“Ehi, ti sei tagliato i capelli?”
“No, me li ha tagliati il barbiere.”
Una volta ogni mese e mezza, a questa inevitabile domanda scioccherella rispondo con un sarcasmo e un’antipatia eccessivi persino per un vecchio orso come me. Non amo andare dal barbiere: non sono abbastanza vanitoso da essere felice di “farmi bello” facendomi sistemare la capigliatura, e quell’oretta che devo passare sulla poltrona otto volte l’anno mi scoccia tantissimo. Comunque sia, nella mia vita mi son fatto tagliare i capelli solo da 6 taglieri (taglieri?!?) diversi. Mettetevi comodi.
Da piccolo, andavo dal barbiere da cui si serviva il mio papà, andando di solito con lui. Situato ad Alassio, sull’Aurelia poco lontano dalla stazione, la sua insegna era un povero “barbiere friseur”. Per anni sono stato convinto che “friseur” fosse il nome di quel signore, laddove invece, ovviamente, è solo la traduzione in francese del suo mestiere. A oggi, non so ancora come si chiamasse il “barbiere friseur” di Alassio. Non ho grandi ricordi di quel signore, se non che era pelato col riportino, usava un camice azzurro e tendeva a pettinarmi invece che tagliarmi i capelli, ma erano ancora tempi da “riga di lato” per gli uomini, i capelli corti non si usavano. Ricordo parimenti che utilizzava una schiuma da barba che, in caratteri grossi sulla confezione, portava scritto “Prima della rasatura, durante la rasatura, dopo la rasatura”. Cosa capitasse prima, durante e dopo la rasatura era stampato troppo piccolo per poterlo leggere, e non lo saprò mai.
L’impero del Barbiere Friseur è durato fino ai miei 11 anni, intervallato solo da altri due visitatori della mia crapa quando, in vacanza a Sassello, la comunità decise che dovevo proprio tagliarmi i capelli e non potevo aspettare il ritorno nella mia natia cittadina. Il primo è stato l’unico barbiere di Sassello, sul quale non ho proprio nulla da dire (capita anche a me!), l’altro è stata mia nonna, che dotata di forbici e asciugamano decise che si potevano risparmiare quelle 10000 lire e farlo in casa. Al ritorno ad Alassio, Barbiere Friseur disse: “Ti ha fatto un sacco di scale!” e io ci rimasi male.
Un giorno, ero in prima media (1986, quindi), avevo bisogno del barbiere e capitò che Mario, amico di famiglia già citato qua, si offrì di accompagnarmi. A causa di un quipproqquò, ero convinto che saremmo andati da Barbiere Friseur, in quanto identificato come “quel barbiere vicino alla stazione”. E invece no. Finii da un altro barbiere, anch’esso vicino alla stazione ma in un’altra direzione. Non che mi trovai particolarmente meglio, ma magari come segno di indipendenza decisi da allora di andare da questo nuovo sforbiciatore. Poiché sono un pusillanime e non voglio che legga di sé tramite i motori di ricerca, chiamerò la sua bottega “Erinni i parrucchieri”, usando la versione greca del suo cognome. Ammicc’. Il signor Erinni era il babbo, e aveva due figlioli (uno dei quali compagno di classe di mia sorella) a lavorare con sé, dopo che entrambi erano stati a far la scuola di barbieri a Torino. Non mi trovavo malaccio con loro, più che altro perché erano piuttosto rapidi, sapevano cosa volevo (potevo quindi dire “il solito!” senza dovermi affannare a spiegare come volessi i capelli) e avevano imparato che non mi va di parlare di calcio, figa, Formula 1 o di simili argomenti da uomini che sono la norma di quei luoghi. Mi siedevo, mi facevo gli affari miei e loro lavoravano in fretta. Tutto bene per oltre vent’anni. Nel 2008 successero però due nefasti eventi coincidenti: il signor Erinni smise di lavorare (stava in negozio ma non faceva più nulla) e il negozio si aprì alle donne. Una seduta media di una donna da un parrucchiere è assai più lunga di quella di un uomo, tantopiù con due terzi della manodopera precedente, e tantopiù che, vivendo io a Genova, potevo andarci solo di sabato. Dopo aver passato due o tre volte mezzo sabato pomeriggio in attesa del mio turno, mi son deciso a malincuore a cambiare, e visto che cambiavo ho deciso di passare a Genova, così da poter andarci nei giorni feriali.
Ho provato a chiedere ai colleghi qualche consiglio ma non ho ottenuto raccomandazioni particolarmente significative, quindi ho deciso di andare assolutametne a caso, e ho scelto un barbiere a Boccadasse, vicino a dove lavoro, chiamato Matteo. Non si chiama così ma è un altro evangelista. Non io, e nemmeno quello di Venezia. Sì, l’ultimo, quello cazzuto. Matteo, un signore di una certa età, all’inizio mi ha conquistato. Fin dall’inizio si è piccato di essere un uomo di cultura, e di leggere oltre cinquanta libri all’anno, e “mica gialli!”. Alle mie indagini mi son reso conto che legge solamente saggi, in generale di politica e divulgazione scientifica (soprattutto biologia e chimica), e, pur non essendo io ferratissimo in alcuni argomenti, ho avuto l’impressione che non li capisse mica tanto. Ciononostante, l’ho trovato un conversatore interessante e stimolante, e anche se ho dovuto faticare un po’ a fargli capire come volevo i capelli ho deciso di continuare a servirmi da lui. Tuttavia, nelle sessioni di barbieraggio successive, ha iniziato a derivare in modo inquietante. Le chiacchierate, in qualunque modo partissero, finivano sempre per arenarsi sulle sue passeggiate domenicali in montagna. E’ un argomento che ritengo assai poco interessante, ma pazienza: anche senza il bonus della conversazione, sarebbe stato comunque un barbiere rapido ed efficiente. Quello che invece mi ha fatto scappare è il fatto che, narrando delle sue peripezie in montagna, a un certo punto l’anziano tonsore arriva sempre a inveire contro i piacentini che incontra sui monti del levante ligure, gente per la quale, per qualche ignota ragione, prova un odio profondo, tanto che inizia a agitarsi e le sforbiciate diventano sempre più violente e rabbiose. Ho solo due orecchie, e mi piacerebbe conservarle intiere. Quindi, ciao ciao Matteo, è stato un piacere.
E così il mese scorso ho provato un ulteriore barbiere, nel centro di Genova. Non ha eccelso né nel bene né nel male: mi ha colpito solo che aveva un “ragazzo”, un apprendista, che mi ha lavato i capelli con una cura impressionante. Giovani entusiasti, poi passerà. Non sono certo di volerci rimanere: dipende quanto sarò pigro il mese prossimo quando sarà il momento di tosarsi. Rimanete sintonizzati, so che fremete dalla curiosità.
Anche se è già passata, ho un sacco di cose da dire sull’Epifania, una meno interessante dell’altra. Vi vedo già fregarvi le mani per potermi deridere.
C’è da raccontare l’aneddoto sul carbone dolce. Mi spiedo, come dice il pollo: a casa XXmiglia non si portano i regali ai bambini per la Befana, ma solo i dolci nella calza, e con una condizione: solo se sono stati buoni! Ai bambini cattivi, quella vecchia zoccola della befana che non sa farsi i cazzi suoi porta il carbone. Un anno si decise di fare un simpatico scherzo ai bambini: nascondere caramelle e cioccolatini e mettere nella calza del carbone di zucchero, un prodotto probabilmente escogitato appositamente per simili goliardate. Curiosamente non ricordo come reagii io, ma ricordo invece che mia sorella era inconsolabile: “Sono stata buona! Perché ho avuto il carbone?”, singhiozzava tra le lagrime. “Ma no, sì che sei stata buona, non vedi? E’ carbone dolce!”, cercavano di rimediare i grandi. Eh, ma il carbone è carbone, che sia dolce o amaro. Le regole della Befana non lo specificano, quindi eravamo stati cattivi. Che disdetta.
C’è comunque da stigmatizzare la seconda dose di regali che i bambini più viziati ricevevano o ricevono oggi. Sì, sto parlando proprio con te. Vergognati!
C’è da commentare la strana usanza che si sta diffondendo di fare gli auguri alle donne per la Befana. Mi dà l’idea di qualcosa nata come ironia da parte degli uomini, o ancor di più autoironia da parte delle donne, e poi sia un po’ sfuggita di mano e abbia perso la sua valenza originaria per diventare un’abitudine. Oggi, il sei gennaio si fanno gli auguri alle donne e non si pensa molto al fatto che la ricorrenza è data da vecchia una signora repellente con un sacco di bubboni.
C’è da narrare l’aneddoto sull’ultimo pranzo delle feste del Piccolo Luca. Questa è veloce: a casa XXmiglia/Bielli e dintorni nelle feste di Natale erano previsti sei pranzoni/cenoni. Il 24 dicembre sera, in occasione dell’apertura dei regali, era la cena dei bambini, a base di pizzette, cocacola, salatini e panini al latte farciti. Il 25 a pranzo era il pranzone di Natale, a base di carne: agnolotti, stracotto, salumi. Il 26 il pranzo di Santo Stefano era parimenti abbondante e a base di pesce: salmone, cozze, spaghetti ai frutti di mare, scampi. Qualche giorno di pausa, e si arriva al cenone del veglione, a casa della nonna coi suoi amici. Non paghi, il pranzo dell’1 era anche più rigoglioso (nonché detestato quand’ero più grandicello e facevo bisboccia a capodanno). E infine, quando le panze erano già stroncate, c’era l’ultimo colpo di grazia per salutare le feste (e il fegato) all’Epifania.
E infine c’è da esegesizzare la ben nota filastrocca:
La befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
il vestito alla romana
viva viva la befana
Tutti, suppongo, si son sempre chiesti in cosa diavolo consista un vestito alla romana. Forse sarà come gli gnocchi alla romana, quindi fatto di semolino. Però probabilmente solo io mi son chiesto perché bisogna festeggiare una di cui conosciamo solo le abitudini notturne, la vetustà delle calzature (che diamine, invece di portare il carbone ai bimbi cattivi vendilo e comprati un paio di crocs verde smeraldo nuove!), e l’abbigliamento fatto di semolino. Boh. Viva viva lo stesso.
Beh…buona befana (in ritardo) a tutte!
Ai miei tempi, quando non c’erano internet e i blog e Maispeis e Fessabuca, i liceali (anzi, soprattutto le liceali) avevano il Culto del Diario. Forse ce l’hanno ancora, non lo so, non frequento liceali, ma a me piace credere che i tempi sono cambiati e i giovani d’oggi non si dedicano più al Culto del Diario, così posso fare un po’ il vecchio brontolone.
Il Culto del Diario consisteva nello scrivere roba sul proprio diario scolastico, affiancando così voti e compiti a disegnini, scritte giganti fatte con l’Uniposca, osservazioni sui propri compagni di classe scritte in un alfabeto segreto (*), testi di canzoni di Vasco Rossi, poesie maledette. I più feticisti (o forse i più cubisti sintetici) incollavano anche ricordi come biglietti dell’autobus usati per uscire col fidanzato, messaggini cartacei dello stesso, o, sfiorando la perversione, ciocche di capelli o addirittura mozziconi di sigarette (bleah!).
Accanto a tutto questo, c’erano le frasi standard, quelle che “suonano bene” o fanno ridacchiare e che sono state inventate da chissà chi. Sarebbe bello raccoglierle e osservare la loro evoluzione nel tempo e nello spazio, ma sarebbe necessario l’accesso a migliaia di diari di ragazzine e leggerli tutti con attenzione. Che palle, fatelo voi!
Qua ci limiteremo a qualche esempio:
Non urlare forte la tua felicità, la tristezza ha il sonno leggero.
(Brrr…)
Come la barca lascia la scia, io ti lascio la firma mia.
(Forse questo è un po’ più infantile, e tipico di chi prende il diario di un altro e non sa che scriverci. Però l’espressione “lascia la scia” è un gioiellino poetico. Un abbonamento semestrale a “Trottolino Mese” a chi mi dice di che figura retorica si tratta.)
Lo studio è lavoro, il lavoro è fatica, la fatica è sudore e sudare fa male. Quindi, ci ce lo fa fare?
(Di questo so persino la fonte: una cartolina di auguri di Lupo Alberto. Comunque, non è vero che lo studio è lavoro, non necessariamente il lavoro è fatica, non sempre alla fatica corrisponde il sudore, e in ogni caso sudare non fa male. Quindi studiate, sfaticati!)
Se fumi Marlboro, ti amo e di adoro. Se fumi Muratti, ti amo da matti. Se non fumi niente, ti amo ugualmente.
(Probabilmente la mia preferita. Adoro l’implicazione dell’ultima frase: “Anche se è noto che tutti gli adolescenti ganzi fumano, giusto per te potrei fare un’eccezione e amarti lo stesso. Però vediamo di rimediare, eh! Il tabacchino sta lì dietro.”)
Se ne avete altri da citarmi, sarei l’uomo più felice del mondo. Ovviamente non lo griderò, c’è Mariagrazia Tristezza che dorme sull’amaca qui vicino.
(*) Uno degli atti più malvagi che io abbia compiuto nella mia vita è copiarmi un po’ di queste frasi dal diario di una mia compagna di classe. Essendo un banale sistema crittografico del tipo “a simbolo uguale corrisponde lettera uguale”, in una mezzoretta lo decifrai e scoprii un sacco di tresche che prima ignoravo.
Alassio, 1982 circa
Un giorno, quand’ero piccolo venni a sapere un’informazione preziossima: “La croce su cui è stato crocefisso Gesù è stata divisa così: un braccio a Roma dal Papa, un braccio a Gerusalemme, e un pezzettino a tutte le chiese del mondo”. Non ricordo bene chi mi sentì in dovere di comunicarmi questa incontrovertibile verità, forse mia sorella o forse qualche compagnuccio di scuola, ma mi colpì assai. Innanzitutto mi chiesi dove fosse tenuto il pezzetto di croce appartenente alla chiesa che frequentavo allora. Mi autoconvinsi che si trovasse nell’altare, in quella specie di cassetta con una porta che mi sembrava di oro massiccio, e le noiosissime messe furono allietate dal brivido di essere vicini a un pezzetto della Vera Croce.
Ma non solo: iniziai a riflettere sui problemi pratici che comportava questa regola. Quando viene fondata una nuova chiesa, cosa succede? Ci sono due possibilità: o quando è stata fatta la divisione primordiale tutta la croce è stata divisa tra le chiese esistenti allora, oppure solo una parte di essa è stata divisa, e il resto conservato da qualche parte e tenuto per le future consacrazioni.
Nel primo caso, per dare un briciolo di croce alle nuove chiese l’unica possibilità è che un’altra chiesa si privi di un pezzetto del proprio pezzetto di legno. “Ah! E io dovrei dare un po’ della mia croce a quelli di San Busiano Superiore? Ma che bisogno avevano di fare una chiesa nuova, non potevano continuare ad andare a messa da noi a San Busiano Inferiore? No, no, io non gliela do. Che siano quelli di San Busiano Mediana a dividere il proprio tessoro”.
Le cose vanno anche peggio per quel che riguarda la seconda ipotesi. Innanzitutto, dove viene conservata la croce ancora da dividere? A Roma, probabilmente, e questo potrebbe anche starmi bene, però allora non venirmi a raccontare la favola di “un braccio a Roma, il resto a tutte le chiese del mondo”, quando chissà quanta altra parte della croce se ne sta a Roma lì dal Papa. E poi le chiese sono in continuo aumento, i missionari si danno da fare! Prima o poi, se si dà a tutte le chiese la stessa quantità di reliquia, quest’ultima finirà, e allora ricadiamo nel primo caso. Una soluzione è diminuire progressivamente il volume di croce da dare a ogni croce, secondo una legge esponenziale negativa, in modo da non raggiungere mai lo zero e garantire quindi la possibilità di infinite divisioni. L’effetto collaterale, però, lo immaginate tutti: “Ah, ah! Quei puzzoni di San Busiano Superiore hanno un pezzetto di croce molto più piccolo del nostro, quindi noi siamo migliori di loro e andremo in paradiso più forte”.
Questi sono i problemi più evidenti, ma non son mica gli unici…
a) la basilica di San Pietro, oltre al suo braccio, ha diritto anche al suo pezzettino, in quanto chiesa? Proprio incontentabile, il Papa…
b) di preciso, dove sta a Gerusalemme quel braccio? E poi, va bene che Gesù ha avuto la strana idea di nascere da quelle parti, ma un intero braccio in un posto dove sono tutti di religione diversa?!?
c) se una chiesa perde il suo pezzetto, ne ha diritto a uno nuovo? Si sa che dovrebbe tenerlo ben da conto, ma gli incidenti capitano, e tra tutte le chiese che ci sono ogni tanto a qualcuno succederà di passare l’aspirapolvere con troppa solerzia.
d) quando una chiesa viene sconsacrata, che succede del suo pezzettino? Fammi indovinare…torna a Roma dal Papa!
Ecco, ora non riuscirò più a dormire a causa di tutti questi dubbi… Aiutatemi.
Ho sempre invidiato chi è capace di andare in bicicletta senza mani. Io non riesco nemmeno a immaginare come sia fattibile una cosa del genere: secondo me quelli che lo fanno hanno delle rotelle ai lati per non cadere, o un dispositivo antigravitazionale, oppure mi danno da mangiare il peyote per farmi vedere quello che non è vero.
Sono le uniche spiegazioni possibili.
(Questa è una delle sette ragioni per cui non vado in bicicletta. Lascio per esercizio al lettore di trovare le altre sei.)
Questa foto è stata scattata col cellulare dal distributore di merendine nella cosiddetta “Area relax” (un termine che trovo meraviglioso!) dell’ufficio ove lavoro.
Un giorno, accanto alle patatine San Carlo, ai Fonzies, agli Yonkers, sono comparse le Rap Chips, e lì sono rimaste per un po’ di giorni senza che nessuno osasse avvicinarle. Non che fossero passate inosservate: accanto alle battute obbligatorie, le pause caffé sono state allietate dalle discussioni sulla follia del grafico delle Rap Chips, che per qualche misteriosa ragione ha messo un omino che corre a testa in giù, e ha scelto una combinazione di forme e di colori che da lontano sembrano una svastica. Dolo o semplice incompetenza? Il mistero resta tale… Quello che è successo, però è che l’omino delle merendina, rassegnato, dopo pochi giorni le ha depennate, e le nazipatatine sono svanite come puzzette in una tempesta.