Alassio, 1 luglio 2007, ore 22 circa
Se i weekend estivi della Riviera ligure di Levante sono funestati dalla presenza dei milanesi, quelli della Riviera di Ponente sono invece meta preferita dei torinesi. Accanto a quelli “falsi e cortesi” delle barzellette sbarcano anche maniche di giovinastri, che scendono in spiaggia a giocare a pallone con lo stereo tunz-tunz a tutto volume. Quattro di questi ultimi sono i protagonisti di questa storia.
E’ una domenica sera, il giorno dopo la mia festa di compleanno. Tutti gli invitati sono partiti o in procinto di partire, quand’ecco che accanto alla stazione di Alassio assisto ad una scena che mi colpisce assai. Un’automobile rossa, una Peugeot 106 o qualcosa di simile, è parcheggiata maluccio e ha il cofano aperto. Nella sue prossimità stazionano tre tamarri, vent’anni o poco più, e una tamarra. Un tamarro è seduto per terra con aria sconsolata. Un altro dice:
– Ma p**** ***, perché cazzo dovevi schiacciare quel bottone?
e il terzo risponde:
– Ma che cazzo ne sapevo io, *** p****!
La ragazza sta seduta in macchina e manda nervosamente un sms, probabilmente scrivendo alla Giusi “x colpa d qll stordito d Omar sm blokkati in qst paese d merda!”.
Non mi son attardato ad osservare ulteriormente, ma non ho cessato di pensare alla loro miseranda situazione. Troppo tardi per trovare un meccanico aperto o prendere un treno, probabilmente senza abbastanza soldi per il soccorso 24 ore o per un alberghetto per passare la notte. E domani come faccio ad andare a lavorare al centro commerciale/benzinaio/ parrucchiere? Non una situazione simpatica.
Infatti il mistero della vita che mi tormenterà per sempre è sapere come se la sono cavata quei quattro disgraziati, e soprattutto che cacchio era quel bottone che tamarro #2 ha schiacciato e che ha bloccato la zarromobile (io lo immagino come l’autodistruzione delle Time Bokan, un enorme bottone rosso al centro della plancia di comando). Tamarri in questione, se siete in ascolto battete un colpo.
Esistono due modi per montare un rotolo di carta igienica: facendo in modo che il nuovo strappo “cada” dall’alto (tecnica cascata) o facendo in modo che sbuchi dal basso (tecnica topolino). E’ anni che mi arrovello per capire se una delle due strategie abbia dei vantaggi rispetto all’altra, ma non ho trovato soluzioni. Mi limito ad usare la cascata perché mi soddisfa di più esteticamente.
Passando in treno sulla linea Genova-Milano presso Arquata Scrivia, sull’Appennino Ligure, si passa accanto ad un ampio edificio diroccato (ad est della linea ferroviaria). Si tratta della Fabbrica di Materassi di Arquata Scrivia. O no? In realtà mi pare piuttosto improbabile, e potrebbe essere qualunque cosa, forse una centrale elettrica, forse un capannone di chissà che, magari un orfanotrofio. Non mi interessa nemmeno moltissimo, chi ha voglia di cercare su wikipedia o sul sito di Arquata forse potrà trovare la risposta. La mia domanda è: chi diavolo mi ha messo in testa che si tratti di una Fabbrica di Materassi diroccata e perché?
(dedicato a Chicca, che condivide con me l’amore per la Fabbrica di Materassi di Arquata Scrivia)
(E con questo mi attiro l’odio feroce di migliaia di esercenti, ma non posso credere di essere l’unico ad averci fatto caso)
Perché ci sono più gay plateali tra i benzinai che tra gli stilisti?
Ho un debole per la “conta” scatologica del ponte di Baracca:
Sotto il ponte di Baracca
c’è Pierin che fa la cacca.
La fa dura dura dura,
il dottore la misura,
la misura trentatré
uno due tre.
Mi son sempre chiesto con quale unità di misura il dottore misurasse la cacca di Pierino. Trentatrè centimetri di lunghezza, forse? Ma dal contesto sembra che il dottore (ma poi sarà lo stesso con la figlia zoofila in Ambarabà?) misuri la durezza della cacca, non la lunghezza. E come sanno tutti i lettori di etichette di acque minerali, la durezza si misura in gradi francesi. La cacca di Pierino, quindi, ha una durezza di trentatré gradi francesi.
Eppure, c’è qualcosa che non mi quadra…
Perché le compagnie di autobi [1] non assumono più controllori?
E’ ben noto che sia conveniente non pagare il biglietto sui mezzi pubblici: costa di meno affrontare una multa una volta ogni tanto invece che timbrare il biglietto regolarmente, vista l’esigua probabilità che salgano i controllori. D’altronde, ogni volta che i simpatici signori in divisa (o, ultimamente, pure in borghese!) salgono sui mezzi beccano sempre qualcuno in flagrante: dati i quaranta euri o giù di lì di multa, non può non essere vantaggioso spingere in questa direzione. Forse i controllori hanno stipendi stratosferici o dei costi pazzeschi di formazione/assicurazione/tasse che io ignoro. O magari gli introiti da biglietti sono minimi rispetto ai finanziamenti pubblici, e quindi non vale la pena insistere più di tanto.
Per la cronaca, io pago il biglietto (e questo magari si sarà capito) soprattutto perché detesto fare figure di popò e perché, ovviamente, faccio parte dei buoni.
[1] plurale di autobus, è latino!