in diverse copie la locandina di Prova a prendermi in "Prova a prendermi nel culo", il che oggettivamente fa ridere. Sempre nel meneghino capoluogo, c’è un pazzo che lascia il suo giudizio morale sui manifesti un po’ più osè, facendoci sapere che non è bene che le donne mercifichino il proprio corpo e che Dio disapprova che il nostro umore nelle uggiose mattinate lombarde venga rallegrato dalle zinne in esposizione. Questo signore pare si giri un po’ tutta la rete della metropolitana, perché le sue opere non sono limitate a poche stazioni, ma si vedono un po’ ovunque.

E poi quello che per me, ingenuo ragazzotto di provincia, è un mistero, sono i richiami con numero di cellulare del tipo "cazzo lunghissimo Giovanni chiamare 337xxxxxx" o, dal lato del gentil sesso, "Giulia ingoia tutto al 348xxxxxxx". Questi non me li spiego proprio. Innanzitutto, si tratta di professionisti nel ramo o di dilettanti? Nel primo caso, non hanno mezzi migliori per farsi pubblicità, soprattutto correndo il rischio di confondere le idee ai Cicci di Nonna Papera come me? Nel secondo, si pone un altro quesito: la gente mette i propri numeri o quelli di qualcuno a cui vuol fare uno scherzo? Il proprio numero è vagamente plausibile per i maschietti, per il ruolo che la società e le consuetudini assegna loro; ciononostante, se fare lo sbruffone e dire che ho il pisello che mi arriva all’ombelico è tutto sommato normale tra amici, ben più difficile mi risulta comprendere il passo successivo, quell’esibizionismo che porta a vantare prestazioni e misure a tutto il mondo. Cioè, dovrei sperare che qualcuna mi telefoni perché ha letto sul muro che sono un emulo di Rocco Siffredi?
Rimane quindi come soluzione più semplice il fatto che Giovanni, indispettito dal fatto che Giulia la dia a tutti tranne che a lui, decida di scrivere il numero di cellulare di quella zoccola acciocché lei riceva decine e decine di telefonate da maschi allupati. E mettiamo anche il suo attuale moroso, dai, così chiamano lui e scoprono che in effetti non ce l’ha così lungo come dice Giulia. Tutto questo però mi pare tremendamente desolante: la pochezza di alcuni esseri umani mi deprime sempre un po’. Quindi cercherò di autoconvincermi che esiste qualche altra soluzione a quest’abitudine. Ad esempio… uhm… ecco, si tratta di disoccupati che si sono ingegnati per allargare la propria rete di contatti. Bene, ho di nuovo fiducia nell’umanità!

Barze e amenità

C’è un italiano, un francese e un inglese che.

Questo inizio, in cui la concordanza è un po’ zoppicante, costituiva l’incipit della stragrande maggioranza delle barzellette della mia prima infanzia. Il Fantasma Formaggino e i suoi colleghi (quello dalle Mani Sanguinanti, quello dagli Occhi Bianchi, quello da Un Occhio Bianco e Uno Nero…), "e noi ci cagheremo sopra", l’orologio che cade dalla torre sono stati la mia introduzione nel mondo delle barzellette, mondo col quale ho un rapporto estremamente conflittuale.
L’analisi del funzionamento delle storielle è stato già adeguatamente dibattuto da Achille Campanile nel "Trattato delle Barzellette", e spinguinato da Elio e le Storie Tese nella meravigliosa "vendetta del Fantasma Formaggino", quindi in questa sede vi toccherà ascoltare i miei lamenti su questo argomento. Le barzellette sono una mia maledizione: non mi piacciono, non credo di aver mai riso ad alta voce ascoltandone una, raramente mi solleticano anche solo un minimo di divertimento intellettuale. D’altra parte difficilmente le scordo, e ho addirittura anche un certo talento nell’individuare il finale prima che esso venga raccontato. Come se questo non fosse abbastanza, ho problemi anche dal punto di vista opposto: se devo raccontare una barza, l’interrogazione al mio database di storielle fallisce spesso, e, quando le ricordo, il racconto è decisamente scadente, sia per le mie scarse doti di oratore sia per l’abilità di sintesi che mi contraddistingue, che mi fa andare dritto al nocciuolo della battuta tralasciando gli orpelli, che in realtà sono ciò che rende (dovrebbe rendere) le barzellette divertenti.
Tutto questo mi pone in difficoltà quando, in società, è il momento delle barzellette. Di solito in buona fede, mi vengono raccontate per passare un po’ di tempo, o credendo di divertirmi, o magari (il peggio!) per rompere il ghiaccio tra sconosciuti. A metà barzelletta mi rendo conto che o la conosco già oppure so dove va a parare; nella migliore delle ipotesi la barzelletta mi soprende ma non mi diverte. E allora che fare? Dipende sostanzialmente dai rapporti che ho con la persona in questione. Se posso permettermelo, la interrompo a metà o, alla fine, rimango impassibile e chiedo sarcasticamente "e poi come va avanti?". Se invece non posso, per educazione o perché non mi conviene far indispettire l’interlocutore, allora sorrido con cortesia alla fine. Ma non chiedetemi una grassa risata, non fa per me. Per quella ci sono mezzi più semplici ed efficaci.

Coincidenze

“Cosa dice una cassaforte che incontra un’altra cassaforte?” “Che combinazione!”
Groucho, in uno dei primi Dylan Dog (oppure è Death – The high cost of living anche questo?)

Da piccolo avevo una piccola grande passione per le coincidenze. Sentivo qualcosa di potente, forse di sovrannaturale nel fatto che due eventi apparentemente slegati potessero essere messi in relazione. Ricordo la gioia il giorno che ho scoperto che la mia maestra Suor Maddalena era nata lo stesso giorno di mio padre. Ogni volta che iniziavo un libro (il che avveniva spesso, da bambino ero un lettore formidabile), avevo la mania di mettere in relazione la prima e l’ultima frase per trarne chissà qualche portento. Ovviamente non ho mai ottenuto nulla di interessante, se non spoiler su numerosi romanzi.

Crescendo ho smesso di dare significati assurdi alle coincidenze (al contrario di un fesso regista indo-americano, autore del più stupido e brutto film degli ultimi anni), ma non di trovarle divertenti quando si verificano e porre attenzione a eventi del genere.
E, in particolare, c’è un tipo di coincidenza che mi colpisce sempre: quando un avvenimento mai successo si ripete a distanza di breve tempo in modo totalmente slegato o, analogamente, quando recepisco un’informazione precedentemente ignota più volte in un breve arco di tempo da fonti indipendenti. Dato che è un po’ scomodo riferirsi a definizioni del genere e che non esiste una parola per indicare eventi simili, ne conierò una adesso, chiamandoli bieventi.

Un esempio del primo tipo di bievento mi è successo alla fiera di fumetti Cartoomics nel marzo 2004. Lì acquistai sottocosto un volume in inglese di raccolta di storie brevi della Dark Horse. In seguito, sfogliandolo, mi accorsi che vi mancava un sedicesimo per un errore di rilegatura: avendolo pagato una miseria ed essendo composto di raccontini, decisi di fregarmene e di tenerlo lo stesso. Tuttavia, pur sapendo che sono cose che succedono, era la prima volta che mi accadeva nella mia carriera di collezionista di fumetti (oltre 4200 pezzi). La sera stessa, tornando a casa, acquistai in edicola il numero 6 del fumetto Storia del West di Gino D’Antonio. Arrivato a casa, sfogliandolo, mi accorsi che mancava un sedicesimo anche a quello!
Un altro esempio meno particolare e sicuramente più comune è quando non incontriamo una persona per anni e poi, all’improvviso, ci compare davanti per caso a breve distanza due volte.
Esempi del secondo tipo, quello sulla coincidenza, sono ancora più comuni. Quello che mi piace ricordare riguarda me, circa dodicenne, che, a casa di mia nonna sfoglio la rivista “Oggi” e apprendo di una specie di ballo sudamericano chiamato Bossa Nova, mai sentito nominare in precedenza. Poco dopo, la televisione annuncia “E ora sentiremo un pezzo di Bossa Nova!”.
Ovviamente questi sono esemplificazioni. Fateci caso, capitano abbastanza spesso, almeno una volta ogni 10-20 giorni si presenta un bievento.

Il secondo tipo di bievento ha una spiegazione piuttosto semplice: quando viene recepita un’informazione nuova è più facile che un’eventuale ripetizione della stessa conoscenza ci colpisca di più, laddove in altre circostanze sarebbe totalmente ignorata. E’ possibilissimo che in TV ci fosse un ciclo di Bossa Nova che andava avanti da un mese e io non avevo mai fatto caso a questo dato! Oppure, l’indipendenza delle fonti non è così forte come appare: non è da escludere che intorno a metà degli anni ’80 per un breve periodo la Bossa Nova fosse di moda e se ne parlasse abbastanza in diversi media.
Il primo tipo invece, essendo indipendente dalle facoltà di percezione, secondo me necessita di una spiegazione più articolata basata sulle leggi della probabilità: si tratta di una versione del paradosso del compleanno.
Qual è la probabilità che, in una stanza di venti persone, due di esse compiano gli anni lo stesso giorno? In modo totalmente controintuitivo, è intorno al 50%. Se ci pensate, tra le vostre classi delle elementari, medie e superiori, è molto probabile che ci siano dei compleanni coincidenti: per quanto mi riguarda, Alessandro M. e Cesare R., nelle elementari, avevano il compleanno il 26 giugno (e si facevano guerra per fare feste). Questa probabilità così alta è dovuta al fatto che è lasciata libera la variabile del giorno: estremamente minore sarebbe la probabilità che due persone compiano gli anni in un determinato giorno.
Questo è quello che accade per i bieventi: tra tutte le cose che ci succedono ogni giorno, lasciando libera la variabile del tipo di evento, la probabilità che succeda qualcosa di nuovo due volte non è così bassa. Fissando invece un determinato evento le probabilità diventano minime: credo che non mi capiterà mai più di reincontrare due sedicesimi mancanti lo stesso giorno!

Ok, più di una persona mi ha detto che penso troppo e vivo troppo poco…forse hanno ragione!

Update : il nuovo nome per il bievento è ringiorgino.

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