xxmiglia.com's
uFAQ
Scrivermi?
Categorie
Ricerca

Per i ritardatari
Mi do da fare
Sono alla moda e tuitto
Fenomenologia del ricordo scolastico (ovvero: Perché non parli del liceo?)

L’estate scorsa, in occasione del quindicesimo anniversario della maturità, ho partecipato a una cena di classe coi compagni del liceo. E’ stata una cena divertente, e tra un aneddoto e l’altro alcuni commensali, parlando del presente blog che avevano scovato, mi hanno chiesto: “Ma perché non parli mai del liceo? Ci sono un mucchio di cose divertenti da raccontare! In fondo ormai è passato tanto tempo, dovresti avere un certo effetto-nostalgia anche per quel periodo”. E in effetti, riguardando gli aneddoti inconcludenti coi quali ammorbo i miei lettori, mi son reso conto che ormai da tempo ho sconfinato dai primitivi limiti temporali autoimposti e ho narrato diverse storielle dal periodo universitario e a tratti anche alcune piuttosto recenti; tuttavia, per quanto riguarda il liceo, continuo a dire molto poco.
Pensandoci sopra e cercando di capire cosa c’è che non mi stimola in questo periodo, sono giusto ad un paio di conclusioni. Una delle motivazioni nasce dalle conversazioni del genere “Mi ricordo che durante le superiori…”. Avete mai provato a parlare degli anni del liceo con interlocutori sparsi, ad esempio alla macchinetta del caffè in ufficio? Ebbene, la tendenza generale è di bullarsi per quanto casino si è fatto o di quanto poco si è studiato o di chi ha avuto i professori peggiori. E’ spesso una gara al rialzo a chi ha fatto più scioperi inutili, a chi ha trattato peggio i propri insegnanti, a chi se l’è cavata meglio senza nulla fare. E’ un’abitudine che trovo profondamente irritante: sembra quasi di sentire coloro che ricordano di quando hanno fatto il militare! Diamine, perché bisogna proporsi come un esempio negativo per sentirsi importante?
E’ probabile che esista una chiave di lettura in tutto questo: la normalità è poco interessante, ciò che richiama l’attenzione è l’eccezione. E l’eccezione in un ambiente che, quasi per definizione, è legato allo studio, all’insegnamento e alla disciplina, è appunto il non-studio, il non-insegnamento e la non-disciplina. Risulterebbe quindi molto più memorabile narrare di quella volta che ho litigato con quel fidipù del professore di disegno invece che di quell’anno che ho studiato sodo latino e, dal 5 in pagella che avevo nel primo quadrimestre, sono passato al 7. Ma, a questo punto, mi sembrerebbe di allinearmi a quella fenomenologia che ho precedentemente disprezzato. Non che la coerenza per me sia un valore così importante, ma non ne vedo proprio la necessità.

In realtà credo ci sia dell’altro: la mia vita dai 14 ai 19 anni non è stata solo la scuola, sebbene in qualche modo la mia esistenza ruotasse attorno ad essa; potrei quindi anche scrivere aneddoti riferiti alla mia vita extra-scolastica. Tuttavia non mi sento più legato al me stesso come adolescente, una personalità che non sento più mia, a differenza invece del me stesso da bambino che invece percepisco come parte di me. A causa di questo distacco scrivere di quel periodo mi risulta difficile, un po’ come se parlassi di un estraneo.

Quindi, Massimiliano ed Emanuela:  fatevene una ragione, comparirete molto raramente nei miei racconti!

(Questo articolo è venuto troppo serio. Fate una puzzetta e ridete per bilanciare)

Misteri della vita LXXXVII: Supermercati

Alla faccia di chi mi dice che ho una memoria elefantiaca, deve esserci qualcosa che ho rimosso dal profondo. I supermercati mi inquietano sempre parecchio, e quando sono affollati divento assai spaventato. Addirittura in qualche caso ho sfiorato un attacco di panico e son dovuto uscire in tutta fretta. Eppure, da quel che ricordo, non mi è mai successo niente di male in un supermarket, cioè, nulla di peggio di comprare per errore dei fazzoletti di carta profumati alla vaniglia (non ho il coraggio di buttarli via, ma mi danno la nausea ogni volta che mi soffio il naso). E nemmeno riesco a immaginare nulla di grave che potrebbe accadere in un luogo simile, a parte magari essere assediato dagli zombi.
‘Nsomma, cosa diamine ho coi supermercati?

(Ok, non mi aspetto una risposta sensata. Ma se volete fare delle ipotesi, o se qualcuno ricorda qualche evento che io ho eliminato dalla memoria…)

Il fiero XX e il prode Katsura alle prese con Darth Vader, Lord Fener, Darth Fener e persino Lord Vader

Oggi, in occasione del ritorno da un’ottima Lucca Comics, parliamo dei cosplayer, cioè di coloro che alle fiere di fumetti si travestono da personaggi dei fumetti e dei cartoni. Per anni ho detestato il cosplay,  Sapete, c’è una corrente, tra gli appassionati di comics, che sostiene che i cosplayer siano malvagi perché sporcano l’integrità culturale del fumetto. Secondo questo partito, vestirsi come “gli eroi del fumetto” contribuisce a fare in modo che quel mezzo di espressione venga ancora considerato un intrattenimento infantile e un po’ ridicolo. Una corrente minoritaria, inoltre, asserisce che tutti i cosplayer puzzino, senza eccezioni (davvero!).
C’è della verità in tutto questo (a parte la storia della puzza, vabbè, quella è diffusa solo tra coloro che si vestono da personaggi impellicciati), ma col passare degli anni la mia posizione è diventata molto più morbida: trovo il cosplay un gioco divertente che si sposa benissimo all’atmosfera della fiere di fumetto, per non parlare del fatto che permette di vedere belle ragazze in vestiti discinti. Io non lo farei mai, ma non ho ragioni serie per non tollerare questo tipo di attività; fa più male al mondo del fumetto mettersi in coda per farsi firmare la fotocopia dai disegnatori Bonelli.

Tuttavia, mi mandano in bestia quelli che prendono questo gioco troppo sul serio, e non c’è nessuno che lo faccia in modo peggiore degli Imbecilli di Star Wars. Si tratta di un gruppo di fessi che, in base a qualche gerarchia che sanno solo loro, si vestono da personaggi di Guerre Stellari, comprando costumi commerciali. I più sfigati si vestono da Storm Troopers, altri da ufficiali, i più “ganzi” fanno Darth Vader o l’Imperatore. Questi poveri ritardati si calano talmente nel loro ruolo che, passando per le affollatissime strade di Lucca, si fanno largo minacciando la gente “Largo! Passa l’Imperatore, toglietevi!”. Io, da rompipalle che sono,  mi son messo in mezzo e ho detto a muso duro a un “ufficiale”: “E se non mi tolgo che succede?”. Il mentecatto è rimasto talmente sconvolto dall’incontro con uno che non ha rispetto per l’Imperatore che ha borbottato qualcosa e se ne è andato. Bravo, Luca.

Giusto per non dire che ce l’ho coi fan di quella orrenda esalogia dal nome di Star Wars, per la prima volta nella mia carriera mi son fatto fare una foto con un cosplayer. Signori, ecco qua me insieme ad Ale Katsura, chitarriere dei Bishoonen, alle prese col miglior cosplay di Darth Vader che abbia mai visto. E’ questo lo spirito che mi piace, e saluto quel bambino.

darthvader.jpg

Un grazie a OperationOne per la foto.

Un giorno amaro

Un giorno, quando avrò avuto sette o otto anni, comprai un sacchetto di patatine da Petronio,  uno dei due bar della zona di Alassio dove bazzicavo, dalle parti del negozio di mia nonna. La scelta di andare da Petronio o da Bombelli (l’altro bar) per fare merenda era sempre lancinante, ma in questo caso era stata facile. Infatti da petronio avevo scorto una confezione di patatine  sulla quale uno strillone strillava “Grande sorpresa dentro!”, curiosamente senza fare riferimento a un brand particolare: le patatine, ora come allora, si vendevano perché c’era una sorpresa dell’Ape Magà o di Orzowei o di Platini, non per una generica sorpresa. Questo fatto, curiosamente, aveva avuto l’effetto opposto e mi aveva attirato maggiormente: il dono sarebbe stato doppiamente inaspettato! Acquistai il pacchetto con una banconota da 500 lire (*), e me andai felice col mio balocco. Aprii quindi le patatine e, perbacco!, non scorsi la sopresa. Da bimbo ottimista che ero, immaginai che fosse nascosta sotto il prelibato snack. Crunch crunch, divorai tutto il pacchetto, e della sorpresa nessuna traccia. Ero stato truffato. Mi avevano promesso una sorpresa e una sopresa non avevo ottenuto. Da allora, diffido di chi vuole farmi regali, ma mi piacciono ancora le patatine.

(*) In realtà non ricordo questo dettaglio, ma è ganzo ricordare che a quei tempi c’erano le banconote da 500 lire.

(Non  è ammirevole quanto sono riuscito a tirarla in lungo a raccontare che una volta non ho trovato la sorpresa nelle patatine?)

I Nuovi Imbecilli

Genova, come noto, è la Città dalle Centomila Motorette, ivi compresa la mia. Tra i motorettisti, vista la numerosità, non ci sono solo ragazzetti con la marmitta scureggiona che fanno le penne imitando Valentino Rossi, ma si trova di tutto: impiegati in cravatta, mamme che portano i figlioletti a scuola, pensionati, casalinghe, signore distinte. La conseguenza di questa a-distinzione è che alcuni comuni comportamenti “criminosi” degli automobilisti vengono traslati sui motorettisti, poiché sono le stesse persone: ad esempio, è abbastanza comune vedere gente che parla al cellulare mentre guida… col cellulare incastrato tra casco e orecchio! Ieri sera, però, ne ho vista una nuova: una donna, avrà avuto circa la mia età, stava scrivendo un sms mentre guidava la motoretta. Andando piano, per carità (e quindi intralciando il traffico), ma senza avere il buon gusto di fermarsi. In casi simili, io penso sempre: “Ohè, Cesira, con questa le ho viste tutte! C’è un tizio lì fuori che si imbratta le mani con gli escrementi di vacca!”, citando a sproposito una delle più memorabili strisce di Lupo Alberto. Poi è passata una farfalla, mi sono distratto e ho dimenticato tutto questo.

Stamane, mentre venivo al lavoro, è accaduta la stessa cosa. Sempre una donna,  un po’ più vecchia della precedente, ha deciso che la motoretta in movimento è un ottimo posto dove scrivere un messaggino. Ho scosso la testa, ho inveito e poi ho pensato: “Ma in fondo, a me che cazzo me ne frega?” e son tornato a sorridere.

Nota finale: la coincidenza di assistere allo stesso evento inusuali due volte in un breve arco di tempo era stata trattata in uno dei miei primissimi articoli (ri-leggetevelo, è interessante), e l’avevo battezzata bievento. Questo nome non mi ha mai soddisfatto in pieno: qualcuno ha suggerimenti per un termine più efficace? Tipo qualcosa in greco?

Nota dopo la nota finale: ehi, oggi è il quarto Pinguicompleanno! Fatemi un mucchio di regali, oppure datemi dei soldi così mi compro io quello che più mi piace.

La vera bestia sei tu che l’abbandoni!

Qualche anno fa Daniel Pennac (che, tra parentesi, riconosco essere bravo ma terribilmente antipatico e supponente) stilò un decalogo sui diritti dei lettori, un’iniziativa per rendere la lettura un’attività meno “polverosa” e accademica. Uno di tali diritti riguardava il “diritto di non finire un libro”, come per dire che se il libro fa cagare, non vi mangia nessuno se lo mollate a metà. Ecco, io confesso che qualche volta ho esercitato questo privilegio, ma con terribili sensi di colpa. Innanzitutto c’è il fattore economico: al ristorante, io seguo la filosofia di “io pago, io mangio”, cioè mangio tutto quello che ho ordinato anche se non mi piace perché soffro troppo ad abbandonare del cibo pagato caro (a casa non mi capita mai perché mi cucino quello che mi piace, son mica scemo!). Per i libri, la situazione è simile: “io pago, io leggo”. Secondariamente, sono convinto che la lettura di qualunque libro, per quanto banale, sciatto e scritto male, accresca le conoscenze e renda le persone migliori. Con l’eccezione di Moccia. C’è un limite a tutto.

Ripensando quindi ai libri che ho abbandonato (almeno temporaneamente, chissà che non mi capiti di riprenderli in mano!) non mi vengono in mente molti titoli. Eccone qualcuno.

L’idiota di Fedor Dostojevskij: io eDostojevskij non siamo mai andati particolarmente d’accordo. Ho letto due volte Delitto e castigo ma non mi ha lasciato praticamente nulla, almeno a livello conscio. Sì,  un tipo ammazza una vecchietta e poi si sente  in colpa. Per settecento pagine?!? E pensare che l’ho riletto appunto perché della prima lettura non ricordavo niente e la cosa mi infastidiva… L’idiota l’ho provato all’inizio del 2006 ma, arrivato a metà, mi son reso conto che non solo stavo arrancando, ma che continuavo a confondere i personaggi e non ricordavo cosa avessero fatto in precedenza, sintomo del fatto che non stavo capendo una ceppa e che il libro non mi stava dicendo nulla. Ho deciso quindi di lasciarlo, ma secondo me prima o poi io e Fedor riusciremo a trovare un accordo.

Il passaggio smeraldo, primo libro della Pentalogia del Prisma di Dark Sun, di Troy Denning: da giovane, credo di averne già parlato, mi piaceva il fantasy, e leggevo un pacco di romanzi del genere. Qualcosa di decente lo si poteva trovare qua e là, ma nel complesso la quantità di spazzatura che mi sono sciroppato è impressionante. Probabilmente questo libro è stato l’apice, era talmente scemo che, per fortuna, son rinsavito e ho smesso di dedicarmi a questo tipo di letteratura. Non tutto il male vien per nuocere.

Un amore di Swann di Marcel Proust: ancora un classico, ma su questo ho una buona scusa. Tra la quarta e la quinta liceo, il mio professore di italiano diede alla classe una lista spaventosa di libri da leggere durante l’estate in modo da prepararsi allo studio del Novecento, in Italia e all’Estero. Saranno stati 30-40 libri, comprendenti mostri come l’Ulisse di Joyce o L’uomo senza qualità di Musil o l’opera omnia (o quasi) di Kafka, e porcate come Il piacere di D’Annunzio o I Malavoglia di Verga (lupini!). In questo elenco, c’era anche la lettura di un romanzo a scelta della Recherche di Prouse, e io a caso presi Um amore di Swann. Come avrete intuito, non ce l’ho fatta, ma per un diciottenne credo che sia quasi fisiologico non riuscire a digerire Proust. Affrontare questo autore è invece adesso uno dei miei prossimi obiettivi, anche perché la fenomenologia del ricordo, come forse avrete intuito leggendo questo blog, è uno degli argomenti che più mi stimolano.

The Essential Howard the duck di Steve Gerber e Val Mayerik: persino un fumetto! Gli Essential, per chi non lo sapesse, non sono riassunti, ma sono volumi enormi su carta economica che ristampano vecchi fumetti Marvel. Howard the duck è un fumetto culto degli anni ’70, da cui hanno tratto il controverso film (molti lo odiano, diversi lo amano, io non l’ho visto) e che parla di un papero che fuma il sigaro e si candida alla presidenza degli Stati Uniti, una sorta di versione per adulti del mondo Disneyano. Eppure, complice anche la lunghezza, la ripetitività e comunque l’abitudine a leggere fumetti per adulti con un grado di maturità ben superiore di qualunque cosa possa mai uscire dalla Marvel, me l’han fatto venire a noia. Ahimé.

Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov: un altro russo, e tre volte ci ho provato, diamine! Ho perso il conto delle persone, anche affidabili, che mi hanno tessuto le lodi di questo libro, raccontandomi di quanto fosse meraviglioso, quindi ho voluto insistere. Niente da fare, c’è qualcosa, ne Il Maestro e Margherita, che me lo rende non-interessante. Dopo poche decine di pagine, regolarmente, perdo interesse, lo leggo sempre di meno e finisco per mollarlo. Non credo ci proverò più.

Fisica, volume I di Richard Feynman: anche un saggio scientifico in questo elenco, ma ho una buona scusa. Il testo di Feynman è straordinario, è interessantissimo e propone spesso visioni “laterali”  a molti aspetti della fisica di base che la rendono viva e stimolante. Il problema, però, sta nell’edizione che ho preso: è bilingue, col testo originale e a fronte quello italiano a lato, e brossurata. Il libro quindi diventa larghissimo e scomodissimo da leggere, soprattutto per chi, come me, legge soprattutto a letto. Inoltre la traduzione italiana è pessima e priva di qualunque revisione. Non so come una casa editrice come la Zanichelli possa pubblicare un libro con scritto sistematicamente “perchè” al posto di “perché”. Scrissi anche per protestare, e mi risposero che “era l’unico modo per pubblicarlo, e comunque c’è il testo a fronte”. E  allora me lo compro in inglese!

Gli indifferenti di Alberto Moravia: sarebbe stato un libro del lotto “estate tra la quarta e la quinta”, ma a quei tempi non ci pensai nemmeno. Lo affrontai invece pochi anni fa, una volta che ero rimasto senza nulla da leggere e me lo ritrovai tra le mani. Quello che mi rese difficilissima la lettura, e alla fine me la fece abbandonare, era il fastidio per quello che accadeva al protagonista. Succedeva  infatti che gli capitassero una serie di situazioni terribilmente imbarazzanti; per l’empatia che è inevitabile provare col personaggio principale, non potevo fare a meno di sentirmi in imbarazzo io stesso (“No! Non voglio leggere questo!”), e la cosa mi infastidiva terribilmente, tanto da spingermi alla resa.

Insomnia di Stephen King: in generale King mi piace. Ha i suoi difetti (alla fine il punto chiave dei suoi romanzi è spesso lo stesso – la distruzione di una famiglia o, in senso più esteso, della società -, e nei finali di solito l’autore non sa come risolvere le situazioni e finisce per far esplodere tutto), ma è un grande narratore, e non è vero che Clive Barker è più bravo di lui. Però Insomnia è uno dei suoi libri proprio riusciti male: noioso, stupidino, non porta da nessuna parte. Almeno, fino alla parte in cui sono arrivato (tre quarti del libro); visto che i finali sono di solito la parte peggiore di King, non mi pento particolarmente di averlo mollato.

« PrimaDopo »