Lloughannapistin: cittadina irlandese non lontana dalla costa occidentale, colpita nel corso del ventesimo secolo da una sfortunata congiuntura socio-economico-giuridica che l’ha resa un luogo invivibile.
Lloughannapistin è situata in una gola difficilmente accessibile, e a causa di questa caratterizzazione geografica è sempre stato un paese chiuso e fortemente ancorato alle tradizioni. Qualsiasi lloughannapistinese infatti non solo non andrebbe mai via dalla propria città natale, ma nemmeno si sognerebbe di fare un lavoro diverso da quello del proprio padre. Il figlio di un arrotino rimarrà tale, così come il discendente di un avvocato potrà svolgere solo professione di avvocatura. La chiusura ai forestieri inoltre è tale che chiunque non sia nato nella cittadina non può venire a risiedervi. Non esistono delle vere leggi a proposito, ma i pochi tentativi di immigrazione sono stati vanificati a colpi di patate marce.
In questo modo, Lloughannapistin è vissuta pacificamente per secoli, fino alla grande epidemia del 1923, quando una misteriosa malattia (chiamata febbre fetente) ha decimato la popolazione, colpendo in modo particolare i lavoratori. Fra i pochi professionisti sopravvissuti, sono rimasti quasi solo coltivatori e venditori di miglio (cereale che, probabilmente, forniva una sorta di immunità alla febbre fetente). Da oltre 80 anni, quindi, l’unico cibo
reperibile è il miglio, e la fornitura di servizi di qualsiasi tipo è assente. Ne è conseguita una forte inflazione interna: al mercato nero, un rocchetto di spago può venire a costare diciotto tonnellate di miglio.
Bartolese: tecnica di coltivazione in uso nel Friuli rinascimentale. Durante la prima domenica di marzo, una vergine vestita di veli (detta la Bartola) veniva bersagliata dai villici con zolle di terra e semi di grano mentre danzava nei campi da coltivare. Il bartolese non si usa più perché ovviamente non funziona.
Squalo della Groenlandia: lo squalo della Groenlandia (Somniosus microcephalus) è un pesce noto per le sue vicissitudini oculari. Tutti gli squali cacciano a vista, ma i membri di questa specie sono quasi ciechi poiché infestati da codepodi (una sottoclasse di crostacei), parassiti che si nutrono della pelle dei loro occhi. Gli squali ne hanno un beneficio poiché i codepodi sono bioluminosi, e i loro contorcimenti attirano le prede degli squali. In questo modo, la specie ha bisogno di avere gli occhi per nutrire i propri parassiti, i quali lo rendono cieco e a questo punto diventano indispensabili per permettere ad uno squalo inetto di cacciare. Un’ulteriore dimostrazione della complessità e della perfezione del Disegno Intelligente.
Infine, caro il mio stremato pubblico, una piccola selezione delle cose che ho visto e che mi hanno colpito, nel bene e nel male (più nel bene, giusto per non essere troppo masochisti). Partiamo dai lungometraggi.
Khan Kluay di Kompin Kemgunird (Thailandia) : appunto, iniziamo con una cosa brutta (…vedi sopra) ma particolare. Khan Kluay è la storia di un tenero elefantino, circondato da simpatici amici, che vuole diventare un Elefante da Guerra e massacrare più gente possibile. La sensibilità thailandese al tema è evidentemente diversa dalla nostra, tanto più che non si capisce chi siano i nemici, ma il cortocircuito con l’estetica disneyana è affascinante. Per il resto, il film fa cagare, da ogni punto di vista.
Aachi & Ssipak di Bum-Jin Joe (Corea del sud): film coreano ultracolorato, ultraviolento e ultraschizzato. Ai miei compagni di visione è piaciuto, io me ne sono andato dopo 20′; non so bene perché, ma ha toccato qualche corda che mi ha particolarmente disgustato.
Film Noir di D. Jud Jones e Risto Topaloski (Stati Uniti): questo film mi ha lasciato profonde ombre di dubbio. Come si può presagire dal titolo è un film noir, un hard boiled, ambientato in una Los Angeles notturna, come da migliore tradizione. Quello che non si capisce è se la pioggia di stereotipi da noir sia voluta o meno: nemici con le pistole che mancano sempre, l’eroe che se le tromba un po’ tutte, amnesie, chirugia plastica, il detective privato con la segretaria innamorata e poi l’apoteosi, accolta con un’ovazione, dell’immancabile film snuff. Tecnicamente il film è peggio che scadente, ma la visione non mi ha annoiato. Tuttavia, non ho ancora capito se mi sia piaciuto o meno. In fondo, credo di no.
One night in one city di Jan Balej (Repubblica Ceca): un film est-europeo a pupazzi. Scene di disperazione di fronte agli incomprensibili, pallosissimi tre episodi. Quasi fantozziano.
Cortometraggi in concorso.
Jeu di Georges Schwizgebel (Svizzera): Schwizgebel è un buon sperimentatore di cortometraggi. Tipicamente le sue opere sono costruite con qualche sorta di carrello tridimensionale che esplora un mondo deformando le prospettive. Non lontanissimo dai principi del cubismo, in fondo. Di solito i suoi corti hanno un canovaccio narrativo, ma in questo caso si è lasciato andare ad una serie di immagini. Immaginifico, bello, fa venire il mal di mare.
Isabelle au bois dormant di Claude Cloutier (Canada): la parodia delle fiabe, da Shrek in poi, è diventata un tema piuttosto di moda, tanto che ormai è più facile vedere uno spoof di una favola che una favola stessa. Ebbene, Isabelle è una parodia di una fiaba, ma va citato perché è particolarmente divertente.
James Monde di Soandsau (Francia): il corto più deriso del festival. James Monde ti insegna a non gettare le pile usate per terra, altrimenti poi le margherite ti mangiano (così non rende: il messaggio era serio!) Metà del pubblico si è premurata di disseminare Annecy di pile usate.
Madame Tutli-Putli di Chris Lavis e Maciek Szczerbowski (Canada): tradizionalmente ci si prepara alle visioni dei cortometraggi per non essere presi alla sprovvista da opere potenzialmente pericolose, nel senso di “moleste alla visione”. In generale quest’ultime sono quelle di lunghezza superiore ai 10 minuti e provenienti da paesi a rischio (Cina, Polonia, Italia…) o muti, perché potenzialmente più noiosi. Inoltre la tecnica a pupazzi è, da esperienza, più a rischio di sfracellamento di marroni. Madame Tutli-Putli ricade quindi nella categoria “pericolosa”: lungo (17′), muto e a pupazzi. Ciononostante, è un gran bel corto. Una donna con un carico enorme di bagagli prende un enorme e velocissimo treno, nel quale, nonostante le sue precauzioni, i ladri le ruberanno le valigie. Appare chiaro presto che si tratta di una metafora della morte, narrata con gusto e con un’atmosfera inquietante per i silenzi contrapposti al rumore del treno.
Game Over di PES (Stati Uniti): PES è noto per le sue animazioni degli oggetti più impensati (la sua opera più famosa è Roof sex). Questo corto manda in sollucchero i trentenni, ricostruendo videogiochi dei primordi (Pac-Man, Asteroids, Space Invaders…) con cibo e altri oggetti quotidiani: spassoso e accolto da un’ovazione.
Do It Yourself di Eric Ledune (Belgio): il premio UNICEF parla di bambini, ma se ci fosse un premio dedicato all’impegno civile in un senso più ampio, credo proprio che Do It Yourself sarebbe stato un ottimo candidato. Il narratore di questo corto legge brani da un manuale della CIA ad uso dei dittatori sudamericani che spiega metodologie di tortura, fisica e psicologica; quello che rende efficace il messaggio è che alla narrazione sono accompagnate immagini che, in un contesto differente, si sposerebbero correttamente a quanto si racconta. Ad esempio, nel brano che suggerisce di andare a prendere i prigionieri all’alba si accompagnano immagini di pesca. L’ho visto due volte, e la prima me lo sono dormito. Tutti possono sbagliare.
Bernd und sein Leben di Stephan Flint Muller e Ingo Schiller (Germania): il ritorno di Stephan Flint Muller, il pazzo amatissimo autore di Bow Tie Duty for Squareheads. Questo corto è più equilibrato, più animato, verrebbe da dire quasi più professionale e maturo, ma la vena di follia non è venuta meno. Non è un capolavoro, ma è comunque da vedere e da goderselo.
Qualcosa dal povero programma di Panorama:
The girl who swallowed bees di Paul McDermott (Australia) : pur essendo non proprio un buon lavoro. questo corto si fa notare con un’estetica che ricorda quella del primo Tim Burton, delle filastrocche per bambini con rime un po’ ingenue, storie un po’ dark che parlano di freak.
Laika 1957 di Khai-dong Luong e Bruno Bonhoure (Francia): grazie a Laika 1957, ora sappiamo che la cagnetta Laika è stata scelta per la sua missione perché è lei stessa che ha sempre voluto andare nello spazio (e poi morire lì di una morte orribile).
Forecast di Adriaan Lokman (Paesi Bassi): signore e signori, ecco il vincitore morale del premio “Corto molesto” per Annecy 2007. Va detto che quest’anno la selezione non è stata un granché foriera di cortometraggi noiosi, presuntuosi e odiosi, ma Forecast ha dato non poche soddisfazioni. L’autore, tra l’altro, è persino il vincitore di Annecy 2002 con Barcode, ma in questo caso ha ben pensato di proporre 9 minuti e mezzo di nuvole in brutta CG condite con musica fastidiosa. Quasi commovente nella sua fastidiosità.
Un paio di segnalazioni dalla televisione.
Ruby Gloom “Unsung Hero” di Robin Budd (Canada): dell’unico programma TV che ho visto mi è piaciuto non poco l’episodio mostrato di questa serie, una sorta di famiglia Addams con protagonisti mostrini ragazzini in formato kawaii con non pochi riferimenti alla cultura “emo”. La puntata proiettata parlava di una partecipazione ad un festival rock in stile Lollappalooza da parte dei mostrini ragazzini in questione: carino, ma mi chiedo cosa un pubblico di pre-adolescenti (a naso il target di Ruby Gloom) possa conoscere del fenomeno dei festival rock degli anni ’90.
Allez raconte di Jean-Cristophe Roger (Francia): tratto dal fumetto del mio idolo Lewis Trondheim, è una serie tv di brevi episodi, ognuno dei quali racconta una favola come narrata da papà Trondheim ai suoi figlioletti. Lo spirito del fumetto è mantenuto e la parte grafica ispirata all’estrema sintesi di Parrondo è buona; le fiabe sono quindi assai poco tradizionali e tendenti al grottesco, ma ovviamente la qualità delle trovate del fumetto è superiore. Ciononostante, qualche sgignazzata per “Il paese delle caccole di naso” me la son fatta.
Per concludere, qualche parola sui film di scuola.
Telerific Voodoo di Paul Jadoul (Belgio): l’idea è buona: una civiltà cresce all’ombra di un conto alla rovescia di cui gli uomini sono consapevoli. Arrivati allo scadere dello “zero”, in un clima di suicidi di massa e isteria collettiva, non succede nulla e la vita continua. Qualche dubbio sulla realizzazione, ma Teleferic Voodoo ha colpito abbastanza. Musica techno spinta, realizzazione in 2d e 3d.
The cleaner di Dustin Rees (Svizzera): curiosa e tenera questa realizzazione elvetica, che racconta una serie di amori che nascono e muoiono mentre uno spazzino continua a fare il suo lavoro inconsapevole di quello che gli succede intorno.
Bob, Weiss, Eletvonal, Programme du jour: c’è un tema che è molto caro ai giovani animatori, tanto che ogni anno ci sono più corti che lo trattano: i pericoli dell’uniformità di pensiero e il tentativo di sfuggirne da parte di pochi individui illuminati. E’ probabile che chi decide di seguire una scuola di animazione in qualche abbia tendenze “alternative”, più o meno sincere, e quindi il tema viene abbastanza da sé. Bob è un buon lavoro, Eletnoval e Programme du jour sono meno interessanti e Weiss fa cagare.
All’anno prossimo, con un’edizione dedicata all’India. Gulp.
A grande richiesta (richiesta mia, almeno!) tornano i resoconti del nostro pelato amico in Giappone, questa volta alle prese con le più elementari necessità fisiologiche.
Ecco una dimostrazione esemplare del folle ingegno nipponico in grado di sconcertare l’occidentale medio: i cessi.
Innanzitutto il cesso è una stanza sempre separata dal bagno: essendo un popolo molto pulito, i simpatici ometti gialli passano gran parte della giornata a inzupparsi negli incantevoli bagni e, ovviamente, si rende necessaria la separazione (non sia mai che un’urgenza metta a rischio il rito del bagno).
Evabbè, differenze culturali: fin qui niente di strano. La vera follia riguarda la tazza: come si evince dall’esaustiva documentazione fotografica (per lo sconcerto di mia suocera che mi ha sorpreso a fotografarle il cesso) la tazza è gestita elettronicamente da un pannello di controllo piuttosto facile da interpretare anche per chi, come me, non ha dimestichezza con la scrittura giapponese; tramite questo si possono scatenare i seguenti eventi, tutti all’insegna del tipicamente nipponico “mai sporcarsi le mani quando non strettamente necessario”
– aprire e chiudere l’asse superiore e inferiore (pulsanti superiori)
– attivare getto pulitore (pulsantone al centro): trattasi di getto d’acqua con tipilogia e violenza dello spruzzo selezionabili (manopola al centro e tastini alla sua destra)
– attivare getto d’aria calda (tastino a sinistra della manopola)
– interrompere qualunque operazione indesiderata (pulsantone a sinistra)
– un misterioso tasto con la figura di una fanciulla (pulsantone a destra) suggerisce che si possa effettuare un’ulteriore operazione di pulitura specifica per appartenenti al gentil sesso: purtroppo pavidamente non mi sono avventurato a provarlo.
A ciò si aggiunga che l’asse inferiore è tenuto sempre in temperatura (37 gradi circa) e, se si attiva il sensore, l’asse superiore si alza automaticamente quando qualcuno entra in bagno e si abbassa quando quel qualcuno ne esce.
Tra le finalità del suddetto cesso vi è anche quella di combattere la stitichezza tramite l’utilizzo del getto d’acqua (con una tipologia di spruzzo detta “massaggio”).
Aggiungo che, seppur riluttante, ho provato tutte le funzioni descritte e le ho trovate estremamente confortevoli e funzionali.
Ciò, però, non mi ha impedito di sconcertarmi.
Qualche volta da piccolo venivo trascinato dai grandi al mercato di paese. Non che la mia presenza fosse necessaria, ma evidentemente non sapevano dove ficcarmi e quindi mi portavano con loro alla ricerca di zucchine e scamorze. Io detestavo queste occasioni, mi infastidiva la folla, mi annoiavo e mi stancavo; l’unica magra consolazione erano le bancarelle di giocattoli, presenza curiosa ma costante dei mercati di provincia. Ogni volta che ne scorgevo una, mi attaccavo alla gonna della mamma e le chiedevo: “Mamma, mamma, mi compri un giocattolo?”. La mamma, spirito pratico che voleva solo comprare i pomodori e la mortadella, ricorreva ad un trucco assai diffuso tra le genitrici di tutto il mondo e mi rispondeva: “Più in là c’è un’altra bancarella più bella”. Ovviamente la reiterazione dell’escamotage portava al termine del mercato stesso e il povero bimbo rimaneva con le pive nel sacco.
Una volta, però, opposi un netto rifiuto alla tradizionale proposta di rimandare l’acquisto alla supposta bancarella migliore. Non ricordo se avessi capito il trucco o se ci fosse un gioco che volessi in modo particolarmente feroce, ma ruppi talmente i marroni che ottenni l’acquisto di un balocco. Non ricordo quale, ma non importa: io ero gaio.
La mia felicità, però fu incrinata assai presto. Pochi metri dopo, c’era una bancarella di giocattoli molto più bella.
Tascaguanto: capo di abbigliamento lanciato nella collezione primavera/estate 1990 dalla stilista Rosanna Cambietti. Pubblicizzato al grido di “il nuovo accessorio per l’estate”, il tascaguanto era una specie di involucro di lana da mettersi sulle natiche, al di sopra della gonna o dei pantaloni, nel quale infilare le mani per riscaldarle. Data la conformazione dell’accessorio, in breve questo divenne noto come “guantochiappa”. Rimane oscura la motivazione che spinse la Cambietti a proporre nella collezione estiva un capo di lana studiato per riscaldare: alcuni sostengono che si trattava di una donna molto freddolosa, ma i più ritengono semplicemente che al momento della chiusura della collezione fosse ubriaca.
Nonostante tutto, il “guantochiappa” fu un enorme successo e nel 1990 era molto comune vedere gente camminare goffamente per strada con le mani sul proprio posteriore. Il tascaguanto tramontò quando, a febbraio 1991, scoppiò la moda di dar fuoco ai propri peti, procedura palesemente ostacolata dall’accessorio firmato Cambietti.
Jerry Porter e la Pietra dei Segreti: squallida imitazione di Harry Potter creata nel 2004 da Jimmy Esposito, italo-americano di Brooklyn. J.K. Rowling, quando è venuta a saperlo, ha fatto un cenno ai suoi servitori e il povero Esposito si trova ora sminuzzato nei pupazzetti di Ron Weasley.
Dendrobenzopireto: nome scientifico di una droga sintetica, volgarmente conosciuta come Inferno, scoperta nel 1976 dallo scienziato ungherese Anatoly Tripelmalt, nel corso di alcuni esperimenti sulla cicatrizzazione delle ferite da graffettatrice. Il dendrobenzopireto ha, come unico effetto consistente, quello di provocare uno stato allucinatorio che dà al soggetto la sensazione di avere delle enormi e dolorose emorroidi. In compenso, l’Inferno provoca facilmente assuefazione e ha una serie di spiacevoli effetti collaterali: tremito, convulsioni, vertigini, paralisi temporanea, arresto cardiaco e, su lungo periodo, emorroidi. Fino a pochi anni fa, a causa dei suoi scarsi vantaggi a fronte dei rischi elevati, l’Inferno è rimasto pressoché inutilizzato, non arrivando così a costituire un pericolo per l’ordine pubblico. Tuttavia, a partire dal 2003, anno in cui il Ministero della Salute ha inserito il Dendrobenzopireto nella lista delle sostanze strupefacenti fuori legge, questa droga ha conosciuto in Ungheria un’improvvisa popolarità, soprattutto fra i giovani, divenendo il perfetto coronamento delle notti brave in discoteca. Nel giro di 3 anni, il consumo è aumentato vertiginosamente e, secondo una stima dello stesso Ministero della Salute, il 53% dei ragazzi al di sotto dei 18 anni ha provato almeno una volta l’ Inferno, e il 12% ne fa un uso abituale.
Questo ha avuto notevoli ripercussioni sul sistema sanitario nazionale.
Beh, in realtà solo vincitori. I vinti sono tutti gli altri e non ho la minima intenzione di parlare di tutti quanti.
Parliamo quindi dei premi. Non dimentichiamo che, oltre i principali che ho già accennato nel primo articolo, esistono altri premi minori che forniscono una buona occasione per osservare anche altri punti di vista sul valore dei lavori presentati.
Seguirò in linea di massima lo stesso ordine della premiazione, dai meno importanti ai più importanti. Cominciamo dai premi minorissimi.
Premio FIPRESCI: si tratta della federazione dei giornalisti, e possiamo vedere questo trofeo come una specie di premio della critica. Vincitore ne è stato The Runt (Il più piccolo della nidiata) di Andreas Hykade (Germania). In uno stile pastelloso senza essere tenero né infantile The Runt racconta di un bimbo che vuole prendersi cura del più piccolo di una nidiata di conigli, ma senza poi avere il coraggio di macellarlo come aveva promesso al momento della nascita. Piuttosto duro e ben sviluppato.
Premio Sacem per la migliore colonna sonora: la Sacem è l’equivalente della SIAE in Francia e credo che sia altrettanto amata, dalle reazioni del pubblico. Comunque il premio l’ha vinto L’homme de la lune (L’uomo della luna) di Serge Elissalde (Francia) la cui colonna sonora non aveva colpito nessuno e della quale era privo lo spezzone riprosposto durante la premiazione. Il corto, comunque, non è privo di interesse, anche se la sceneggiatura è piuttosto contorta e a tratti piuttosto incomprensibile; parla di un uomo che ha sostituito la luna e viaggia su un pallone intorno alla terra imitandola. Curioso, e con un’estetica interessante.
Premio Canal+: terzo e ultimo dei “premi marchetta”, questo però si porta dietro qualcosa come 20.000 euro, quindi tanto trascurabile non è. Vincitore è stato Premier Voyage di Grégoire Sivan. Un tragicomico viaggio in treno di un papà imbranato con la sua figlioletta è narrato usando la plastilina, tanta ironia e un gran ritmo. E’ piaciuto molto, e il premio è senza dubbio meritato.
Premio UNICEF per il corto dedicato ai bambini: ogni anno ce n’è una: una produzione che magari è anche valida, ma che è sfacciatamente pensata per raccogliere la pietà dei giurati e vincere premi simili a questo. Quest’anno il “colpevole” è The Wrong Trainers, uno speciale televisivo di Margrie Kez (Gran Bretagna). Si tratta di più storie in tecniche diverse riguardanti bambini che vivono in povertà narrate dai bimbi in prima persona. Neanche brutto, per carità, ma sono troppo malvagio per certe cose.
Passiamo ora ai premi delle giurie junior (una intorno ai 13 anni per i film di scuola e una più piccola per i cortometraggi. Ci si chiede se questi ultimi vedono anche i corti con tematiche e situazioni per adulti).
Premio giuria Junior ai film di scuola: Welcome to Chapel District di Marie Viellevie (Francia). Sappiamo bene tutti che dopo Alan Moore e il suo From Hell non ha senso parlare di Jack lo Squartatore, ma comunque questo corto a tecnica mista, ricco di ritmo e con ampio uso di icone al confine con l’astratto è piuttosto valido.
Premio giuria Junior ai cortometraggi: Même les pigeons vont au paradis (Anche i piccioni vanno in paradiso) di Samuel Tourneux (Francia). Questo premio è invece più incomprensibile. Pur se realizzato in una buona grafica 3d, il corto è proprio stupido. Parla di un prete che cerca di vendere ad un vecchietto una macchina per andare in paradiso. La metafora di per sè ha un senso, ma la sceneggiatura è incoerente e piena di sciocchezze. Stupidi bimbi.
I film su commissione non li ho visti e non mi dilungherò oltre il titolo e l’autore.
Miglior Videoclip: Gérald Genty Plaire di Patrick Beraud Dit Volve (Francia)
Miglior film educativo, scientifico o aziendale: Bloot “Sekx” di Mischa Kamp (Paesi Bassi)
Miglior film pubblicitario: United Airlines – The Meeting di Wendy Tilby e Amanda Forbis (USA)
E ora i premi per la TV.
Miglior speciale TV: The Wrong Trainers di Margrie Kez (Gran Bretagna): beh, di questo ho già parlato.
Premio speciale per una serie TV: Charlie and Lola:I Will Be Especially, Very Careful di Kitty Taylor (Gran Bretagna). Non l’ho visto, ma faccio come i giornalisti veri e traduco la cartella stampa. “Lola è pazza di gioia quando Lotta accetta di prestarle il suo nuovo cappotto bianco morbidoso in cambio di una borsetta costosa. Lola promette di fare molta attenzione, ma non tutto va come previsto…” E ora invento un giudizio: spumeggiante e pedagogicamente valido.
Cristallo di Annecy per una produzione TV: Shaun the Sheep – Still Life di Cristopher Sadler (Gran Bretagna). Non visionato, anche qua traduco senza vergogna. “Un contadino si lancia nella pittura ad olio, ben deciso a dipingere un capolavoro. Ma appena gira le spalle, Shaun & c. decidono di provarci anche loro”. La clip mostrata durante la premiazione era in effetti divertente, e chi l’ha visto ne parlalola.jpglola.jpg un gran bene. Fidiamoci.
I più attenti avranno notato che tutti i premi per la TV sono andati alla Gran Bretagna. E’ un dato interessante.
Largo ai giovani, i premi di scuola.
Menzioni speciale ex aequo: Beton di Ariel Belinco, Michael Faust (Israele), una specie di commedia nera in stile pittorico sulla guerra. E’ un po’ triste il fatto che ogni singolo corto proveniente da Israele parli di guerra e terrorismo.
Menzione speciale ex aequo: The Wraith of Cobble Hill di Adam Parrish King (Stati Uniti). Non l’ho visto, ma appare come un amaro spaccato di realtà urbano realizzata in marionette e ripresa in bianco e nero.
Premio speciale della giuria: Milk Teeth di Tibor Banoczki(Gran Bretagna). Si tratta dell’unica scelta delle giurie che non ho condiviso affatto. Milk Teeth è un corto semi-visionario che parla di un bambino alle prese con una serie di situazioni ed immagini disturbanti. Totalmente privo di ritmo, di fascino visivo e di carisma narrativo, l’ho trovato davvero noioso e fastidioso.
Premio per il miglior film di scuola: t.o.m. di Tom Brown, Daniel Benjamin Gray (Gran Bretagna). Il vincitore assoluto è stato questo corto breve (meno di tre minuti) e curioso. Parla di un bambino che racconta con un tono a metà tra il cinico e il folle di come si spogli per strada prima di arrivare a scuola. Appare una sorta di gag, ma in realtà lascia un’impressione più profonda. In fondo, dopo lo stupore iniziale, non posso dirmi contrario alla scelta della giuria.
E anche qua i due premi principali sono finiti agli inglesi. I lungometraggi!
Premio del pubblico: Max & Co di Samuel Guillaume, Frédéric Guillaume (Svizzera). Il premio del pubblico ai lungometraggi è una novità del 2007, novità nata con il crescere del numero di lunghi in concorso. Tuttavia, la modalità di voto tende a premiare la quantità di gente che vede un film oltre che la sua qualità, e ho il sospetto che sia questa la ragione per la quale ha vinto Max & co., presentato in anteprima in pompa magna. Questo film, del resto, non l’ho visto e non ho la minima idea del suo valore, e a dire il vero non so nemmeno di cosa parli. Di mosche, forse (ho avuto un attacco di pigrizia e non mi sono documentato, già).
Menzione speciale: Toki o kakeru shojo (La ragazza che viaggiava nel tempo) di Mamoru Hosoda (Giappone). Si è sentito parlare non poco di questo anime ed era abbastanza atteso. Il premio, nel complesso, è piuttosto meritato, anche se con qualche riserva. La storia parla di una ragazza liceale che scopre di avere il potere di fare brevi viaggi nel passato. La trama fantascientifica si mescola ad un triangolo amoroso: già sentito come canovaccio, eh? Sì, ricorda molto il classico Orange Road, e il meccanismo per viaggiare nel tempo è addirittura identico! Il film, va detto, è ben girato, ma si perde un po’ nel finale quando arrivano gli “spiegoni”, c’è qualche incoerenza narrativa (d’altronde quasi fisiologica quando si parla di viaggi nel tempo) e il tutto diventa un po’ troppo melenso. Da vedere, però.
Cristallo per il lungometraggio: Slipp Jimmy Fri (Free Jimmy) di Christopher Nielsen (Norvegia, Gran Bretagna). Come anticipato, credevo che questo film fosse piaciuto solo a me, mentre invece anche i giurati l’hanno pensata in modo simile. Free Jimmy è un film dall’umorismo crudele e cinico, quasi sporco, con qualche debito ai fumetti underground americani da Crumb in poi. Parla di un’improbabile banda di malviventi norvegesi alle prese con partite di droga, zoo sull’orlo del fallimento, elefanti tossicodipendenti, mafia lappone e attivisti animalisti imbecilli. Non perfetto nella realizzazione, molto parlato, ma molto divertente.
E infine il piatto forte, i vincitori del concorso cortometraggi.
Premio Jean-Luc Xiberras per la migliore opera prima: Devochka Dura (Bimba stupidina) di Zojya Kireeva (Russia) Ha un pochino stupito questo premio, perché tra le opere prime c’era di meglio (ad esempio Madame Tutli Putli di cui parlerò in seguito), ma è certamente un buon lavoro. Parla dell’infanzia in Russia dell’autrice raccontata mediante brevi flash disegnati in uno stile pulito e gradevole.
Premio del pubblico: Peter & the wolf di Suzanne Templeton (Gran Bretagna) C’è un problema col meccanismo del premio del pubblico: ognuna delle cinque proiezioni prevede una votazione separata. In questo modo se due corti validi sono nella stessa serata si dividono i voti, mentre se un corto discreto capita in uno spettacolo per il resto scadente, prende tutti o quasi i voti. E’ un po’ quello che è successo per Peter & the Wolf, che è capitato in una serata davvero moscia, assicurandosi così la vittoria del pubblico. C’è da dire che l’opera della Templeton è ben più che discreta: la favola di “Pierino” e il lupo viene rielaborata a pupazzi assegnando a Peter uno sguardo fisso e gelido che lo rende più spaventoso del lupo. Per il resto, la trama e la musica sono quelle classiche: il limite maggiore di questo corto è appunto il fatto di non dire quasi nulla di nuovo. Però la qualità della realizzazione è mozzafiato.
Menzione speciale: The tale of How di The Blackheart Gang (Sudafrica) Uno dei corti più originali dell’annata, The tale of How è una schizzatissima opera visionaria, a base di animali surreali (ma ben lontani dai canoni di Dalì. Non tutti sanno ad esempio che i piranha sono uccelli) e musica in stile operistico. Breve, assurdo, folgorante, l’ho amato molto.
Premio speciale della giuria: The Pearce Sisters di Lius Cook (Gran Bretagna). Soddisfazione per il premio assegnato alle sorelle Pearce. Con gusto decisamente inglese, è una storia macabra di due sorelle e della loro squallida vita di pescatrici (non solo di pesci) in riva al mare. I disegni fortemente iconici, quasi espressionisti, il vento e il rumore del mare assordanti contribuiscono a farne un’opera dall’atmosfera molto particolare. Era il mio candidato per la vittoria finale.
Cristallo di Annecy per il miglior cortometraggio: Peter & the Wolf di Suzanne Templeton (Gran Bretagna) E di questo ho parlato sopra. Non posso dirmi contrario a quest’attribuzione, anche se, ripeto, ritengo che valga più per la realizzazione che per il significato del corto in sé. Forse è l’unica cosa che mi ha lasciato un pochetto di amaro in bocca.
Sì, britannici e britannici. La premiazione è finita, ora potete andare a mangiare, se trovate un ristorante aperto a
quest’ora. Possibilmente non uno inglese.
(next: una selezione di roba bella e brutta che vale la pena segnalare)