La storia è ancora abbastanza controversa. In Francia nel 2005 diventa molto popolare un blog, chiamato Frantico . Lo stile di disegno, la sottile misantropia e l’attenzione a certi temi ricordano alcune opere del genio di Lewis Trondheim , particolarmente le sue opere più personali e autobiografiche, e molti non tardano a notarlo. Ma è proprio lui? Le conferme e le smentite si accavallano, fino a quando Trondheim stesso ritira un premio a nome di Frantico al festival di Angouleme. È la risposta definitiva? No! Trondheim e i suoi amici si divertono ancora ad alimentare il mistero con dichiarazioni contraddittorie, e ad oggi non è ancora ufficiale chi sia veramente Frantico. Qua c’è un articolo che riassume esaustivamente la vicenda.
Ma la cosa è importante? In realtà non troppo: tra qualche anno magari si dibatterà ancora come si discute tuttora sull’identitità dell’autore delle opere di Shakespeare o di Omero. Quello che mi sento abbastanza sicuro di garantire è che si tratta di un fake.
Il blog di Frantico narra sei mesi di vita di un giovane fumettista/illustratore single di Parigi, da capodanno a fine maggio 2005. La struttura è su base quotidiana: ogni giorno in due o tre tavole Frantico racconta quello che gli succede o esprime qualche riflessione. Un po’ come fanno tutti i blogger, certo, ma quello che insospettisce è la qualità del disegno e delle trovate: l’impressione è che si tratti di un autore che attinge ad un repertorio già da lungo tempo meditato ed accumulato e si limiti a pubblicarlo in forma quotidiana. Inoltre 2/3 tavole a colori al giorno sono davvero tante per chi non sia un professionista e non conti fin dall’inizio di ricavare un ritorno economico da questa mole di lavoro. Il fatto che nella prima metà del 2005 Trondheim abbia pubblicato poco o niente è un ulteriore indizio a favore della tesi del complotto.
Ma il punto chiave è un altro: i cinque mesi di vita narrati sono sospettosamente troppo intensi e hanno chiaramente una struttura romanzesca. Chi è Frantico e cosa gli succede? Il primo gennaio 2005 l’autore, non ancora blogger, racconta di un disastroso capodanno in cui non conosce nessuno e finisce per stare male. I giorni seguenti delinea la propria esistenza e il proprio carattere: un lavoro di illustratore che non ama moltissimo ma che rende mediamente bene, sogni di diventare un fumettista, poche amicizie, nessun contatto femminile e un conseguente chiodo fisso per il sesso e la masturbazione. Questo tema è probabilmente il fulcro di Frantico: l’11 gennaio il protagonista fa la cernita delle donne con cui ha qualche possibilità: la panettiera gentile, la cassiera del supermercato, l’insegnante di inglese di un suo collega, sua cognata. E basta: sono tutte donne con cui non è nemmeno amico e di cui magari non sa nemmeno il nome! E allora, presa confidenza col blog, Frantico parla spesso e volentieri della sua abitudine di se banler, che potremmo tradurre con "pasticciarsi": il suo rapporto con la masturbazione è tutto sommato abbastanza sereno, anche se ogni tanto si affaccia un ancestrale, cattolico, senso di colpa. In seguito un paio di relazioni sessuali nonché le sue fantasie più nascoste verranno disegnate e narrate in maniera molto esplicita, praticamente pornografica . Personalmente trovo molto affascinante il fatto che in un fumetto non dichiaratamente porno ci siano delle scene di sesso così forti; nel cinema è quasi impossibile che accada, per evidente scarsa disponibilità degli attori di impegnarsi a fare del dolce su e giù davanti alla macchina da presa. [1] A dirla tutta il tema del sesso forse è narrato semplicemente in modo più naturale e spontaneo del solito. Un terzo delle strisce direttamente o indirettamente parlano di mussa, e forse è vero che un terzo dei pensieri degli uomini sono dedicati all’argomento. Lo stesso autore risponde in una tavola ad una sua lettrice che gli rimprovera di parlare troppo dell’argomento che lei stessa nota solo quelle tavole e trascura le altre. Caratteristici del blog, inoltre, sono i dialoghi che il protagonista ha con la sua cattiva coscienza e il suo istinto, rappresentati rispettivamente come un enorme gatto e un selvaggio primitivo. Un po’ come fa Eriadan, ma con una dose di cattiveria e di violenza che sono sconosciute al blogger italiano.
Quando il blog inizia a decollare e Frantico diventa un personaggio relativamente famoso, la sua relazione col blog inizia a essere autoreferente. Se da un lato è grato a questo mezzo che gli ha fatto avere celebrità e soldi, dall’altro si rende conto di come i suoi rapporti personali possano essere influenzati dal fatto che la sua vita venga narrata pubblicamente. Questo è il secondo grande tema dell’opera: come la celebrità e la propria vita resa pubblica si intersechino con la vita stessa; in qualche modo, questo è anche uno dei temi forti del successo dei blog, dell’esibizionismo che più o meno esplicitamente è loro sotteso. Secondariamente, è un tema che Trondheim ha abbastanza a cuore, come si può capire leggendo le sue opere autobiografiche o il recente Célébritiz.
Frantico viene pubblicato con buon successo e l’autore è invitato in Corea ad una convention di bloggers da tutto il mondo. Lì il nostro piccolo grande eroe, in procinto di trovare il vero amore, interrompe le sue pubblicazioni, continuate solo a distanza di mesi con qualche tavola extra.
È questa parabola l’indizio più forte a favore del fatto che si tratta di un progetto costruito: troppe cose succedono a Frantico in questi pochi mesi, un’eccessiva densità di avventure per una persona che si dipinge come uno qualunque. Inoltre il finale tronco è in realtà un finale vero e proprio che testimonia la compiutezza del progetto: un vero blog si spegne poco a poco man mano che l’autore diminuisce le sue idee e la voglia di dedicarci tempo, mai all’improvviso quando è all’apice del suo successo.
Chi ora volesse visitare il sito si troverebbe di fronte alla foto di un dolce in una boulangerie con un evidente errore di ortografia nel cartellino. È una gag ricorrente particolarmente spassosa…non rovinerò la sorpresa raccontandovela, godetevela leggendola insieme al resto del miglior blog a fumetti del mondo. Insieme a questo , ovviamente.
[1] C’è comunque qualche rara eccezione. Il film Intimacy – nell’intimità di Patrice Chéreau è piuttosto esplicito (però decisamente noioso!), e nel film The Brown Bunny , Chloe Sevigny, che ha lavorato tra gli altri per Woody Allen, spompina allegramente il regista/protagonista Vincent Gallo per diversi minuti.
La storia del fumetto ogni tanto reca delle sorprese a chi, come me, è curioso di espandere le proprie conoscenze ma è abissalmente ignorante in alcuni aspetti di essa. È stato così che all’ultimo Lucca Comics, spulciando in un negozietto di roba vecchia, mi sono imbattuto in Teddy Bob, attratto dalla dicitura "Il fumetto giovane". Non ho resistito e ho dovuto comprarlo, per fortuna ad un prezzo ragionevole.
Teddy Bob è una collana tascabile quattordicinale. Il numero in mio possesso è il 48 del 6 agosto 1968, ed ha grossomodo il formato di Diabolik, Alan Ford o dei pornazzi di Barbieri. A differenza di questi titoli ha una struttura della tavola più audace, osando spesso andare oltre le due vignette canoniche (una sopra e una sotto), anche se i disegni non sono nulla di particolare. Meno innovativa è la struttura narrativa, palesemente autoconclusiva basandosi su schemi piuttosto ripetitivi e "rodati". Avendo letto un solo numero ovviamente non posso garantirlo, ma mi pare palese che il meccanismo sia "un amico di Teddy Bob ha dei guai e Teddy li risolve nonostante i matusa". Nessuna traccia dei nomi degli autori, come era prassi a quei tempi. Fin qui nulla di particolare, il fumetto popolare negli anni ’60 offre molti titoli con caratteristiche simili.
Quello che rende la lettura di Teddy Bob veramente un’esperienza indispensabile è il fatto che Teddy Bob è un fumetto giovane, e parla come parlano i giovani d’oggi (vabbè, di quarant’anni fa, ma è lo stesso!). Purtroppo, visto che ogni tanto l’albo può cadere nella mani di qualche matusa o di qualche giovane non giovane, il linguaggio dei giovani viene regolarmente tradotto con alcune note. Facciamo qualche esempio:
– Dentiere[1], Ric Stuart. Dove angelo[2] ti eri cacciato?
– A sudare [3] in una scuderia, Bob!
con le relative note: [1] sorrisi [2] diavolo [3] lavorare
O ancora:
-E’ la figlia del padrone del più bel bisteccone[1] del melone[2]
[1] cavallo [2]mondo
Si intuisce subito che il linguaggio dei presunti giovani è tutto fatto di semplici metafore, piccole metonimie, ovvie iperboli, qualche azzardata ironia. E’ altrettanto palese che nessun giovane ha mai parlato in modo tanto demente, ma è divertente pensarlo.
Lascio per esercizio al lettore di tradurre le seguenti frasi:
– Me ne infischierò dei prepotenti. Sono pronto a guantarli.
– Sono Pasqua per Ric.
– Andiamo a dare una farata nei dintorni.
e il più difficile ma molto sapido:
– Adesso vi faccio assaggiare il mio supersgropp.
Molto interessanti anche le rubriche, in cui Teddy Bob in persona (proprio lui!) risponde ai lettori. Ad esempio dice a Riera Luis di Milano: "Anche per te, dentiere gigantesche! Il tuo annuncio lo passo subito alla rubrica "Hobby". Perché è giusto che tutti i miei amici debbano far crepare la cristantemia!" o a Franco Cicorelli di Montescaglioso :"Benvenuta nel clan, sbarbina! Non occorre essere strani per entrare nel mio baraccone: basta essere giovani e pensare come i giovani", che mi dà un po’ i brividi (anche perché la sbarbina di nome Franco non è una bella immagine). Il povero Fabrizio Polonia di Torino si sente solo: "Mi spiace sapervi cani, ma vedrete che qualcuno vi scriverà. E nelle ore di libera uscita, potete andare a scimmiare e fare qualsiasi cosa per ammazzare la crisantemia!". Sarebbe bello rintracciare queste persone per poterle ricattare: francamente, è assai difficile capire se tutto questo fosse ironico o se si prendessero sul serio. Dal tenore delle lettere più che dal fumetto, temo che la seconda ipotesi sia più probabile. Quindi, giovani d’oggi, prendete appunti: per salvare questo marcio melone dalla cristantemia, non abbiate rotta e andate a scimmiare col vostro baraccone!
Dentiere al neon.
Beh, in realtà non voglio proprio raccontare tutto quello che ho visto, nemmeno con una precisione paragonabile a quella del resoconto su Annecy. Mi limito semplicemente a divagare su alcuni aspetti delle visioni genzanesche. Dato che i corti sono più o meno gli stessi di Annecy e non ho trovato abbastanza ispirazione nelle produzioni italiane da dedicare dei commenti (non son così male, suvvia!), parlerò soprattutto alle retrospettive.
Paul Bush
Uno degli ospiti è stato Paul Bush, a cui è stato dedicata una retrospettiva pressoché completa. Questo signore è uno sperimentatore, un avanguardista: sostanzialmente le tecniche con cui ci è cimentato sono due, l’incisione diretta su pellicola e la pixilation. Quello tuttavia che c’è di interessante è che queste due tecniche, normalmente rilegate a piccoli esperimenti "per vedere cosa succede", raggiungono un dignità che va oltre la pura avanguardia.
Pare incredibile, ma la versione della Divina Commedia in incisione su pellicola è piacevole (anche se non ricordavo che Dante avesse messo delle esplosioni atomiche, ma pazienza…) e quella della Rime of the Ancient Mariner è evocativa. Si tratta praticamente della versione moderna e animata delle incisioni che una volta adornavano i libri.
L’altra tecnica, la pixilation, ha risultati alterni. A parte la provocazione dei peni che si erigono in Bugsy Berkeley’s Tribute to Mae West, questa tecnica così sfarfallante è adatta alla rivisitazione di Dr.Jeckill and Mr. Hyde, mentre gli ultimi lavori su Darwin e su Shinjuku lasciano più perplessi.
John Canemaker
Corpulento animatore e storico dell’animazione italo-americano, in realtà è più apprezzabile nella sua veste accademica piuttosto che in quella creativa. Quando parla della storia della Disney, dei tempi d’oro degli studios, delle influenze degli autori moderni è un abile affabulatore ed è piacevolissimo da ascoltare. Le sue opere, invece, sono meno interessanti. Palesemente non è capace a disegnare, ma anche raramente riesce a dare un afflato di interessante alle sue produzioni. L’unica eccezione è l’intensissimo e catartico The moon and the son, che riguarda il suo rapporto col padre morto.
Daniel Greaves
Un altro inglese, questa volta più dedito all’animazione più tradizionale, concedendosi poco oltre i tradizionali disegni animati. C’è del bene e del male nel lavoro di Greaves: il bene è che produce pochi corti ma ben realizzati e che ha messo in piedi un metodo per sfruttare commercialmente le sue idee. Il male è che è molto poco innovativo, tutto quello che ha fatto è in qualche modo già visto, e che ha messo in piedi un metodo per sfruttare commercialmente le sue idee. Sì, infatti da un lato è apprezzabile che il mondo dei cortometraggi foraggi le idee per dei piacevolissimi spot pubblicitari, dall’altro è quasi imbarazzante come si sia messo ad autoplagiarsi senza alcun timorepiùe più volte.
Borge Ringe
Ancora un ospite straniero di importanza da Oscar, Borge Ring ha collaborato a diversi film d’animazione di cui ha mostrato qualche spezzone. Alcuni di essi sono ignoti in Italia altri sono più famosi (Heavy metal, Asterix in America), ma ciò che più interessa di questo autore sono i suoi tre cortometraggi Oh my darling, Anna and Bella e Run of the Mill. Pur essendo piuttosto diversi, hanno in comune un talento particolare nel rappresentare graficamente mediante piccole metafore le emozioni e le situazioni, e una ineffabile leggerezza. Non voglio spiegare ulteriormente, sarebbe fare un torto all’autore. Guardateli, se potete.
Dal lato più cronachistico, Borge Ring è una vecchia cariatide di 85 anni con l’apparecchio acustico e il bastone, e ogni giorno il pubblico era stupito che fosse ancora vivo. Particolare inquietante, ha le unghie lunghissime.
Gianluigi Toccafondo
Italianissimo, anche se ha lavorato per la Francia, è un pittore più che un animatore, e si è ritrovato a fare animazione quasi per caso, quando cercando di dare più idea di movimento alle sue opere si è reso conto che forse animarle veramente era la soluzione più semplice. L’ampia retrospettiva mostra una serie di corti in qualche modo tutti simili gli uni agli altri per la tecnica utilizzata (pittorica con introduzioni di collage) e per le atmosfere oniriche e la narrazione molto ermetica: l’autore afferma che i suoi corti sono tutti narrativi, ma di lì a capire la storia ce ne passa. Vale la pena citare Pinocchio, in cui alla fine il burattino appare morto. Ho apprezzato il suo commento a proposito: "Quando alla fine della storia Pinocchio diventa un bambino, il personaggio è come se morisse."
Isao Takahata
Isao Takahata, probabilmente uno dei nomi più importanti dell’animazione mondiale, deve aver preso gusto a viaggiare spesato, dopo essere già venuto in Italia nel 2004, a Ravenna e Chiavari. Dagli incontri e dalle interviste appare che sia un uomo davvero felice e sereno. Si gode i suoi soldi, si prende i premi alla carriera e fa le cose che gli piace fare: sta curando l’adattamento giapponese di film di animazione francesi, come Belleville e Kirikù e ha scritto un libro sui papiri giapponesi del XII secolo (sic!) che si portava in giro per farlo vedere a tutti. Si interessa all’animazione d’autore, e tra i preferiti cita sempre Frédéric Bach e Yuri Nornstein. Alla domanda se gli piace qualcosa tra i giapponesi contemporanei ha glissato educatamente, citando appena Miyazaki. Tra le righe si capiva comunque che i suoi ultimi film non gli piacciono molto.
Ho rivisto i quattro film Ghibli di Takahata.
Una tomba per le lucciole
Pur avendolo visto più di una volta, in questa visione del classico strappalacrime di Takahata ho notato un aspetto che mi era parzialmente sfuggito. Seita non è assolto dallo sguardo del regista. Certo, ha vissuto un’esperienza terribile ed è un dodicenne lasciato in balia degli eventi, ma ha non poche colpe per la morte sua e della sorellina. L’enorme peccato di orgoglio nel rifiutare l’ospitalità della zia, il continuo sottovalutare le condizioni di salute della bambina, la troppa esitazione nell’usare i risparmi finchè non è troppo tardi riflettono, forse, la condizione del Giappone e della retorica di cui era imbottito.
Però la scena finale con il Giappone moderno nato sulle ceneri della sofferenza dei due bambini è di impatto enorme.
Omohide poroporo
Uno dei migliori film di Takahata, sfortunatamente è funestato da un’eccessiva lunghezza,da quei venti minuti di troppo non necessari che ne spezzano il piacere della visione. Anzi, più precisamente, diciamo che la descrizione del piacere della vita bucolica poteva avvenire anche senza il taglio documentaristico di alcune scene. Per il resto il continuo passare dal passato al presente, il raffronto della Taeko trentenne e quella di dieci anni creano un’armonia straordinaria. Personalmente ammiro molto la delicatezza della narrazione nel passato, il talento nel mostrare episodi tutto sommato non particolarmente interessanti di per sé sotto una luce che li rende affascinanti e significativi.
Heisei tanuki gassen pompoko
Personalmente ritengo questo film uno dei meno riusciti di Takahata, pur essendo comunque una visione molto piacevole. In realtà il difetto è il solito: una ventina di minuti di troppo di solito piazzati poco dopo la prima ora. Ed è un peccato, perché alcuni elementi sono stroardinari, a partire dalla triplice rappresentazione dei tanuki (realistica, cartoon, iconica) fino all’idea del rapporto con la natura che dà un affettuoso buffetto a Miyazaki parlando di cose molto più realistiche, della possibilità di far crescere una città pur creando delle oasi di verde. Non sappiamo se sia l’ideale, ma in qualche modo le persone (e gli animali) ci vivono.
Tonari no Yamada-kun
Si trattava dell’unico film di Takahata che avessi visto una volta sola, quindi mi ha fatto molto piacere rivederlo. Quasi commovente, nella presentazione, ciò che ha detto il regista: "Volevo con questo film dare una nuova direzione all’animazione giapponese". E l’intento è chiaro, nel presentare un film così sperimentale, così coraggioso nel proporre uno stile inconsueto e nel fare satira dal sapore un po’ anzianotto ma non per questo meno vivace e pungente. Ovviamente, il suo intento è fallito miseramente.
Tutti i film di Takahata sono profondamente giapponesi, ma forse Yamada-kun è il più nipponico di tutti, pur essendo un caso unico come stile.
The reluctant dragon
Infine, una curiosità piacevole. The reluctant dragon è una specie di grosso spot pubblicitario della Disney nel 1941; col pretesto di una persona che vuole proporre una sua idea a Disney, si fa fare un tour degli studios. Ovviamente incontrerà persone gentilissime e, misteriosamente, tutte bellissime che spiegheranno al protagonista tutti i retroscena della produzione dei film animati dell’epoca. Il tutto è condito da un corto di Pippo (uno spassosissimo "how-to"), uno storyboard di una Silly Simphonie che non credo sia mai stata animata e dal cortometraggio che dà il titolo al film che, pur essendo stupidino, è comunque divertente e presenta non poche particolarità di design.
Il luogo
Genzano è una cittadina dei Castelli Romani, dove si beve vino sincero accompagnando la porchetta. Il visitatore che desideri raggiungere il paese non avrà vita difficile: è sufficiente uscire dal Grande Raccordo Anulare che circonda la capitale in corrispondenza della via Appia e seguirla per una ventina di chilometri. Aggiungerò solo che l’autista inesperto delle vie Romane deve prestare attenzione al fatto che il Grande Raccordo Anulare non è indicato come tale in corrispondenza degli svincoli, e quindi egli rischia di ritrovarsi invischiato nel traffico capitolino. Ma a chi capiterebbe una cosa simile? Ehm…
La cittadina è carina, adagiata su una dolce collina vicino al lago di Nemi, ricca di saliscendi, con un centro storico piccolino ma abbastanza ben tenuto e numerosi viali alberati che in autunno risultano suggestivi. La gente è nel complesso accogliente e aperta (è una delle ragioni per cui amo Roma e i romani) e si mangia molto bene spendendo poco un po’ ovunque (è un’altra ragione per cui amo Roma e i Romani). In particolare, il pane casereccio di Genzano è eccellente.
Il festival
Ciò che salta per primo all’occhio è che il festival è abbastanza raccolto, e le facce che si vedono sono sempre più o meno le stesse. Tuttavia, è lungi dall’essere desolato e l’atmosofera è gradevole, e pur essendo assai differente dalla gaiezza diffusa che si respira ad Annecy, ci si sente in qualche modo ben accolti, quasi tra amici. Penso che il luogo, da questo punto di vista, aiuti molto, e forse anche la direzione di Luca Raffaelli mira ad ottenere questo obiettivo.
Organizzarsi le visioni ad Annecy è complicato, dati i quattro cinema principali e i due secondari che proiettano contemporaneamente, per tacer delle conferenze, del MIFA, delle proiezioni all’aperto. È necessario quindi mettersi a tavolino per riuscire e programmare cosa vedere stabilendo priorità ed individuando buchi e ripetizioni. A Genzano tutto questo non è necessario: c’è un singolo cinema che proietta per tutto il giorno, quindi ci si può sedere al mattino e stare lì fino a notte, addirittura sulla stessa poltrona. Gli spettatore più resistenti potranno vedere animazione dalle 9.30 a quasi le 2 di notte, con pochissime interruzioni. Il rovescio, ovviamente, è che se qualcosa proprio non interessa non esistono alternative se non andarsi a mangiare un panino con la porchetta o mettersi a dormire.
Altra rilevante differenza con Annecy è la struttura dei programmi: quasi tutti molto rapidi, diciamo 20-30′ di media, contro la durata media di 90′ del festival francese. Questa scelta organizzativa permette di avere maggior varietà (a volte un’ora e mezza di monografia su un autore può stancare), ma anche maggiori difficoltà di organizzazione.
Il cinema Modernissimo non è di eccelsa qualità né tantomento è modernissimo. Si tratta di una di quelle sale vecchio stile, con la galleria di sopra (riservata allo staff tecnico durante il festival), il corridoio in mezzo che si mangia i posti migliori e le sedie quasi allo stesso livello, dimodoché la visione è compromessa se capita davanti un signore che da piccolo ha mangiato sempre tutta la minestra. Inoltre le poltrone hanno lo schienale basso e le file sono troppo ravvicinate e impediscono di allungare le gambe, quindi le giornate di 12 ore o più di visione sono faticose ed è difficile dormire durante le proiezioni più noiose.
Per il resto l’organizzazione è discreta. Le proiezioni sono state nel complesso puntuali, ma funestate di numerosi problemi tecnici. Mai nulla di grave, ma il ripetersi quasi sistematico di piccoli inconvenienti denota qualcosa da correggere. Durante le conferenze, le interpreti dall’inglese e dal giapponese si sono dimostrate indubbiamente ferrate nell’idioma straniero, ma meno preparate in italiano o comunque nelle tecniche di traduzione. Infine, la figlioletta di Luca Raffaelli, pur essendo graziosa e simpatica, ha funestato il festival attaccandosi regoalrmente alle gambe del papà mentre presentava.
Cosa c’era da vedere?
Come tutti i festival, i Castelli Animati presentano concorsi, rassegne e vantano degli ospiti.
I concorsi sono due: corti internazionali e corti italiani. Gran parte dei migliori cortometraggi li avevo già visti ad Annecy 2005, e diversi di essi hanno infatti vinto premi anche qui. Unica grande scoperta è Flat Life, del belga Jonas Geirnaert, che ha vinto il Gran Premio. Forse è criticabile la scelta di ghettizzare gli italiani in una sezione dedicata a loro, ma d’altra parte è un modo per dare visibilità ad autori che altrimenti finirebbero schiacciati dalla troppa concorrenza, e a celebrare comunque le scuole italiane. Il vincitore è stato un commentario visivo alla celebre canzone di Fred Buscaglione Che notte, di Giulia Ghigini, Dario Lavizzari e Filippo Letizi.
Gli ospiti erano certamente dei nomi importanti: innanzitutto Isao Takahata, che pur essendo già comparso in Italia nel 2004 è pur sempre un ospite mozzafiato; se non ci fosse stato, comunque, non ci sarebbe stato da lamentarsi, vista la presenza di tre premi Oscar: Peter Lord, Borges Ring e Daniel Greaves. Completano il gruppo un mostro dell’animazione sperimentale come Paul Bush, l’animatore e storico del cinema di animazione John Canemaker e l’apprezzato italiano Gianluigi Toccafondo. Ad ognuno di essi era dedicata una retrospettiva pressoché integrale (a parte Takahata, ovviamente, per il quale ci si è "limitati" alla proiezione dei quattro film prodotti con lo studio Ghibli e Peter Lord che ha "solamente" mostrato una succosa anteprima del film di Wallace and Gromit) e un workshop in cui l’autore parlava di quello che gli pareva proiettando alcuni suoi lavori. Quest’ultima esperienza non esiste ad Annecy, che in effetti difetta di contatto con gli autori, e nel complesso tali incontri sono stati molto interessanti.
Infine, in rassegna c’erano vari corti internazionali e italiani, e qualche curiosità dal mondo Disney portata da John Canemaker.
Lateralmente a tutto questo, diverse ditte italiane che si occupano di effetti speciali digitali si sono presentate. Si è trattato del lato meno interessante del festival. Non si è capito bene se si trattasse di gente che ha pagato o meno, ma comunque queste conferenze venivano affettuosamente chiamate "marchette" e spesso dormite o evitate.
(Next: dettagli sulle visioni)
Negli ultimi anni sono andato abbastanza spesso al cinema, più di una volta a settimana; l’esperienza di visioni cinematografiche, quindi, inizia ad essere piuttosto corposa. Eppure, ci sono alcune proiezioni particolari che mi sono rimaste scolpite nella memoria, per eventi particolari associati, nel bene o nel male. Ecco una top-10.
10)Mulholland Drive: dietro di me c’era Sergio Vastano, che ha parlato diverse volte durante la proiezione ma dimostrando di conoscere il cinema di David Lynch: "Quel nano lì c’è in tutti i suoi film".
9)The dangerous lives of Altar Boys/Possession: unica volta in vita mia che ho fatto un double bill (visione di due film lo stesso giorno) nello stesso luogo, il multisala UCI di Genova. Entrambi i film erano mediocri, dimenticabili e infatti quasi dimenticati.
8)Una lunga lunga lunga notte d’amore: visto da solo, c’erano cinque o sei persone in sala. Una di esse si è messa alla mia immediata sinistra, un’altra alla mia immediata destra, rendendo la visione poco confortevole. No, non erano maniaci.
7)Fahrenheit 9-11: come faccio di solito, ho ignorato i posti che lo stupido algoritmo di collocazione mi ha propinato per mettermi davanti, immaginando che la sala sarebbe stata mezza vuota. Invece, per qualche strana ragione, ha continuato ad entrare un mucchio di gente dopo l’inizio della proiezione, fino a riempire la sala. Io ho fischettato la canzone dei puffi facendo finta di niente e nessuno ha reclamato il suo posto. Tuttavia, c’era gente seduta sui gradini: così imparano ad entrare a proiezione iniziata.
6)Un condannato a morte è scappato: una signora, capitata lì chissà perché in una rassegna di Nouvelle Vague, russa molto rumorosamente per quasi tutto il film. Francamente, non riesco a darle completamente torto.
5)Heartbreakers: una signorina grassa accanto a me ripeteva tutte le situazioni divertenti. Ad esempio, se il protagonista cade in modo rocambolesco: "Ah, ah, è caduto!". A dir poco irritante. Anzi, diciamo pure che avrei voluto ammazzarla.
4)My name is Tanino: in due in sala. Il film inizia muto. Pare che il mio co-spettatore, un signore anzianotto, non ci faccia neanche caso. Mi alzo e lo vado a dire alla cassa. Il volume viene ripristinato ma il film non viene fatto ripartire, quindi perdo i primi 3-4 minuti. Il cinema in questione è l’America di Genova, nel quale anche Una lunga domenica di passioni è stato proiettato male a fuoco. Ci continuo ad andare perché è a 100 metri dall’ufficio dove lavoravo fino a poco fa e perché spesso proiettano film buoni.
3)Jeepers Creepers: tipico horror estivo, visto in una sala piena di ragazzetti terrorizzati (la prima metà del film fa paura, le seconda fa cagare). Le ragazze gridavano, i ragazzi parlavano e scherzavano per darsi un tono, ma palesemente per farsi coraggio. È stato molto divertente.
2)Mean Creek: prima ed unica volta (finora) in cui sono stato al cinema completamente da solo. Erano anni che sognavo di farcela, cercando di intrufolarmi in proiezioni ad orari strani di film misconosciuti, ed è stata una bella soddisfazione.
1)Strade perdute: Era l’11 giugno 1996. Probabilmente oggi questa data non dice niente, ma si tratta dell’esordio della nazionale italiana di calcio agli Europei 1996. Adesso le partite ufficiali dell’Italia sono l’unica deroga che concedo al mio disamore per il calcio, ma ai tempi ero più rigoroso; quindi, mentre l’Italia tifosa si fermava, io ero andato al cinema. Genova quella sera era stranissima: quasi deserta, poche macchine per le strade, sembrava popolata solo da donne anzianotte. E anche al cinema c’eravamo solo io, il mio collega di visione e diverse signore che avevano lasciato la casa libera ai mariti e i loro amici, previa rifornimento di Birra Peroni e frittatona di cipolle. Il film, chi l’ha visto lo ricorda senz’altro, è un ermeticissimo viaggio negli incubi di David Lynch, tanto bello da vedere quanto incomprensibile. Il commento di una coppia di matrone al termine della proiezione è stato "Ai nostri tempi i film erano diversi, forse al giorno d’oggi li fanno così".
Texas, di Fausto Paravidino, Italia, 2005
Una recensione quasi seria
La provincia italiana, soprattutto quella del nord Italia, è un territorio misteriosamente dimenticato da decenni di produzioni italiane, oserei dire da dopo Pavese. Forse perché è sfuggente, e narrare “la grazia e il tedio morte del vivere in provincia” (come cantava Guccini) è un’impresa difficile. Meglio rifugiarsi nelle metropoli, nelle spiagge o, al massimo, negli stereotipi della campagna toscana o del sud Italia arso dal sole. Il tentativo di riscoprire quest’ambientazione è quindi, come minimo, un merito a priori del giovane Fausto Paravidino, alla sua prima opera. L’esperimento è comunque molto interessante. Pur non essendo privo di difetti più che altro dovuti ad ingenuità ed inesperienza degli autori, si tratta di un film fresco ed originale, sia dal punto di vista formale che da quello contenutistico. Innanzitutto, lo spunto dell’ambientazione, quei paesi di ex-campagna ma non ancora di città nelle tristi nebbie di Ovada, offre un’umanità narrativamente interessante. Il film, sostanzialmente corale nonostante la presenza di una voce narrante, narra le vicissitudini di un gruppo di persone attraverso tre loro tipici sabati sera. Narra di come le loro vite si intreccino, di come i tradimenti e gli amori, le speranze e le delusioni costellino la loro vita di umanità ai margini del mondo. Se la pellicola ha un difetto macroscopico, è probabilmente nel non saper dare un’unità e una direzione precisa a questo coacervo di impressioni. Interessanti sono invecei protagonisti di questo film, in cui diversi di essi partono da macchiette ma in qualche modo trovano poi la loro dimensione tragica. Non tutti, ovviamente qualche personaggio ("Picchiami", "Coma" e "Oklahoma") rimane una macchietta divertente e basta. Al di là di questo, il film è comunque molto amaro, quasi privo di speranza. "Andare via, sì, ma per andare dove?"
Bravini in generale anche gli attori, quasi tutti sconosciuti se non dilettanti, su cui spicca Valeria Golino che conferma la sua abilità nel trovare piccoli progetti interessanti a cui collaborare. Dal punto di vista formale, il film vuole essere moderno: sceneggiatura con incastri temporali piuttosto elaborati, uso di visioni che si intersecano alla realtà (tecnica mutuata, probabilmente, dai Simpson), jump cut, fermi immagini e framing. Qualcuno .’ha definito "muccinesco", ma io trovo piuttosto che i modelli a cui si ispira siano i Tarantiniani (ancor più che Tarantino stesso) o al massimo Inarritu.
Nel complesso si tratta quindi di una visione interessante, che lascia pensare che in Italia forse a cercar bene qualche innamorato del cinema che, con un processo di maturazione adeguato, possa fornire nuovi stimoli al cinema italiano c’è. Speriamo gli si dia fiducia, anche se la scarsa distribuzione del film e la tiepida reazione della critica non fanno sperare per il meglio.