E ora, per la gioia dei grandi e dei piccini, svelo uno dei grandi misteri che le logge massoniche riservano solo agli iniziati delle cerchie più interne: come vincere ad Ambarabacicicocò. Tralasciando l’analisi delle sordide storie di zoofilia sottese al testo che già Claudio Bisio ha spinguinato, osserviamo la struttura di questa conta.
Essa, come tutte le altre, prevede che si segua il ritmo della filastrocca, facendo un "passaggio" ad ogni sillaba. La filastrocca è costituita da 46 sillabe:
Ambarabacicicocò (8)
tre civette sul comò (7)
che facevano l’amore (8)
con la figlia del dottore (8)
il dottore si ammalò (7)
ambarabacicicocò (8)
Quindi, se si è in due "starà sotto" la persona che fa la conta, se in tre quello successivo, se in quattro quello ancora dopo e così via. Ecco uno schema fino a 10 persone:
Persone | Posizione |
2 | 0 |
3 | 1 |
4 | 2 |
5 | 1 |
6 | 4 |
7 | 4 |
8 | 6 |
9 | 1 |
10 | 6 |
Se non si può contare oppure ci sono abbastanza persone da avere il dubbio che possano essere esattamente 23, si può porre un pochino di attenzione in più e notare che 41 e 43 sono numeri primi: questo implica che mettersi nella terza o nella quinta posizione è praticamente sicuro ( * ), a meno di non avere più di quaranta amici. In tal caso, comunque, siete abbastanza popolari da poter affrontare l’onta di stare sotto.
Sempre nel caso che ci siano diverse persone ma non si sappia di preciso quante, sono da evitare la prima, la quarta e la sesta posizione: 40,42 e 45 hanno molti divisori.
Se si è in due e si è obbligati a fare la conta, allora bisogna giocare un po’ sporco. Suggerisco tre trucchi:
1) iniziare a contare da se stessi invece che dal proprio "avversario"
2) far diventare 47 o 49 le sillabe presenti. Lo si può fare comprimendo due sillabe in una da qualche parte (viene bene sul "tre ci" che sono già abbastanza legate) o eliminando il dittongo su "si ammalò", trasformandolo in uno iato e portando quindi a quattro sillabe invece che tre il complesso di quelle due parole. Aggiungere un ulteriore "cò" alla fine non funziona.
3) stabilire arbitrariamente che chi è colpito dall’ultimo "cò" è colui che vince e non colui che perde.
Tutto questo è applicabile ad altre conte, basta sapere il numero di sillabe che le compongono. Ad esempio, la filastrocca su Pierin stitico e il solito dottore perverso ha 42 sillabe. Mettetevi per quinti o contate solo se siete in meno di sei.
Supponendo che dopo un’eliminazione si proceda con la persona seguente, non è banale trovare una formula generale (o magari lo è per chi ha preso più di 20 dell’esame di Algebra o l’ha studiata un po’ più di recente di me). Esaminiamo alcuni casi semplici, e poi vediamo come ricondursi ad essi per i casi più complessi.
In due, la situazione è identica al caso banale. Vince chi fa la conta.
Per il seguito stabiliamo una convenzione: i giocatori vengono denominati A, B, C e così via, corrispondenti alla loro posizione iniziale (A = 0, B =1 etc.). Nel proseguire del gioco, la loro posizione varierà,ma il loro nome (ovviamente) rimarrà costante.
In tre si parte da questa situazione:
Posizione | 0 | 1 | 2 |
Giocatore | A | B | C |
Essendo 46 mod 3 = 1, viene eliminato il giocatore B, e la conta riparte da C. Ci si ritrova quindi nel caso
Posizione | 0 | 1 |
Giocatore | A | C |
E vince di nuovo A.
In quattro la situazione iniziale è questa:
Posizione | 0 | 1 | 2 | 3 |
Giocatore | A | B | C | D |
46 mod 4 = 2, viene quindi eliminato C. Attenzione, ora la conta riparte da D, quindi la situazione è la seguente:
Posizione | 0 | 1 | 2 |
Giocatore | B | D | A |
E, visto il caso precedente, vince chi è nella posizione 0, cioè B.
…e così via. Sostanzialmente si può operare per induzione e costruire ogni passo basandosi sul precedente. Proabilmente esiste una tecnica generalizzata più efficace ma temo che sia al di sopra delle mie possibilità. Se qualcuno ha voglia di approfondire, è il benvenuto. Per quanto mi riguarda, penso di aver dedicato abbastanza tempo ad ambarabacicicocò.
Postilla: Carlo C.mi fa correttamente notare che qualcuno usa suddividere il primo e l’ultimo verso in "am-bara-ba-ci-ci-co-co". Tale ipotesi è supportata dal fatto che così ogni riga risulta un verso ottonario, e in effetti non mi suona male una divisione simile, anche se personalmente preferisco la mia ipotesi. Accettando questa versione, il numero di sillabe della conta è 44: tutti i ragionamenti sopra esposti rimangono validi ma vanno rifatti i conti.
( * ) Dimostrazione: se n è il numero di persone che giocano e k è la posizione, vale 46 mod n = k. Questo implica che esiste a tale che a * n + k = 46, dove a è il numero di giri che si percorrono nella conta, e quindi a * n = 46-k.
Quando 46-k (nello specifico, k=3 o k=5) è primo allora a (che rappresenta il numero di giri che si percorrono nella conta) può essere solo 43/45 e n = 1 (cioè si gioca da soli!) oppure n=43/45 e a =1 (tanti giocatori, poco più di un giro).
Di recente, per colpa di Trondheim ma non solo, ho iniziato a studiare francese. Mi sarebbe piaciuto seguire un corso vero, ma i miei impegni sono un po’ troppo stringenti per potermi permettere due sere a settimana o giù di lì da dedicare ad uno sfizio come questo. Quindi, da inguaribile presuntuoso che sono, ho deciso di fare da solo: mi sono recato in libreria e ho acquistato un corso. Iniziando con pazienza e dedizione lo studio, mi sono ritrovato in un mondo che era dai tempi dei primi anni del liceo che non affrontavo più: quello dei corsi di lingua.
Trovo adorabile la demenza dei dialoghi dei corsi di lingua staccati dal loro contesto, se osservati come se fossero una sceneggiatura e non lezioni. Ci sono sempre alcuni personaggi assurdi che iniziano parlando come dei deficienti delle cose più stupide scandendo le parole e poi, per coincidenze misteriose, si trovano ad affrontare situazioni che richiedono discorsi più complessi che vengono sciorinati con parlantina più naturale. Un po’ come se, nell’Amleto, il protagonista dovesse aspettare che i suoi spettatori abbiano imparato il verbo essere e relativa negazione per poter declamare il famoso monologo.
Nei dialoghi che ho affrontato succede che a Strasburgo ci sono un italiano trapiantato all’estero, un certo Mario (Mariò, mi raccomando) che est clarinettiste. Questo figuro,rappresentato come un panzone con gli occhiali, sta con una certa Claire, una francese magra e col naso a punta, che fa l’insegnante di musica. Un giorno (precisamente nella Lesson 1) vanno al Festival de la musique della loro città. Quel giorno cambierà la loro vita. Vedono infatti la segretaria di Claire, una franco-irlandese di nome Fiona, che canta. Oh, elle chante très bien! Ed è una sana ragazzona coi capelli rossi con due belle chiappone! Altro che quella francesina scassapalle tutta ossa! I tre vanno a bere una bière e mangiare une croque-monsieur e qualche giorno dopo Fiona invita i nostri eroi a casa sua, per fêter. Fiona sta in Rue de la Republique, ovviamente ad un numero semplice, il cinque: d’altra parte è la prima lezione sui numeri, quelli complicati devono ancora arrivare.
Fiona offre da bere champagne e poi spara la bomba: ha deciso di aprire una scuola di musica, forte delle sue skill di segretaria e di canto dilettantistico. E, guarda un po’, ha deciso che Mario diventerà professeur di clarinetto e Claire, chissà perché, di batteria. I due, probabilmente ubriachi marci, ovviamente accettano senza esitare.
Cambio di scena: si avvicina l’anniversario di Mario e Claire. Mario va a comprare un gâteau forêt noir. La vendeuse gli fa notare che quella piccola è per sei, quella grande per dodici: forse per due persone è meglio un baba au rhum. Ma quel maledetto panzone italiano pizzaspaghettimandolino se la prende tutta e probabilmente se la magna da solo. Claire in qualche modo se la prende per il regalo peloso, e decide di vendicarsi: nella Lesson 8 lo benda e lo porta a fare un giro in macchina…à Paris! E che andiamo a fare a Parigi? Suprise! Probabilmente Mario spera di trovare là Fiona nuda sulla Torre Eiffel pronta per un giochino a tre, ma temo che le sue speranze saranno deluse. Lo scoprirò nella prossima lezione.
Ho un’altra insana passione: i negozi di giocattoli. Questo mio piccolo chiodo fisso non è molto noto nemmeno tra le persone che mi sono più vicine, però osservandomi con attenzione si può vedere che, quando cammino per strada, mi è molto difficile passare di fronte ad una vetrina piena di balocchi e non fermarmi incantato a guardare cosa ha da offrire. Inoltre, quando devo fare un regalo a qualcuno, considero sempre la possibilità di fare una capatina al Paradiso dei bimbi (uno dei migliori negozi di Genova) e tirar fuori qualcosa di appropriato o meno.
Quello che stupisce è che, tutto sommato, i giocattoli di per sè non mi piacciono così tanto. Ad eccezione di qualche Lego come soprammobile, non posseggo personalmente nessun tipo di gioco, nemmeno di società o videogiochi o collectibles. Eppure, anche se non ho figli nè nipotini nè cuginetti a portata di mano, sono abbastanza informato su quello che va di moda per i bambini, maschi e femmine: Bratz e Yu-Gi-Oh non hanno segreti per me, e mi ha sorpreso il ritorno di fiamma dei Tamagotchi di qualche mese fa.
Non tutti i negozi di giocattoli sono uguali, tuttavia: forse sono io che ho particolare sensibilità su questo argomento, ma trovo che la passione del proprietario sia particolarmente evidente; esistono cioè negozi di giocattoli in cui lo scopo è di vendere agli adulti, altri invece in cui lo scopo è di vendere ai bambini. Esemplare è il rapporto tra i due mega-store di New York: Toys’R’us e FAO Schwarz. Il primo, pur essendo un bel posto e offrendo una scelta assai più ampia a prezzi migliori, non possiede una frazione del fascino e della magia del secondo. E, ovviamente, Toys’R’Us prospera e FAO è a rischio di chiusura. O tempora, o mores!
Probabilmente la ragione di questa mia mania deriva, come al solito, dall’ennesimo trauma infantile. I miei genitori non mi hanno fatto mai mancare niente, tranne i giocattoli. Ne avevo alcuni, certo, ma molti meno di quanti ne avrei desiderati e di quanti ne avessero i miei compagni di scuola: ricordo ancora l’umiliazione di quando scoprii che ero l’unico bambino nella classe a non possedere un Master of the Universe. A posteriori, devo dire che la mia famiglia, agendo in tal modo, ha stimolato di più la mia fantasia per usare quei cento pezzi di Lego, quelle cinque macchinine, quei due Playmobil, quel Big Jim e quel Micronauta che avevo. Però magari qualcosina in più poteva starci, suvvia!
Mi cullo con l’idea che prima o poi ne aprirò uno tutto per me, ma tutto sommato non credo che succederà mai. Non sono abbastanza intraprendente per fare l’imprenditore, ed inoltre in famiglia abbiamo già avuto un negozio e so quanto sia rischioso e faticoso tenerne uno. Infine, ho paura che fare di questa passione un lavoro sminuisca la purezza della gioia di avere a che fare coi giocattoli. E se c’è una cosa che non voglio perdere, è il luccichio negli occhi che mi si accende quando scorgo le Barbie e gli Spider-Man in mezzo a noiose vetrine di vestiti e di orologi.
1) Sii nero. E’ divertente.
2) Sposati senza timori, dopo vent’anni di matrimonio è normale essere innamorati come il primo giorno.
3) Se sei una ragazza adolescente, puoi scegliere se essere bella e scema oppure una secchiona apparentemente brutta ma in realtà ricca di sensualità nascosta. Non hai altre possibilità.
4) Se sei un ragazzo teenager, devi essere uno scavezzacollo. Non hai altre possibilità.
5) Tre figli è proprio il minimo. Rassegnati.
6) Un progetto di scienze che non sia un modello di un vulcano o del sistema solare è il miglior coronamento di una carriera scolastica.
7) Ai genitori si dice tutto. Intanto, se non glielo dici lo scoprono.
8) Dato che l’unica punizione possibile è farsi rinchiudere in casa, premurati di avere un albero davanti alla finestra per poter uscire.
9) E’ una buona idea avere degli amici con nomi assurdi tipo Scarafaggio, Stinky, Six o Potsie. I loro fallimenti faranno rifulgere i tuoi successi.
10) La cosa più importante: dopo aver detto una battuta, fai una pausa rimanendo immobile. La gente deve avere il tempo di capirla e di ridere
Sono mediamente soddisfatto del mio lavoro di informatico. In tempi come questi già poter contare su uno stipendio abbastanza sicuro non è poco, e comunque sono nelle vicinanze delle cose che mi piacciono. Su molte cose si può (anzi, si deve) migliorare, ma tiro un sospiro di sollievo quando penso alla gente che certi lavori. Ecco la mia top5 dei lavori che farei solo se costretto dalla fame.
1)l’omino che vende i biglietti nella metropolitana di Milano presso la fermata Stazione Centrale. C’è sempre una fila lunghissima di imbecilli che chissà perché non prendono il biglietto nelle edicole in superficie o dalle macchinette automatiche. Questo signore passa la giornata a dare un biglietto in cambio di un euro, senza vedere mai la luce del sole, con vicino i drogati che chiedono spiccioli, senza la possibilità di conoscere i tuoi interlocutori e senza brividi maggiori di quelli che chiedono un biglietto per Sesto o di coloro che pagano con un biglietto da cinquanta.
2)la guardia giurata. Non solo non succede mai niente, non solo devi essere sempre pronto nel caso succeda qualcosa, ma devi anche sperare che non succeda niente. Questa specie di Deserto dei Tartari all’incontrario mi pare la negazione più totale di ogni stimolo all’amore per il proprio lavoro.
3)l’autista di mezzi pubblici urbani. Sarà che non amo guidare i mezzi a più di due ruote, sarà che detesto il traffico, sarà che comunque per me il senso di un viaggio è di andare da un posto all’altro e arrivare il prima possibile, ma passare le giornate su mezzi grossi e lenti in mezzo al traffico mi pare orribile. Più tollerabile è fare il camionista, almeno vedi posti diversi e te la smenazzi di meno con semafori e code.
4)il lavascale. A nessuno piace molto fare pulizie in casa, ma ognuno ha un lavoro che destesta più degli altri. Per quanto mi riguarda, si tratta di pulire i pavimenti: scopare e poi lavare per terra. Fare di questa incombenza un mestiere, per di più andando su e giù per le scale, mi risulterebbe decisamente fastidioso. Beh, almeno a furia di fare step avrei delle belle chiappette sode.
5)il vigile urbano. Stare in mezzo al traffico tutto il giorno e respirare gas di scarico nonché rischiare di esser travolto già è poco bello, ma quando a questo si aggiunge che tutti ti odiano c’è da rendere poco invidiabile il mestiere. E non si tratta solo di multe, ma anche del luogo comune (vero? falso? chissà!) per cui "quando c’è un vigile ad un incrocio, il traffico peggiora".
La penso divertamente sui lavori propriamente detti "manuali": facchini, contadini, muratori eccetera. Non mi sono mai occupato di attività del genere, ma ne nutro un enorme rispetto. Non so se possano dare soddisfazione, ma ogni volta che vedo gente sgobbare penso che il vero lavoro sia solo il loro, mentre le cose che faccio io non sono altro che cazzate. E un pochino li invidio…
E’ normale che a uno non abbia interesse ad andare a teatro, o che non gli freghi niente dell’architettura, o che non legga fumetti. Chi poi non guarda la tv è addirittura guardato con ammirazione, mentre meno comune è chi afferma di non andare al cinema; assai più frequenti ma considerati riprovevoli sono coloro che non leggono libri. Insomma, più o meno tutte le forme di arte e di espressioni hanno i loro detrattori.
Eppure, quando asserisco che non mi piace la musica vengo sempre guardato come un deficiente.
-Ma come, la musica è la colonna sonora della nostra esistenza!
-Ma come, è la forma d’arte che più spazia dal popolare al colto, ce n’è per tutti i gusti!
-Ma come, tu che apprezzi la matematica come puoi non vedere la bellezza della musica anche dal punto di vista delle simmetrie e le regolarità che offre?
Sì, ma…per capire, sarete senz’altro lieti di ascoltare
La storia di Luca XX in relazione alla musica
Da sbarbatello, diciamo fino ai 13 anni, passivamente accettavo quello che si sentiva in giro. Ho persino acquistato qualche "cassetta" (ai tempi i cd non esistevano nemmeno) di Vasco Rossi, di Madonna, di qualche compilation di hits. Ma c’era poco interesse.
Nella mia adolescenza, poi, è comparsa un personaggio molto importante per me. Era un ragazzo di Acqui Terme, che frequentavo nelle mie estati a Sassello. Tornerò prima o poi sulla figura di Marco Pesce e sulle influenze che ha avuto sul Luchino ragazzino, ma per ora basti pensare che è riuscito a trasmettermi, per qualche anno, la passione per la musica. L’ho un po’ pedissequamente seguito per qualche anno nelle sue peregrinazioni, e l’impronta che lasciava era molto marcata. Si è iniziato con gli Iron Maiden (una delle poche cose che ascolto ancora volentieri), per poi deviare poi sui gruppi satelliti come gli Helloween, indi sul trash metal (Metallica, Megadeth, Slayer…) e approdare infine al punk-hardcore. Gruppi come Dead Kennedys, Negazione, Peggio Punx e tanti altri sfigati minori di cui ho comprato solo io il disco allietavano le mie giornate e alimentavano il mio spleen adolescenziale. I gloriosi anni ’80 della scena hardcore italiana stavano finendo e "100%" dei Negazione ne sono stati il canto del cigno. Stava iniziando la stagione delle posse, delle quali però non sono mai stato un grosso estimatore. Certo, non avevo proprio una mente aperta: mi piacevano certi generi e solo quelli.
Finito il liceo, per ragioni varie ho smesso di frequentare Marco e per la ragione di laurearmi ho iniziato l’università. Lontano dalla provincia, nel mondo nuovo della città, ho conosciuto diverse persone interessanti con cui ho allargato i miei orizzonti musicali. Via libera al grunge (persino io mi vestivo con quei ridicoli camicioni da boscaiolo!) e al crossover, un po’ di grindcore e persino qualche cosa di un po’ meno "rumoroso" (Pink Floyd, Oasis). E mi informavo, leggevo riviste, andavo ai concerti, analizzavo i testi, ascoltavo trasmissioni selezionate alla radio (il buon glorioso Planet Rock!). Diciamo che, ai tempi, la musica era la forma d’arte che più amavo. Tuttavia, per gli impegni di studio che prendevo probabilmente troppo sul serio, mi è sempre mancata l’occasione di iniziare a suonare. Questo è stato probabilmente critico.
Infatti, poi, qualcosa è cambiato. C’è stata un’esperienza disastrosa nel 1997, quando, durante una vacanza in barca con amici, sono stato costretto ad ascoltare musica (e soprattutto jazz) per tutto il giorno, cosa che mi ha insegnato a detestare ferocemente il jazz e ad apprezzare il silenzio. Ci sono state due nuove passioni, per i fumetti e il cinema d’animazione, che hanno focalizzato la mia attenzione e le mie finanze. In quel periodo più otaku della mia esistenza praticamente sentivo solo colonne sonore di cartoni animati. E, soprattutto, in qualche modo, ho cambiato il mio rapporto con l’arte in generale.
Forse è una come conseguenza dei miei studi fortemente basati sulla matematica, ma stento ad apprezzare qualcosa in modo puramente emozionale. Devo capire cosa c’è che mi piace, smontarlo nei suoi meccanismi, analizzare quello che c’è e quello che avrebbe potuto esserci al suo posto. Questo non mi impedisce di godermi le emozioni più forti, ma ho un approccio troppo analitico alla vita per potermi semplicemente rilassare e dire "bello. Non so perché ma bello". Ma per procedere in questo senso è fondamentale essere forniti di un bagaglio di strumenti critici che non è proprio gratuito. Per la letteratura ci ha pensato la scuola, per il cinema e i fumetti sono stato un autodidatta sistematico e tutto sommato efficace (credo!), per le arti figurative mi sto attrezzando solo di recente. Non dico che sono un critico di professione, ci mancherebbe, ma l’approccio che mi piace è questo.
Ma la musica è un discorso a parte. La mia ignoranza è abissale. Sono stato deriso da un istruttore di palestra (categoria che non fa della cultura la propria bandiera, per dirla con un eufemismo) perché mi era sconosciuto il concetto di "battuta":
-Non senti la musica? Devi iniziare l’esercizio quando inizia la battuta!
-Guh?
L’educazione musicale alle scuole medie è stata quasi nulla. Sì, ero tra i migliori della classe a suonare il flauto dolce, ricordo la differenza tra una semicroma e una semibreve, ma non è nulla che mi venga utile. Ho provato a leggere qualche libro, ma li ho trovati terribilmente noiosi, perché la musica teorica è insopportabilmente tediosa, se non supportata dallo smanettamento di qualche strumento. E siccome il mio amore per la musica è scemato non trovo stimoli abbastanza forti per iniziare a suonare uno strumento, col tempo e la costanza che richiede: un piccolo circolo vizioso, a ben vedere. Mi ritrovo così a non essere in grado di giudicare un musicista (a parte gente particolarmente incapace) e, cosa che mi cruccia parecchio, a non saper fornire giustificazioni al fatto che un determinato pezzo mi piaccia. E questo per me è devastante, mi toglie completamente il piacere e, di conseguenza, la volontà di ascoltare musica.
E cosa è rimasto dopo la crisi di fine millennio? Poco. Ho deviato parzialmente verso i cantautori italiani per rifugiarmi almeno nei testi. Fabrizio De Andrè, soprattutto, ha una sensibilità molto vicina alla mia, ma a tratti scopro cose interessanti pure in Giorgio Gaber, in Lucio Battisti, in Rino Gaetano, in Francesco Guccini. Ho la curiosità di provare ad affrontare l’opera lirica, per ragioni simili. Inoltre mentre guido in zone con troppe gallerie per poter sentire la radio o quando faccio attività fisica tornano ogni tanto i vecchi amori, ma sempre gli stessi. Nel mio lettore mp3 adesso ho il primo disco degli Iron Maiden, le canzoni di Creamy e Il viaggio di De Andrè. Un buon riassunto delle stagioni che ho attraversato.
Ogni tanto mi cullo con l’idea che quando avrò più tempo, magari da pensionato, inizierò a studiare uno strumento (uno a fiato, ad occhio, il clarinetto o il flauto traverso), ma in fondo in fondo so che non è vero. Oh, non si può mica sapere tutto di tutto!