Quand’ero piccolo amavo raccontare una barzelletta che era nota al parentado come “barzelletta sadica”, e che recitava così:
Pierino ha una sorella che si chiama Della. Un giorno la mamma manda Pierino e Della dal salumiere chiedendo loro di prendere un etto di prosciutto. Mentre attraversano la strada, Della finisce sotto una macchina e muore. Pierino torna a casa di corsa e grida “E’ morta Della! E’ morta Della!” e la mamma: “Ma io ti avevo detto di comprare prosciutto…”
Raccontavo frequentemente questa barzelletta per suscitare disapprovazione tra i parenti, ma il particolare che non mi piaceva era che Della mi pareva un nome davvero poco plausibile. Non conoscevo nessuna che si chiamasse così! Meglio, a questo punto, le gag con “Mando Lino, Manda Rino”…
La cosa mi ha tormentato per decenni, fino a quando, poco tempo fa, mi è capitato di rivedere l’albero genealogico della famiglia dei Paperi formalizzato da Don Rosa basandosi sulle storie di Carl Barks.
E allora tutto mi è stato chiaro: la misconosciuta sorella di Paperino, la madre di Qui Quo Qua, si chiama appunto Della. La barzelletta ha trasfigurato Paolino Paperino in Pierino, e questo spiega perché i nipotini, ormai orfani, siano stati affidati allo zio. Tutto per colpa di un etto di cotto.
Continua (e finisce, state tranquilli!) la panoramica dei libri sui quali mi sono soffermato nella mia gioventù.
Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain: per qualche misteriosa ragione, da giovane non mi è mai capitato sottomano il libro gemello di Tom Sawyer, Le avventure di Huckleberry Finn, universalmente ritenuto superiore. L’ho letto e apprezzato solo nel 2006 finendolo sul traghetto per Cefalonia, ma qua stiamo parlando di Tom Sawyer, quello meno bello, quindi smetto di divagare. Tom Sawyer ce l’avevo, in un cartonato marrone illustrato (poche illustrazioni, giusto una dozzina, ma sufficienti per rovinarsi il piacere di immaginare i personaggi a proprio piacimento), e mi era piaciuto un pacco, e l’ho riletto quelle 5-6 volte. In particolare, amavo la parte finale con l’avventura nelle caverne, che mi lasciava sempre col fiato sospeso…come se non sapessi come andava a finire!
Come particolare inutile, si sappia che la prima volta che l’ho preso in mano ho sperimentato una cabala particolare: si prende la prima e l’ultima parola del libro; se questi due vocaboli, letti di seguito, formano una sintassi coerente, allora il libro sarà bello. Mi ero imposto di farlo per tutti i libri. Non l’ho mai più fatto per altri, né ricordo se la cabala avesse dato risultato positivo o negativo. Miserabile fallimento.
Guarda e scopri gli animali della preistoria: io da piccolo non volevo fare l’astronauta, o l’esploratore, o il calciatore: volevo fare il paleontologo. Purtroppo, nella mia classe e tra i miei amici nessuno condivideva la mia passione per i dinosauri: la cosa è assai strana, perché ho scoperto dopo che sono un oggetto di culto molto comune tra i bambini, quindi l’anomalia non ero tanto io ma piuttosto l’insieme dei miei conoscenti. Avevo però la miseria di due libri sui dinosauri (più i frammenti ne Il grande libro del Sapere), dei quali il mio preferito era Guarda e scopri gli animali della preistoria. Beh, alla seconda rilettura non c’era molto più da scoprire, li conoscevo già, quindi avrebbe dovuto mutare titolo in Guarda gli animali della preistoria.
Ad ogni dinosauro quel libro dedicava due pagine: quella di sinistra aveva un’illustrazione a tutta pagina e il box Lo sapevate che…, quella a destra era dedicata ad informazioni più dettagliate sul lucertolone in questione. La citata sezione Lo sapevate che… era costituita da una serie di curiosità del tipo “…che l’anatosauro aveva oltre 5000 denti?”, tutte corredate rigorosamente dai puntini di sospensione all’inizio e il punto interrogativo alla fine. Io mi sentivo in dovere di rispondere mentalmente “sì” ad ognuna di esse, raramente “no” se ripassavo qualche rettile meno interessante, come l’ittiosauro che sembra troppo un pesce per essere figo come un dinosauro vero.
Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: ok, ammetto che la mia frequentazione de Il Signore degli Anelli esce un po’ dal seminato de “i bambini vogliono sempre le stesse cose” e si riconduce invece a patologie più geek tipo i trekker o i Marvel zombie o i fan di Star Wars o, in tempi più recenti, appunto i fan di Tolkien. Ho letto il romanzo in questione per la prima volta in prima media, per la seconda volta nell’estate tra la seconda e la terza media, e poi, dalla prima liceo al secondo anno di università, una volta all’anno. Era quasi diventato un rito: in autunno, più o meno nello stesso periodo in cui Frodo parte per la sua avventura, attaccavo Una festa a lungo attesa e arrivavo tipicamente a I rifugi oscuri verso Natale. Poi mi son stufato.
La famosa invasione degli orsi in Sicilia, di Dino Buzzati: libercolo in rime e illustrato (credo da Buzzati stesso), per anni mi ha suggerito che Buzzati fosse principalmente uno scrittore per bambini. E poi l’altro suo libro che avevo visto in casa era Poema a fumetti! Dovrei rileggerlo, ma da quel che ricordo era una tipica satira della società umana mascherata sotto forma di animali. Un buon esempio di libri per adulti che piace anche ai bambini, o viceversa.
Tutta Mafalda di Quino: un giorno un’amica di mia mamma piombò a casa con un regalo per i bambini: Tutta Mafalda, la raccolta completa delle strisce su questo personaggio. Io ignoravo completamente di che si trattasse, tanto che, cercando il nome dell’autore sulla copertina, decisi che era un certo Bompiani. Il povero Quino se fosse morto si rivolterebbe nella tomba, quindi si limiterà a rivoltarsi nel letto. Mi son potuto così tuffare nell’Argentina degli anni ’60, un universo a me sconosciuto, così lontana sia nel tempo che nello spazio. Era un mondo colmo di riferimenti che non coglievo: i Beatles, Fidel Castro, Nixon, la guerra del Vietnam, la tartaruga chiamata Burocrazia (da piccolo dicevo “burocràzia”, non sapendo di cosa si trattasse) e, come scoprii più tardi, un’ovvia ragione per la mancanza di riferimenti espliciti alla politica interna argentina, se non la percezione generale di una società ricca di contraddizioni e con un disagio diffuso e difficile da esprimere. Mafalda ha lasciato un’impronta molto marcata sul mio modo di vedere le strisce: al di là della battuta, se non le vedo calate nella società e nel mondo contemporaneo mi paiono insipide. Persino i Peanuts.
Alba del domani, a cura di Isaac Asimov: sottotitolato La fantascienza prima degli anni d’oro, si tratta di un bel volumone cartonato in cui Isaac Asimov introduce una serie di racconti di fantascienza degli anni ’30, pubblicati su riviste pulp. Non sorprenderà nessuno sapere che la parte migliore del volume sono i cappelli di Asimov, in cui, tra autobiografia, divagazioni e vanagloria racconta l’intreccio tra l’evoluzione della letteratura di fantascienza in America e la sua gioventù. In inglese “fantascienza” è “science fiction”, narrativa scientifica (a pensarci, l’opposto del termine italiano!), ma i racconti, da questo punto di vista, erano ingenui e stupidini: no! anche se il modello comunemente proposto per gli atomi assomiglia ad un sistema solare, non è plausibile che rimpicciolendosi si scopra che è veramente un sistema planetario perdipiù popolato da omini strani! Il territorio della fantascienza è il verosimile, non l’impossibile! Ciononostante, o magari appunto per questo, erano racconti che avevano il giusto mix di esotismo, di avventura e di scorrevolezza per poter essere apprezzati da un giovane lettore. E infatti li apprezzai, li lessi, li rilessi e li rintintin. Se riuscite a tralasciare questo agghiacciante calembour, concluderò dicendo che non invece non ho mai letto un granché della fantascienza dei cosiddetti anni d’oro. Mi son limitato a quel che veniva prima: un po’ come se vedessi e rivedessi “Il colosso di Rodi” senza affrontare mai i western di Leone.
Ogni tanto sento dire da qualche parente o conoscente sconsolato provvisto di pargoli qualcosa del genere: “E’ incredibile! Guarda continuamente <Bongo>“, dove <Bongo> è una variabile che indica un film la cui qualità non è importante. Ricordo come esempi reali I figli del capitano Grant per le figlie di Gianni o Spider-Man per il mio cuginetto Elia (mio zio trionfante gli portò Spider-Man 2 ma a Elia non poteva fregarne di meno, lui voleva Spider-Man!) o ancora La Compagnia dell’Anello per un amico del mio amico Alessandro. Similmente si sente dire “E’ incredibile! Vuole sempre che gli racconti la stessa storia!” o, per bimbi più acculturati, “E’ incredibile! Legge continuamente lo stesso libro!”.
Ma no, non è incredibile. Non so se la cosa è pedagogicamente nota, ma io ho notato come i bambini amino ritrovare nelle storie quello che già conoscono . Il fatto che molte opere a loro dedicate siano ripetitive o seguano certi schemi predefiniti ne è una conseguenza, ma spesso il bambino vuole ritrovare addirittura le stesse parole.
Io non faccio eccezione. A casa mia non c’è mai stata grande abitudine di raccontare favole, ma quando succedeva, crollasse il mondo se era qualcosa di diverso da Cappuccetto Rosso o Biancaneve. Inoltre quand’ero piccolo i videoregistratori esistevano solo nelle case dei più facoltosi early-adopter, quindi non avevo possibilità di rivedere sempre gli stessi film. Ma per le letture…beh, non credo che sia passato qualcosa tra le mie mani senza che io l’abbia letto almeno due volte. Ogni singolo numero di Topolino veniva riletto più volte, ma persino fetecchie come Trottolino o Tarzanetto venivano ripassate. E poi c’erano alcuni volumi che avevo periodicamente tra le mani.
Ad esempio:
– Io Paperone e Io Topolino: bella forza, direte voi, sono una collezione di storie mozzafiato di Carl Barks e Floyd Gottfredson! Li ho ripresi in mano non molto tempo fa, e mi son sorpreso a rendermi conto di come le storie mi tornavano in mente con le esatte frasi, rimaste sepolte solo sotto un velo di polvere. Credo che questi volumi siano molto diffusi nella mia generazione, tanto che credo che quasi tutti sappiano che un rubino striato vale molto di più di un rubino a pois, che Lampo Nero è danaro sicuro, che un cavallo da corsa se non vince finisce alla fabbrica di colla, e che una manciata di terra può valere di più di una luna tutta d’oro. I due volumi in questioni sono stati talmente consumati che sono stati ricopertinati da un rilegatore, e comunque qualche sedicesimo volante c’è tuttora.
– Il grande libro del Sapere: ai miei tempi c’era una collezione maligna di libri dal dorso giallo della collana “I grandi libri del…”, che più o meno entravano in tutte le case. Erano probabilmente considerati un regalo “semplice” per regalatori svogliati. Io ne possedevo tre: della Natura, della Mitologia (che poi era un pallosissimo dizionario mitologico) e del Sapere. Quest’ultimo era il mio preferito, anche se non ricordo quale fosse il tema primario del volume; ricordo tuttavia che le sezioni di scienza erano le mie favorite, e in qualche modo sapevo dove aprire quel volume da 500 pagine nel punto giusto per ripassarle. Alas, non ricordo quasi nulla dei testi come erano scritti lì, ma suppongo che abbiano fornito una base per case che poi ho reimparato e approfondito in seguito.
– I ragazzi della valle misteriosa v.1: ah! Mettetevi comodi! Pur sforzandomi, non riesco a capire perché io abbia letto così tante volte I ragazzi della valle misteriosa v.1. Tale volume, un cartonato bianco illustrato, narrava delle peripezie di Eva e Pietro, due orfanelli che, per sfuggire a qualche mal specificata persecuzione andavano con gli zii a fare gli eremiti nella misteriosa Valle Misteriosa. Gli zii morivano durante il viaggio, e i due si ritrovavano a vivere come nella preistoria, abitando in una caverna, accendendo il fuoco con le pietre e difendendosi dalle fiere. Il volume 1 finiva con il capitolo “Pietro beve il sangue dell’orso”, ovviamente per acquisirne la forza dopo averlo ucciso. Non ho mai saputo come andasse avanti e tantomeno come finisse la storia, cosa che rende ancora più incredibile il fatto che lo rileggessi spesso, ma mi aspetto che a un certo punto i persecutori arrivassero nella Valle e/o che sbocciasse l’amore tra i due (stile Laguna Blu). Qualche tempo fa ho cercato in rete qualche informazione per vedere se esisteva in commercio il seguito o perlomeno trovare un riassunto, e ho trovato qualcuno che citava lo “sceneggiato tv più beghino mai prodotto”. Ho quindi capito che il libro era una riduzione di una qualche produzione televisiva anni ’70 e, che, anche se non ricordavo alcun elemento esplicitamente religioso nel primo volume, in effetti i nomi di Eva e Pietro probabilmente non erano scelti a caso. Comunque sia, non so tuttora come finisca. Pazienza.
Ok, giacché sono abbastanza allenato ad avere la faccia come il culo, è giunto il momento di riversare brutalmente le mezze idee che ho nel file “pinguini.txt” da anni, idee che non sono abbastanza forti per reggere un post tutto per loro ma chi mi dispiace buttare via completamente. Fatene buon uso.
Mangiando il pesce, il bicchiere assume in qualche modo il sapore ittico, e quando si arriva al dolce la cosa è molto fastidiosa.
Quand’ero piccolo non dicevo “per giove” perché mi pareva eretico citare un dio pagano. Allora dicevo “per giove pianeta”.
E’ un bel problema quando si sternutisce mettendosi la mano davanti alla bocca e poi non si ha un fazzoletto a portata di mano.
Da bambino, a casa mia il nome familiare che si usava per i peti era “put“. Quando ho iniziato a programmare in Basic Vic20 e ho scoperto l’istruzione Input sono morto dal ridere. In-put… hai capito? Prot!
Ci sono alcune frasi vere quasi per tutti, ma che ognuno credere essere peculiari per egli stesso. Potrebbero essere utilizzati dagli oroscopisti. Ad esempio:
Io sono bravo e buono, ma quando mi arrabbio divento una belva!
Nel mio lavoro bisogna continuamente tenersi aggiornati.
Il mio peggior difetto è che sono troppo buono.
E’ molto antipatico tagliarsi con la carta.
Sarebbe utile poter avere una sorta di banca dei parcheggi. Capita spesso di trovare tanti parcheggi quando, ovviamente, te ne basta uno solo. In questo caso, si assume un credito di parcheggio, che si riscuote poi quando non se ne trovano. (Vi assicuro che quando ho pensato questa non ero ubriaco)
Krispy: al secolo Manuela Sessamanti, Krispy è una meteora musicale degli anni ’80. Il nome di “Krispy” non evoca alcunché ai più, ma è sufficiente ricordare l’intro di tastiera e bongo del suo hit Baby coconut perché si materializzi in mente l’immagine di quella ragazzina prosperosa che squittiva nei video di Deejay Television.
La sedicenne Manuela era
(sì finisce proprio così. Questa è una voce dell’Enciclopedia Stronza il cui incipit mi piaceva ma per la quale non sono mai riuscito a trovare un proseguimento decente. Lo lascio al lettore per esercizio.)
Pochi giorni fa, facendo ordine in casa ho trovato una piccola scatola che portava la dicitura Uomo tamponato cognac. Il mio subitaneo smarrimento è durato poco, mi son ricordato in fretta che era la scatola del portafoglio che mi han regalato per Natale: un portafoglio da uomo color cognac. Ignoro cosa voglia dire tamponato, ma dev’essere un tecnicismo dei portafoglivendoli; chi avesse voglia di fare ricerche sarà ringraziato. Tuttavia, è impossibile non rimanere ipnotizzati dall’immagine che evoca quell’espressione: Uomo tamponato cognac.
Io mi immagino un uomo perbene stile gentiluomo meridionale, vestito con un completo color coloniale, coi baffi e magari anche il cappello, che seduto su una poltrona da barbiere dice al suo tonsore, dopo la rasatura: “Sa, Filippo, oggi avrei proprio voglia di una tamponatura…vediamo, sì, al cognac”. E il barbiere: “Ottima scelta, dotto’!”.
Oppure, mi figuro un alcolista che sta cercando di smettere. Sa che se assume un solo goccio di alcool dovrà riniziare da capo la disintissocazione, e sono già due settimane che non beve niente. Eppure, la tentazione è fortissima: per cercare un palliativo usa tamponi di cognac: versa del costosissimo liquore su un batuffolo di cotone idrofilo e si cosparge il viso. Il profumo di quel nettare gli dà temporaneo sollievo, o almeno così crede.
O ancora, la mia mente vola ad un vecchietto col cappello che sta viaggiando lieto sulla sua Panda. In prossimità di un passaggio pedonale rallenta, quand’ecco che, bang!, viene tamponato violentemente da una Golf. Belin belin, scende alterato e, resosi conto che il malfattore è alticcio, chiama le Forze dell’Ordine. I solerti caramba arrivano e, constatato che il tamponatore ha una bottiglia di cognac vuota accanto a sè, marcano sul verbale: “Codice A302 – Uomo tamponato cognac”. Chiaramente, il codice A303 è “Donna tamponata cognac”, mentre l’A301 corrisponde a “Uomo tamponato grappa”. L’A302 è piuttosto raro (al contrario dell’A301 che è molto comune), tanto che l’appuntato Chiarullo passerà la settimana a bullarsi coi colleghi per averne redatto uno.
Non è infrequente che a scuola gli studenti riversino il loro odio nei confronti dei professori, spesso intesi come categoria in generale, arrivando a dichiarazioni del genere “Tutti i professori sono bastardi”. Io avevo una percezione ben diversa, poiché i miei genitori erano professori, e quando alle medie mi dicevano “Ah ah sfigato figlio di professori” non potevo che scrollare le spalle e fare il superiore.
Eppure, ripensando alla mia carriera scolastica, non posso non ricordare una serie di eventi da stigmatizzare riguardo coloro che mi insegnavano.
Per iniziare, la mia maestra alle elementari era sottilmente antisemita. Sì, ci faceva leggere il diario di Anna Frank, condannava l’Olocausto, però neanche tanto tra le righe ci diceva che gli ebrei sono cattivi perché hanno ucciso Gesù. Sorvolando sul fatto che Gesù fosse ebreo, ovviamente. E poi sappiamo tutti che gli ebrei sono cattivi non per motivi religiosi ma perché vogliono dominare il mondo, come ampiamente dimostrato dai Protocolli dei Savi di Sion.
Un altro insegnamento errato della cui utilità mi son sempre chiesto è quello di “aiuole”. E’ una passione di tutte le maestre affermare che “aiuole” è l’unica parola italiana che contiene tutte le vocali (è cioè panvocalica). Già alle elementari mi ero reso conto che la parola “cuoiaie” è pur essa panvocalica. E’ vero che è inusuale e declinata, ma lo stesso vale per “aiuole”. E’ però vero che quest’ultima contiene le vocali senza ripetizioni. Eppure, anche la parola “eiaculo” (voce del verbo “eiaculare”) ha la stessa proprietà. Non capisco perché non ce l’abbiano insegnata (comunque, trascurando anche altri neologismi come “quizzarole”, il semplice termine “guidatore” è panvocalico senza ripetizioni. Credo che Bartezzaghi abbia fatto un censimento ampio di termini simili).
Della mia maestra, però, devo dire che aveva un approccio piuttosto moderno alla matematica, partendo dagli insiemi e parlando poi di operazioni e relazioni di ordine sugli insiemi, cosa che corrisponde al concetto di algebra omogenea con predicati. Non posso dire altrettanto della mia professoressa di matematica delle medie. La sventurata era una biologa, ma per i misteriosi meccanismi della Pubblica Istruzione insegnava matematica e scienze alle medie, con la preparazione di un solo esame universitario di matematica generica (un estratto di Analisi I con una spruzzata di statistica, credo). Conseguenza è stata che quando ha dovuto insegnarci le regole dei segni (più per più fa più, più per meno fa meno, meno per meno fa più…) ha avuto il coraggio di asserire che “non c’è una ragione precisa, è così e basta”. Eh, no, ciccia, non è un assioma, è un teorema e in quanto tale si può dimostrare a partire dagli assiomi! E ora me lo fai a casa per esercizio!
Già che parliamo di medie, stigmatizziamo il professore di musica che avevo in prima. Le ore di musica, per caso, erano sempre all’ultima ora, da mezzogiorno all’una. Questo signore arrivava, proclamava di essere stanco per aver lavorato tutta la mattina, e si metteva a leggere il giornale. Purtroppo, però, non ci lasciava cazzeggiare in allegria, ma ci faceva star buoni dandoci sempre lo stesso esercizio: scrivere della musica a caso sul pentagramma. Giacché ci aveva insegnato solamente che in un 3/4 la somma della durata delle note deve fare 3/4, si trattava di un mero esercizio di somma di frazioni e di disegno di puntini con la stanghetta. Cosa implichi invece che una certa composizione sia in tre quarti è invece per me tuttora un mistero. Questo spiega molte cose, nevvero?
Concludo la trattazione delle medie stigmatizzando la prof di ginnastica (pardon, di “educazione fisica”) che pretendeva di fare lezione in classe. Ok, bonga, capisco che la tua professionalità viene lesa dal fatto che tutti pensano che educazione fisica = ricreazione. Ma un po’ di pietà!
Curiosamente al liceo, al di là della prof del terrore che ho già trattato, ho avuto abbastanza fortuna. C’era il professore di scienze che si divertiva a chiedere chi “giustificava” e poi non interrogare nessuno, ma a posteriore ho imparato ad apprezzare questa sottile crudeltà come forma di umorismo. Stigmatizzerò solo la professoressa di matematica del triennio, che conosceva la materia, sapeva insegnarla, ma aveva la rara capacità di farla odiare a tutti, vessando con gratuità severità gli studenti. Ad esempio, non solo dava i compiti nelle vacanze estive, ma pretendeva che le venissero inviati per posta periodicamente! Leggere il giornale in classe è perdonabile, uno studente può comunque essere invogliato, magari per ripicca, ad approfondire la materia per proprio conto. Trasmettere odio per il proprio insegnamento è invece il peccato peggiore per un professore. Per fortuna, ho riscoperto l’amore per la matematica all’università, altrimenti sarei stato un individuo più culturalmente povero. Ancora di più, cioè.