E così per essere alla moda avete passato i mesi scorsi ad accumulare ciondoli per cellulare con Winnie the Pooh travestito da qualunque bestia possibile oppure qualche tipo di emulo di questi affari. E ora ne avete tanti e non sapete cosa farne, visto che di cellulari ne avete solo due o tre (come ogni ggiovane che si rispetti).
Per i maschietti che mi leggono, ho una splendida proposta: bucatevi il frenulo e decorate il vostro ariete dell’amore con Winnie the Pooh. Le vostre amichette potranno coniugare la loro passione per i molesti ciondoli con quella per il vostro mastodontico wurstel della felicità.
(e le femminucce? Eh, belin, noi creativi sforniamo un’idea buona all’anno, altrimenti poi ci svendiamo. Ripassate per l’estate 2007.)
Marge (rivolta ad Homer): "I bambini possono essere crudeli…"
Bart: "Davvero possiamo?"
Lisa: "Ahia!"
Una delle prerogative che ho sempre invidiato ai bambini consiste nel poter prendere in giro i propri coetanei e sbeffeggiarli senza provare alcuna restrizione morale nel farlo né doversi preoccupare di farlo per bene. In realtà io da piccolo ero troppo timido e perbene per poter prendere in giro i miei amichetti, quindi subivo e basta, e per di più ho ricevuto negli anni davvero tanti soprannomi, la maggior parte dei quali irriferibili o quasi. Per vendetta ho raggiunto una straordinaria esperienza ed abilità nell’inventare pseudonimi per le persone. Provateci anche voi con questi semplici consigli.
a) Le rime sono verità. Un soprannome che contiene una semplice rima non solo è più facile da ricordare, ma acquisisce anche un’autorità non trascurabile. La somma delle componenti di Suocero Facocero è assai maggiore delle due prese singolarmente.
b) Siate pretestuosi. Aggrappatevi a qualunche minimo appiglio per infestare le vite delle vostre vittime. Se un vostro (ex) amico una volta ha raccontato di aver fatto un peto, chiamatelo pure Scoreggia di Versailles, se una sfortunata è a malapena capace di cucinare, che diventi Culatta Pignatta.
c) Si eviti il riferimento a personaggi famosi, reali o inventati. Se qualcuno ha molti nei, può essere chiamato Bruno Vespa, ma la cosa è terribilmente insipida. Similmente, chiamare un appassionato di pesca Sampei merita non dico la pena di morte, ma almeno la tortura. C’è da dire che la maggior parte dei soprannomi di questo tipo che si trovano sono nickname in rete, e in quanto tali sono autoimposti.
d) Le storpiature dei cognomi funzionano molto meglio di quelle dei nomi. Questi ultimi o sono troppo comuni (e i relativi soprannomi quindi usurati: Pippo per Giuseppe) o troppo rari (e allora il nome stesso è una maledizione: che gusto c’è a chiamare Sanbernardo uno che si chiama Albelardo?). I cognomi permettono di sbizzarrirsi di più, ma è fondamentale essere creativi. Ad un poverello, per fare un esempio a caso, che si chiama Ventimiglia, non affibbiate Trentamiglia o Sanremo, ma piuttosto il surreale Millemetri o il discreto Ventiminchia. È concesso di deformare anche oltre il conoscibile se il risultato è valido: Caprioli che diventa Caccaruoli funziona bene.
e) I riferimenti al carattere di solito non funzionano molto bene, e paradossalmente tendono ad offendere le persone molto più di soprannomi pretestuosi e volgari. Quelli sul fisico possono andare, ma sono banali e quindi sconsigliati.
f) La regola più importante: siate i più volgari possibili, sia in senso scatologico che sessuale. Per le signore funzionano meglio i suggerimenti: gli aggettivi Sbrodolona,Bagnata, Mutandalisa associati a qualche epiteto sono particolarmente efficaci ed offensivi. Per gli uomini, invece, si consiglia piuttosto una combinazione di turpiloquio e la buona vecchia omofobia che non tradisce mai, anzi, aggiunge quel je-ne-sais-quoi a pseudonimi per il resto meno interessanti. Derviscio Culoliscio, al di là della potenza della rima, è un gioiello per ciò che suggerisce, mentre Ugo Sborrasugo è senza alcun dubbio particolarmente disgustoso (e questo è un bene!).
g) Il soprannome va usato con moderazione, e non deve mai sostituire il nome vero ma diventarne un complemento, pena la sua perdita di consistenza. L’uso deve quindi arrivare nei momenti più inaspettati, e non con continuità. Esistono però due tecniche che contraddicono la precedente asserzione: la prima consiste nel variare continuamente il soprannome secondo uno schema preciso. Così, se uno ha la disgrazia di chiamarsi Alberto lo si può apostrofare come Roberto, Lamberto, Adalberto, Gianberto, Bomberto, Huyukkuberto e così via. Per esperienza so che questo approccio funziona molto bene. La seconda ne è l’opposto: prevede l’utilizzo del soprannome in funzione di "epiteto", magari apponendolo al nome vero, e implica un uso continuo ed asfissiante. In tal caso, il soprannome dev’essere corto e denso, possibilmente anche astratto. Il mio ex-coinquilino Il Sire sa bene quanto questo approccio sia potente.
E ora potete divertirvi a farvi un mucchio di nemici anche voi!
Noi siamo una minoranza, ma non per questo cesseremo mai di lottare contro la legge e le assurde morali di questo fottuto sistema!
Negazione, "Maggioranza/Minoranza"
– Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste, cioé che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c’è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un’isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza…e quindi…
– Auguri!
Nanni Moretti, "Caro Diario"
Credo che tutti prima o poi ci siamo cascati: la sensazione di calore e di superiorità e il sottile fascino che dà l’appartenenza alla minoranza a volte è molto appagante, e il suo sottile fascino a volte è irrestistibile. Ci si sente in qualche modo migliori, quando tutti gli altri fanno qualcosa e noi facciamo il contrario, ma, a ben vedere, è un atteggiamento sciagurato. Renzo S., caro compagno dei primi anni di università, era uno di quelli che, per distinguersi, quasi sistematicamente devono fare il contrario delle persone che lo circondano. Il problema è che i suoi amici più o meno facevano lo stesso, e così lui si ritrovava in qualche modo al punto di partenza, cioè in una compagnia assai più numerosa. Per fare qualche semplice esempio, se i suoi amici giocavano di ruolo, passatempo inconsueto, lui non lo faceva ritenendo (a ragione, tra l’altro) l’attività come alienante. Se i suoi compagni di merende ascoltavano Heavy Metal (genere per pochi), lui si dedicava al pop. Tale caratteristica del suo carattere era così marcata che si decidette di forgiargli un epitaffio con largo anticipo (si spera!). Dopo diversi tentativi Carlo L. propose ciò che sarà scritto sulla tomba di Renzo: La pecora nera/ di un fosco gregge/ è una pecora bianca. C’è da dire a difesa di questo figuro che quasi certamente il suo atteggiamento era spontaneo e non premeditato, in linea con il candore del personaggio (che, quindi, era crudelmente soprannominato Il Deficiente).
In realtà la cosa è assai più diffusa anche se in genere meno maniacale. A volte esiste una vera e propria piramide di negazioni successive, ogni livello della quale è più snob del precedente. Prendiamo l’atteggiamento verso i reality show, piaga e piacere della tv degli ultimi anni. Esiste un livello zero di persone che semplicemente amano questo tipo di trasmissioni. Esistono poi altre persone che li detestano, ma non in quanto tali ma semplicemente perché commettono il peccato di essere troppo popolari: questo è il livello uno. Al livello due ci sono coloro che tornano a guardarli, ma asserendo di farlo sopra le righe, deridendo chi ignora. Oltre di essi ci sono le persone, al livello tre, che si comportano come quelli del livello uno, ma con la motivazione di disprezzare i finti intellettuali snob che dicono di apprezzare trasmissioni così becere. Eccetera: ovviamente la maggior parte delle persone non appartiene a questa piramide ma non guarda i reality show perché non gli piacciono e basta.
Per quanto mi riguarda, è da tempo che sono consapevole di quanto sia attratto dalla tendenza. Prima di spinguinare l’atteggiamento probabilmente sono stato quasi patologico nel cercare l’abbraccio dei pochi. Mi rendo conto che forse non poche delle mie scelte, grandi e piccole, sono state fatte per inconscio rigetto alla soluzione più semplice e, di conseguenza, di maggioranza. Il cellulare Wind. La facoltà di Scienze dell’Informazione. Lo sfondo del PC color viola acceso. L’heavy metal e poi il punk (da giovane!). Andare al cinema quando non c’è nessuno.
Non ne sono contento, è una soluzione troppo facile; è moralmente altrettanto riprovevole che adattarsi alla massa per mimetismo. Dirò di più: il conformismo nell’anticonformismo forse è ancora più odioso perché, pur partendo dalle stesse basi e raggiungendo gli stessi risultati, è più consapevole, più ricercato e nella sostanza parimenti influenzato dalle mode. Ricordo di quando, in un Centro Sociale, ero guardato malissimo perché indossavo vestiti normali e non la "divisa" di abiti trasandati che tutti avevano. Che fare, quindi? È veramente così difficile essere se stessi in un mondo che continua a proporti modelli? Riuscire ad accettarli o rifiutarli puramente per il proprio gusto e le proprie convinzioni morali? Sì, è molto difficile. Non è una buona ragione per non provarci. Da domani cambio sfondo al PC e lo metto verde.
Passa in TV una puntata della serie animata americana Kim Possible. "Realtà virtuale? No, è più una specie di realtà attuale!". Attuale? Ma che vuol dire? Quando la frase mi suona male, ho imparato un trucchetto: ritraduco come se fossi un inglese che parla italiano maccheronico[1] e ritrovo quello che era in originale. "Actual reality", certo, "realtà vera": ha senso come contrasto rispetto alla realtà virtuale.
Non è la prima volta che mi trovo di fronte ad errori che farebbero impallidire non dico un professore di inglese, ma anche solamente chi mastica la lingua d’Albione un po’ di più di "the cat is on the table", e mi son messo a ragionarci sopra.
I telefilm e le serie animate sono i media più massacrati da traduttori incompetenti: sembra ovvio che la versione in italiano non venga affidata a professionisti del ramo, essendo considerata un lavoro quasi elementare sui cui costi si può tagliare. Si prende quindi qualcuno a caso un po’ scarico di lavoro, oppure qualche consulente con i conoscenti giusti:
– Lo sai l’inglese?
– Certo! (chi nega di sapere l’inglese, ormai?)
– E allora traduci questo!
Non si tratta solo di prodotti televisivi; anche nei fumetti a volte si trovano alcuni orrori (ma sempre con meno frequenza, va detto, almeno per quanto riguarda l’inglese[2]) per non parlare della letteratura "di consumo". Un pochino meglio va per i film distribuiti al cinema mentre l’alta letteratura di solito ha il privilegio di professionisti molto bravi. Non si affidano Hemingway, Dickens e Capote al fratello del cognato del direttore che dice di aver passato tre mesi a Detroit. Inoltre, il settore dell’animazione giapponese moderna affianca due figure (il traduttore e l’adattatore) la cui combinazione fornisce quasi sempre prodotti di qualità molto alta. Dev’essere una sorta di vendetta karmica per tutte quelle serie storiche i cui dialoghi erano inventati o quasi. "Hiroshi, devo dirti la verità. Tu sei come Superman!"[3]
Non entrerò nel merito della qualità letteraria della traduzione, anche se guardando i telefilm in inglese mi rendo conto di come i dialoghi di Buffy the Vampire Slayer, di West Wing o di Ally McBeal risultino appiattiti, ma mi limiterò a trattare gli errori oggettivi. Essi sostanzialmente sono di due tipi:
Sviste: traduzioni frettolose dovute ad una combinazione di scarsa conoscenza della lingua e poca voglia di controllare la coerenza fattuale. La maggior parte derivano dai cosiddetti "false friends", parole che ricordano un equivalente in italiano ma in realtà significano tutt’altro. L’esempio sopra citato di "realtà attuale" è ottimo, ma estremamente comune (quasi la prassi) è anche tradurre "silicon" con "silicone" e "nitrogen" con "nitrogeno". Il silicone esiste, ma viene usato per le zinne finte invece che per i transistor, i quali sono fatto di silicio (la traduzione corretta). Il nitrogeno invece è una versione terribilmente obsoleta per il più comune "azoto". Frequente è anche "sensitive" tradotto con "sensitivo" invece che con "sensibile", mentre si trovano meno di frequente "fattoria" per "factory" o, dal francese, "tutto il mondo" per "tout le monde".
Cappelle: si tratta di traduzioni completamente errate, in cui il traduttore si rende conto che c’è qualcosa che non va ma non riesce a districare il senso, e allora si butta un po’ a caso. Quasi tutti coloro che conoscono l’inglese ne hanno colta almeno una. Citiamone qualcuna.
–Futurama, puntata 3×01, "La macchina satanica". Il robot Bender viene colpito da una specie di licantropia che nelle notti di luna piena lo trasforma in una "auto-che-era". Eh? Col solito trucco della traduzione inversa maccheronica, otteniamo "were-car". "Werewolf" e’ il lupo mannaro, una "were-car" e’ una "macchina mannara". Insomma, ho visto giochi di parole piu’ difficili da intuire e tradurre!
– Buffy the vampire slayer, puntata "The wish". Il capo dei vampiri, il cosiddetto "Maestro" (gia’ brutta traduzione di per sé di "Master", ma non è questo il punto), pare abbia dei gusti un po’ fru-fru. Infatti ad un certo punto un personaggio proclama: "il Maestro rosa"[4]. Col procedimento usuale, otteniamo "Master rose". Quando a scuola hanno spiegato il paradigma di "to rise" (alzarsi, levarsi) il traduttore doveva essere assente: "Il maestro si è levato".
– Wolverine: nel fumetto Wolverine 20-21, Play Press degli anni d’oro, si leggeva il dialogo: "Quel porco della Guinea, Roughouse, è sopravissuto?". La Guinea è un paese dalla fauna piuttosto interessante, e probabilmente qualche specie di maiale c’è. Peccato che il "Guinea pig" non sia altro che una piccola, tenera, sfigatissima cavia da laboratorio.
– La città di Tantras, di Richard Awlison. Quand’ero giovane avevo il vizio di leggere romanzetti fantasy, scritti male e tradotti peggio. In uno di questi un chierico che aveva perso i suoi poteri incontra degli zombi. Dommage! "Avrebbe voluto avere ancora la facolta’ di trasformarsi in quelle orribili creature.". Chiunque abbia esperienza coi logori stereotipi del fantasy e dei giochi di ruolo sa bene che i chierici hanno il potere di "scacciare i non-morti", (un’estensione del concetto di esorcismo), cosa che in inglese suona come "turn undead". Di lì a "turn into an undead" (trasformarsi in un non morto) il passo è breve, almeno secondo la fantasia del nostro provetto anglicista.
Un piccolo mondo a parte è infine dato dai giochi di parole intraducibili e tradotti letteralmente o quasi, cosa che genera un po’ di straniamento ma sulla quale non mi sento di infierire. In questi casi, o si inventa qualcosa di completamente diverso o si lascia stare, traducendo letteralmente e perdendo l’effetto comico. Ad esempio, in una puntata della V stagione dei Simpsons, Homer mentre guida investe una statua di un cervo. Dialogo:
Homer: D’oh!
Marge: Un cervo!
Lisa: Un cervo femmina!
Il che non ha nulla di male, ma non si capisce dove stia il senso o la battuta. Rivedendolo in inglese ho colto:
Homer: D’oh!
Marge: A deer!
Lisa: A female deer!
Suona qualche campanello? Si tratta dell’omofono del primo verso della canzone delle note nel film Tutti insieme appassionatamente in inglese (The Sound of music): "Doe, a deer, a female deer", che in italiano è "Do se do una cosa a te". Assolutamente impossibile tradurlo, ma sospetto che Tonino Accolla (il traduttore/adattatore/direttore del doppiaggio/doppiatore) non abbia nemmeno lontanamente intuito la citazione.
Un esempio minore l’ho individuato nel film di Wallace and Gromit. Due cani litigano e volano con degli aeroplanini da giostra, sulla quale c’è scritto "Combattimento di cani". In inglese, "dogfight" significa anche "combattimento aereo". Ma questi sono solo alcuni piccoli esempi. Sono convinto che ognuno, lì fuori, abbia una sua cappella preferita. Vero? [5]
[1] Però il termine "maccheronico" mi suona bene solo per gli italiani che parlano male le lingue straniere, non viceversa. Per gli inglesi si potrebbe dire "pudding italian", o "porridge italian" (hanno qualche altro cibo?)
[2] Ho dei forti dubbi sulle traduzioni dei manga, ma a parte difetti macroscopici come l"Aula di gastronomia" in 20th Century Boys è assai difficile capire dove ci siano errori veri e propri.
[3] Così viene liquidato il momento più drammatico di Jeeg Robot d’acciaio, la scena in cui il padre di Hiroshi rivela al figlio che è stato trasformato in un cyborg.
[4] Oh, non che ci sia qualcosa di male! Il rosa e il viola sono i miei colori preferiti.
[5] Lo so che mi sto esponendo a battutacce da caserma, quindi fate i bravi!
Tempo fa girava nella blogosfera una catena in cui si elencavano le proprie abitudini assurde. A me non è arrivata (tutti mi odiano, ma in questi casi è meglio così), ma ne ho una la cui origine non riesco a ricordare e il cui senso mi sfugge.
Finché ho vissuto coi miei, l’estate e l’inverno erano nettamente separate dal tipo di coperte che stavano sul mio lettino. In inverno mi infilavo sotto la trapunta, in estate mi coprivo con lenzuola ed eventualmente con un plaid; il cambio tra le due modalità simboleggiava in qualche modo il passaggio di stagione. Ebbene, due volte all’anno, in occasione di questo evento, il giovane Luca cantava l’inno nazionale prima di andare a letto. Si trattava di un’abitudine talmente stupida e assurda da essere completamente inspiegabile e da andarne fiero: infatti non ho smesso fino ad un’età di oltre vent’anni. Immaginatevi un imbecille in pigiama che massacra "Fratelli d’Italia" peggio di un calciatore. Ecco, ora potete smettere di ridere.
Come i miei amici e i più affezionati lettori sanno, sono riuscito a dribblare l’Esercito Italiano. Ho avuto la fortuna di essere riformato, ma anche se ai tre giorni avessero deciso altrimenti, avrei comunque scelto il servizio civile, più per motivi etici che per convenienza (non si dimentichi mai che io faccio parte dei Buoni!).
Ascolto quindi sempre con un tocco di curiosità i racconti di coloro che sono stati sotto le armi (sempre più rari) ed ho notato alcune affinità tra di loro.
Quelli che hanno fatto il militare non hanno problemi ad usare il cesso alla turca anche per i bisogni più, ehm, voluminosi: anzi, lo preferiscono perché è più igienico. Io trovo che la tazza sia l’unica possibile argomentazione a favore della superiorità della civiltà occidentale, però io non ho fatto il militare.
Quelli che hanno fatto il militare spiegano sempre con orgoglio di tutti i trucchi che hanno imparato per imboscarsi, per evitare di fare ciò che era loro compito. Io penso che si tratti di un atteggiamento estremamente riprovevole e lesivo per la società nel suo complesso, però io non ho fatto il militare.
Quelli che hanno fatto il militare sanno aprire le bottiglie di birra con una forchetta. In realtà lo sanno fare anche gli scout, ma la cosa non mi stupisce, trattandosi di un’organizzazione paramilitare. Io ritengo che se c’è l’apribottiglie ci sarà una ragione, però io non ho fatto il militare.
Quelli che hanno fatto il militare in fondo in fondo disprezzano i civili. Chi non è buono per il re non è buono manco per la regina, e allora si sentono più uomini. Io ho la convinzione che la virilità non dipenda da aver passato un anno a dormire insieme a gente con i baffi né a saper sparare con un fucile, però io non ho fatto il militare.
Quelli che hanno fatto il militare quando nominano la loro esperienza di naja sputano per terra dal disgusto, però quando attaccano a declamare i loro aneddoti a proposito non la finiscono più. A me pare questo sentimento di disprezzo misto a nostalgia pare assurdo, però io non ho fatto il militare.
Ora il servizio militare non esiste più. Ci avvieremo verso un futuro in cui la gente defecherà seduta, svolgerà i propri compiti, aprirà le bottiglie coi mezzi adatti, non saprà sparare e sarà meno loquace sugli aneddoti su sergenti autoritari. Saranno tempi grami.