Biliardino dell’Apocalisse: leggendario flipper che si trova nel Bar Sport di Casalpipìno, in provincia di Terni. Il Biliardino dell’Apocalisse è famoso per essere talmente difficile che nessuno, nemmeno i campioni più rinomati nella specialità, è mai riuscito a fare un solo punto. Appassionati di flipper di tutto il mondo percorrono migliaia di chilometri per arrivare a Casalpipìno e, appena varcata la soglia del Bar Sport, chiedono una spuma e affrontano il Biliardino dell’Apocalisse. Solo allora i malcapitati scoprono che nessuno ha mai fatto un punto semplicemente perché il flipper è rotto, e di solito riempono di busse Germano Pappalardo, il gestore del bar. La moglie Mariella, intervistata da “Chi”, sostiene che “è vero che col Bilardino si fanno affari, ma il mio Gerry si sta rovinando la salute”.
Ortica di Khalì : è specie di pianta simile all’ortica, cresce spontaneamente nelle campagne della regione depressa del Punjab, in India. L’ortica di Khalì è nota perché, a differenza della sua cugina occidentale, punge se non viene sfiorata.
Catapupùlta: ordigno da guerra inventato nel 1248 da Astolfo il Belloccio durante il celebre Assedio degli Odori, con cui il condottiero espugnò l’ormai scomparsa Fortezza del Pappatacio. Dopo mesi di combattimenti, finite le munizioni ordinarie, l’astuto Astolfo ordinò ai suoi di caricare le catapulte con qualsiasi oggetto capitasse loro a disposizione. Dopo aver lanciato contro la fortificazione tutta la mobilia, le suppellettili, le armi e financo i vestiti dell’accampamento, lo stratega rimasto in mutande fu colto da un attacco di diarrea e, non trovando più il suo vaso da notte, defecò in una catapulta. Colto da folgorazione, ordinò a tutti i suoi soldati di imitarlo e scagliò una micidiale palla di feci contro i soldati assiepati nel Pappatacio. Cogliendo lo scoramento degli assediati, comandò ai suoi di defecare in quantità maggiore e, dopo averli spremuti oltre il possibile, fece mangiare loro cibo avariato, affinché fossero colti a loro volta da diarrea. Nel giro di una settimana, sommerse la Fortezza del Pappatacio di merda, facendo morire tutti i suoi abitanti di asfissia, infezioni e scivoloni giù dalle scale. Come rovescio della medaglia, la gran parte dell’esercito di Astolfo morì di stenti, e peraltro i sopravvissuti si rifiutarono di varcare le soglie di quella montagna di popò, così come del resto tutti coloro che si avvicinarono alla Fortezza nei successivi duecento anni, provocandone così la rovina. Concimata da così tanto letame, sopra le rovine della Fortezza crebbe un bosco chiamato Foresta della Scìbala, che gli abitanti del luogo evitano perché dicono abitato dai fantasmi dei caduti nell’Assedio degli Odori, e anche perché gli fa un po’ schifo andare lì.
Volevo solo esprimere il mio rammarico perché di recente, quando apro i vasetti di yogurt di plurime marche, mi rimane sempre attaccata al vasetto parte della stagnola (*) che ricopre la parte superiore (**) laddove quand’ero giovane riuscivo a toglierla tutta in un colpo solo. All’improvviso, da qualche settimana, ho iniziato a non farcela con le marche minori, e poi adesso persino coi Muller(***): un pezzetto di carta metallica rimane attaccato, pregiudicando il godimento dello yogurt perché debbo sporcarmi le mani per completare l’opera, oppure non riesco a raccogliere tutta la bacillica crema a causa dei residui. A causa di una partita difettosa di affari di stagnola, la mia vita è devastata e il mio natale rovinato.
(*) Notavo di recente chela carta metallica per uso alimentare viene chiamata stagnola o carta argentata o alluminio, quando probabilmente non è né stagno né argento né alluminio. O forse alluminio sì. Urge documentarsi.
(**) Questa parte dei vasetti di yogurt necessita di essere deignominizzata. Fatevi avanti.
(***) Io vivo nel mito che i Muller siano qualità totale solo perché sono buoni. In realtà probabilmente sono chimicissimi, ma pazienza.
Quando avevo circa 12 anni, c’è stato un periodo in cui mi sono cimentato come Pescatore di Polpi in Apnea. Partivo dalla spiaggia di Alassio armato di pinne, fucile ed occhiali, tranne che il fucile era un semplice tridente senza possibilità di spararlo perché in effetti fa brutto andare in mezzo ai bagnanti armato (per tacer del fatto che ci vuole qualche permesso, suppongo). E poi già mi son fatto male col tridentino così, facendomi un taglio sul polpaccio destro di cui porto ancora la cicatrice, figuriamoci sparando! Mi piccavo di essere un ottimo subacqueo, sostenendo di scendere “a otto metri”. In realtà non ho la minima idea di quale fosse le profondità a cui scendessi, ma una volta che impari a compensare, è solo questione di avere un pochetto di fiato, quindi non c’è molto da pavoneggiarsi.
E così andavo a caccia di polpi. Alassio ha una spiaggia di sabbia molto fine, e anche andando verso il largo il paesaggio sottomarino è piuttosto uniforme (e un po’ palloso per chi volesse fare snorkeling, diciamolo!). Il vantaggio di questa morfologia è però che le occasionali rocce o relitti (bidoni, tronchi d’alberto…) che si trovano sott’acqua sono i soli posti dove i polpi possono fare la tana. La strategia di caccia è quindi presto fatta: si va a zonzo in superficie finché non si scorge un luogo papabile per un polpo; lì ci si immerge e si verifica se c’è un polpo; se c’è, lo si infilza, altrimenti si passa alla roccia/relitto successivo (l’istinto dell’informatico ha trasformato la pesca al polpo in un algoritmo!).
Un giorno, il cielo era quasi completamente coperto e io, fischiettando sotto il pelo dell’acqua la canzone dei Puffi, stavo cercando cefalopodi. All’improvviso, le nuvole si aprirono e un raggio di luce filtrò, penetrando sott’acqua e illuminando una roccia subacquea poco lontana che mi era sfuggita. Non poteva essere altro che un segno divino, lì sotto ci sarà per forza una Piovra Gigante con cui sfamerò l’Etiopia! Scesi, e come sicuramente avete immaginato non c’era una ceppa.
Da allora, se vedo sul muro una macchia di umidità a forma di Padre Pio chiamo il condominio, non i giornali. Ripensandoci, forse è questo il vero miracolo.
Prendendo esempio da quello che ho fatto qualche mese fa, ho iniziato a ripulire anche la camera della mia casa natìa ad Alassio. Per la semplice ragione che ci ho passato più anni, infatti, lì ci sono ancora più nonsisamai, clandestini, ricorditi, invisibili e scassavecchiotti. Meno burosauri, invece. Alcune oggetti sepolti nei cassetti sono davvero notevoli: ho, ad esempio, un gadget contenuto nella scatola di Ultima II per Apple II uscito negli anni ’80 che è una mappa del mondo del gioco stampata su stoffa. Penso che al mercato dei collezionisti possa anche valere qualcosa.
Ma per il resto, tanta roba da buttare. Eppure, anch’io mi sono fermato di fronte a un oggetto che è uno scassavecchiotto invisibile, perdipiù inutile come pochi: la cassetta di The Number of the Beast degli Iron Maiden.
Due mesi fa ho venduto la mia Kakavolo, e con essa è andato via l’ultimo lettore di musicassette in mio possesso. La mia collezione di oltre un centinaio di pezzi, alcuni originali e altri duplicati, già invecchiata paurosamente da quando esistono i lettori MP3, è diventata così assolutamente inutile. Questa cassetta in particolare risale al 1982 ed è stata comprata da Zio Mario che poi me l’ha regalata quando, nel 1988, ho scoperto quei signori capelluti; è stata ascoltata centinaia se non migliaia di volte, trascinata in vacanze, ficcata nei walkman di tutte le fogge e in pomposi sterei con high-speed dubbing. E’ quindi inevitabile che si sia usurata, e ricordo che negli ultimi anni si sentiva proprio male. Eppure, non ho avuto cuore di gettarla via: la cassetta di The Number of the Beast è stata una barriera che si è opposta alla mia foga di repulisti. Quel giorno non vi buttai più avante.
E ora, con questa barriera che mi si oppone, come faccio a liberarmi di tre cassetti strapieni di musicassette inutili? Nessuno vuole venirsele a prendere? Le regalo tutte, con l’eccezione di The Number of the Beast. Nonostante Gangland, quello lo metto in una teca.
Quando le cose iniziano ad andare storte, è un effetto valanga. Prendi ieri: lunedì mattina invernale piovoso, la slovecca mattutina dura un quarto d’ora e sei già in ritardo. Poi ci si alza, si indossa la polverina che il giorno prima ci è stata sì cara e, di fronte allo specchio, si scopre di essere vittima di un tricoscazzo come pochi. I jeans che volevi indossare sono fuori discussione a causa della solita uoscimosi del weekend, e allora non ti rimane che andare in ufficio. Sai che avrai una riunione particolarmente noiosa quindi, per evitare di rollarsi a causa delle troppe zumballere, ti prendi un caffè alla macchinetta. Tac! Lo sfrusso non scende, ovvio! E cercando di girare il caffè con un dito, te lo scotti! Lo stesso dito che, sfiorando i pispoli cardinali, farà un male bestia (non parliamo poi del bombetto paura con un bel “rm -rf /”! Dolore!). Non serve a nulla indugiare sui brodolaici in Facebook né sperare che in mensa ci siano le patate al forno il cui mandusso è sempre così prelibato, tanto più che di sera ci sarà una cena con gli struboli: no, l’unica è fare una rapina in banca e scappare con due corcoricchi belli pieni. Allora non ci saranno più lunedì che tengano!
No, non siete impazziti né siete finiti in un fumetto di Teddy Bob, ma siete finiti in un articolo che parla degli ignomini, ovvero quelle situazioni o azioni o stati d’animo non descrivibili con una sola parola in una data lingua. Ad esempio, ignomini dell’italiano sono l’azione di “andare al cesso con un Diabolik per trastullarsi durante l’attesa” o il guscio giallo di plastica a forma di uovo che contiene le sorpresine Kinder. Dare nomi agli ignomini (cioè “deignominizzare”) non è certo un’idea originale: lo facevano Aldo, Giovanni e Giacomo negli sketch dei sardi tanti anni fa a Mai Dire Gol, so che c’è un thread su Friendfeed con gente popolare della blogosfera che se ne occupa, e comunque un po’ tutti ci abbiamo già pensato. Ma in che modo questo dovrebbe impedire me e i miei sidekick di cimentarci?
I più attenti avranno notato che il concetto di ignomine era un ignomine esso stesso, prima di essere deignominizzato. Però prima, non esistendo la parola ignomine, non lo era. Quindi “ignomine” non è mai stato un ignomine. Si sappia inoltre che si definisce ignominofago colui che deignominizza, e ignominofero colui che suggerisce all’ignominofago ignomini fa deignominizzare. Io sono un buon ignominofero mentre Kotekino, autore della quasi totalità dei nomi, è un favoloso ignominofago. Sia lode a Kotekino!
Ed ecco l’elenco alfabetico degli ex-ignomini che compaiono nel tribolato raccontino di apertura.
Bombètto: vedi Indiciàta
Bratislazzo: vedi Slovecca
Brodolàico: 1- il gesto di chi utilizza l’opzione “like” su Facebook e simili per i propri post, commenti e simili. 2- per estensione, la persona che indulge troppo spesso nei brodolaichi.
Corcorìcco: sacco di juta col simbolo del dollaro (“$”) stampato sopra che nei fumetti viene usato per fare le rapine. Probabile deformazione ironica del termine corcoro (sinonimo, appunto, di juta o iuta) ad opera di qualche buontempone.
Indiciàta: detta anche bombetto (gergale), l’indiciàta, in informatica, è il colpo sulla tastiera più deciso degli altri che si dà per eseguire una procedura/linea di comando o lanciare una compilazione o, genericamente, eseguire un’operazione conclusiva di una serie di operazioni in ambito informatico/tecnologico. Nel caso in cui il bombetto sia particolarmente importante (ad esempio l’esecuzione di un comando, irreversibile e risolutivo, in seguito a mesi di preparazione oppure quando il presidente degli Stati Uniti sta per lanciare la bomba atomica) viene detta Indiciàta Terminale o Bombetto Paura.
Mandùsso (detto anche Boccone briccone o Boccone del divorzio): ultimo boccone del piatto che si tiene da parte perché è il più buono (es. la patata più bruciacchiata, il maccherone più intriso di sugo, la parte centrale del filetto bella rosata). L’etimologia è piuttosto controversa, ma l’ipotesi più accreditata vede il termine derivare dal latino tardo manducare = mangiare e uxor = moglie: normalmente tale ultimo boccone viene conservato come una reliquia da parte dell’uomo per poter concludere il pasto con il botto (specialmente al ristorante); diciamo pure che l’uomo degusta l’intero piatto pensando a quel boccone. Ma, quando sta per mangiare la delizia, ecco che arriva sua moglie, glielo ruba con guizzo felino e lo inghiotte sussurrando con un sorriso amabile “ma sì, dai, fammi assaggiare quello che hai preso tu”, ignorando i ripetuti inviti all’assaggio che lo sventurato marito le ha rivolto durante tutta la degustazione.
Pìspolo: tipico rilievo presente nei tasti J e F delle tastiere standard qwerty. La loro funzione è quella di offrire alle dita di un dattilografo esperto i punti di riferimento centrali per poter digitare i tasti senza l’ausilio della vista (i punti di riferimento periferici sono i confini medesimi della tastiera). Per questa ragione sono anche chiamati Pispoli orientativi o Pispoli cardinali.
Polverina: tipica giacchetta di pile da mettere sopra il pigiama per stare in casa durante i pigri pomeriggi invernali. Niente come la polverina sembra adatta a trattenere le polveri più irritanti e fastidiose che si annidano in ogni casa.
Rollàrsi: l’atto di svegliarsi improvvisamente, dallo stato di sonno leggero tipico dell’addormentamento in treno, in seguito al dondolamento della testa, non adeguatamente appoggiata su una superficie idonea, causato dal rollio tipico del trasporto su rotaia.
Sfrusso: vedi Sfruz
Sfruz (o sfrusso nella sua versione italianizzata): bastoncino di plastica trasparente fornito dalla macchinette del caffè, da utilizzare per miscelare la benvanda erogata. Probabile onomatopea, mutuata dal dialetto trentino.
Slovecca: periodo che va da pochi secondi a parecchi minuti (a seconda delle abitudini) in cui al mattino, dopo aver spento la sveglia, si raccolgono le energie per alzarsi ed affrontare la giornata. Es. “questa mattina mi son concesso una slovecca di dieci minuti prima di riuscire ad alzarmi”. Di derivazione dall’inglese “slow wake-up”; per un curioso fraintendimento sull’etimologia la slovecca è detta gergalmente Bratislazzo.
Strùbolo: parente che è un parente ma che non è definito con un nome più preciso. Ad esempio, Beppe è il figlio della cugina prima di mia nonna: è un parente, ma uno strubolo. Chiara è la nipote di mio cognato: è una mia strubola acquisita.
Tricoscàzzo: dicesi tricoscazzata una persona che, appena sveglia, prova irritazione per la piega cementificata irreversibile che hanno preso i suoi capelli, pigiati per 12 ore sul cucino. Il tricoscàzzo è tipico dei giovani riccioluti, ma anche alcune donne adulte ne soffrono. Normalmente, però, per tali donne si parla di Triconarciscazzo, che è quello stato d’animo ambivalente negativo ma anche positivo conseguenza della piega cementificata dei capelli a contatto col cuscino ma causa di lunghe e costose mattinate passate amabilmente dal parrucchiere.
Uoscimòsi: disappunto che si prova quando, appena fatta partire una lavatrice, si scopre un capo di vestiario che avrebbe dovuto andare in quella macchinata ma ormai è troppo tardi per aggiungerlo.
Zumbàllera: tipo particolare di sonnolenza che si verifica nelle riunioni lavorative poco interessanti o in cui la presenza è poco necessaria. Spesso le persone si rollano (vedi Rollarsi) durante tali occasioni, producendo l’onomatopea che dà etimo alla parola.
Adesso che finalmente avete digerito il maiale in agrodolce, possiamo passare al livello successivo. Oggi parliamo di torte salate. Ma come, e di torte dolci non parli mai? Non sono un grande fan dei dolci e fanno ingrassare un sacco, quindi non ho molti stimoli a cucinarne. Se volete dolci, andate da Nonna Pina. Ah, no, quella fa le tagliatelle. Allora andate dalla Peppina. Ah, no, quella fa il caffè. Insomma, compratevi un Mars e non rompete!
Dicevamo, torte salate. Due, perché sono il tipico piatto che porti in quanto ospite (cioè ospitato da un ospite, non ospite che ospita un ospite), e con una sola fai brutta figura. “Ah, hai portato una quiche? Oh, che idea originale! Mettila là!”, e poi c’è Carlomaria a cui non piace mai niente, quindi con due torte aumenti le probabilità di far felici tutti (tranne Carlomaria, a cui non piace mai niente). Infine, le due torte verranno fatte contemporaneamente, in modo da aumentare il grado di difficoltà, visto che ormai siete degli ometti. Ovviamente se ne farete una sola non manderò Golosino a picchiarvi a casa, ma per complicarvi la vita vi do ingredienti e procedura tutto mescolato, in modo che dobbiate inveire non poco per farne una sola. Nessuno aveva mai detto che sarebbe stato facile.
Prepararsi
Ma veniamo a noi. Le due torte salate in questione sono la canonica quiche lorraine (con qualche piccola variante rispetto alla ricetta standard) e una torta a base di porri e speck. Sappiate che i porri sono come la cipolla, ma più delicati.
Avrete bisogno di questi ingredienti:
- Mezzo litro di latte intero. Fresco, dai, ma non quello alta qualità o alta digeribilità che non sono altro che trucchi per fregare i gonzi.
- 120 g di fontina. A differenza della tartiflette che richiede quella genuina, non sarò rigoroso, quindi potete anche prendere quella del supermercato. E se non la trovate, l’asiago andrà bene lo stesso. Ma non l’emmental della ricetta originale. Quello non mi piace un granché.
- Un rotolo di pasta brisè. Se siete volonterosi, fatevela in casa. A me non è passato per la testa nemmeno per un secondo.
- Un rotolo di pasta sfoglia. Se siete volonterosi, fatevela in casa. A me non è passato per la testa nemmeno per un secondo.
- 200 g di ricotta vaccina. Fate voi per la qualità: secondo me confezionata del supermercato va benone, ma se la trovate fresca è meglio.
- 3 uova. Mi raccomando, da allevamento a terra. Il vostro karma ne guadagnerà.
- 2 porri, che sono come la cipolla, ma più delicati.
- un membro della famiglia Bone. In mancanza di esso, 120 g di pancetta affumicata a dadini.
- 100g di speck a dadini o listarelle.
- olio extravergine d’oliva
- un tocchetto di burro, oppure della carta da forno
- acqua
- sale
- pepe
- noce moscata
E necessiterete di questo equipaggiamento:
- due teglie rotonde di dimensione compatibile con quella dei rotoli di pasta (intorno ai 30-35 cm, direi)
- un padellone col suo coperchio
- un padellino più piccolo
- una scodella
- due cucchiai di legno
- un tagliere
- un coltello affilato
- due fornelli e un forno
- il vostro grembiule. Lavatelo, ogni tanto!
Il bis di torte per sua natura richiama i pettegolezzi. Quindi, mentre cucinate, invitate la vostra amica più pettegola, l’equivalente di Clarabella, e fatevi raccontare tutte le ultime novità.
Ma lo sapevi che l’ex di Mariapetarda ora vive in una comune di rastafani?
Cucinare
Iniziamo! Innanzitutto i porri. Vi dirò un segreto: sono come la cipolla, ma più delicati, e in quanto tali vanno preparati. Sapete come si preparano i porri? No, eh? Ne ero certo! Allora, mondatene la capa: si iniziano a utilizzare a partire da quando sono bianchi e non più verdi. Va tagliata anche la parte opposta (il “culetto”) e gli strati più esterni, come se fossero cipolle. Infatti i porri sono come la cipolla, ma più delicati. Fatte queste operazioni, prendete il tagliere e il coltello fico e tagliateli a fettine sottili sottili. Sbattete i due porri così ottenuti in padella con un po’ di olio. Li fate dorare un attimo, poi allungate con dell’acqua, li coprite col coperchio e li fate stufare per una mezzoretta, girando ogni tanto ed eventualmente allungando con acqua. Non siate tirchi con la cottura: i porri, se rimangono crudi, rischiano di essere un po’ troppo pesanti, esattamente come le cipolle, a cui sono simili, pur essendo più delicati.
Non so con che coraggio Gianpistillo si possa far vedere alle feste del Circolo Alpini dopo quello che ha combinato a Capodanno.
Mentre che i porri (verdure che hanno molto in comune con le cipolle, ma risultano più delicati) si stufano, passiamo alla quiche. Sono abbastanza sicuro che non siate riusciti a trovare membri della famiglia Bone, rattodonti che non siete altro, quindi avrete ripiegato sulla pancetta. Va bene lo stesso, tranquilli! Prendete il padellino, versatevi la pancetta e fatela saltare a fuoco medio girandola ogni tanto col secondo cucchiaio di legno. Dai, non potete usare quello dei porri!
Non solo Annapariglia è stata a letto con tutta la squadra di bocce levitanti, ma ha avuto la sfrontatezza di vantarsene su Facebook!
Visto che siete così bravi, aggiungo un terzo task contemporaneo ai due attivi: prepariamo il ripieno della quiche. Nella scodella versate il latte, le uova (…senza il guscio…scemini!), sale, pepe e noce moscata (non esagerate con nessuno dei tre, mi raccomando! La pancetta sala non poco, e troppe spezie rovinano l’equilibrio; se avete dubbi, mettetene di meno, giusto un pizzico) e il formaggio. Per quest’ultimo, va un po’ a vostri gusti: se vi piace che tutto sia amalgamato e non siete pigri, grattugiatelo o tagliatelo a pezzi piccini picciò. Se, come me, siete un po’ sfaticati e vi nascondete dietro il fatto che i blocchetti di formaggio semifuso sono un sacco buoni, tagliatelo a dadini di dimensioni simili a quelli della pancetta. Nel frattempo, la pancetta sarà pronta. Fatela raffreddare qualche minuto perché non cuocia il composto e poi versatela dentro la scodella col resto. Mescolate meglio che potete.
Piercanaro ha messo sua mamma in ospizio, dopo tutto quello che quella santa donna ha fatto per lui. Ah, ma ora voglio vedere chi gli stira le camicie! Quel soprammobile di Giannauncinata? Non penso proooprio!
Torniamo ai porri (come la cipolla, ma più delicati). Dovrebbero essere ormai a buon punto; aggiungete ad essi lo speck e fate terminare la cottura. Quando vi sembrano pronti, spengete e fate raffreddare. Se non siete sicuri di quando siano pronti, contate mezz’ora sul fuoco.
Uuuuh, devo fare la pipì! Torno subito!
Round-robin sulla quiche. Accendete il forno a 200° e prendete la prima teglia. Rendetela inattaccabile all’attaccamento ungendola col burro o stendendo la carta da forno, e poi sistemate la pasta brisé. Versatevi sopra tutto il ripieno; se la pasta sborda, ripiegatela verso l’interno. Non preoccupatevi se il ripieno, che è liquido, tocca i bordi, quando è cotta non ne se accorge nessuno. Quando il forno è caldo, potete infornare, e ci vorranno circa 20′. Non preoccupatevi se vi sembra ancora un po’ liquida dopo questo tempo, raffreddando poi finisce di rapprendersi. Se avete il forno ventilato, usatelo pure, aiuterà.
…e poi Cristacchina le ha risposto: “Tesoro, perché non ti guardi un po’ allo specchio?”
Mentre che la quiche quoche (o la cuice cuoce, vedete voi) terminiamo la preparazione della sua negletta gemella. Aggiungete la ricotta alla combinazione di porri (affini alle cipolle, ma con maggior grado di delicatezza) e di speck , sempre in padella ma col fuoco spento. Salate e pepate (con maggior foga rispetto alla quiche) ma non nocemoscate, qui non ci va. Amalgamate tutto e preparate la seconda teglia in modo simile alla prima, ma con la pasta sfoglia. Il ripieno, in questo caso, sarà assai meno voluminoso: sistematelo in mezzo e ripegate la pasta. Se siete bravi, potrete dargli la forma di una specie di fiore.
A proposito di fiori, sai che Grubbaberto ha portato delle rose rosse a sua moglie? Peccato che gliene ha portate quattro! Quell’uomo vive fuori dal mondo!
Pultroppo la modalità di cottura di questa seconda torta è differente dalla quiche, quindi per infornarla dovrete aspettare che la prima sia cotta. Intanto spettegolate. Drin! Quiche cotta! Abbassate la temperatura a 180°, niente ventilatura e 30′ di cottura. Il ripieno ci mette un’attimo, è la pasta che deve cuocere.
Al supermercato poi ho incontrato Mariobaleno, e nel carrello in mezzo a zucchini latte e biscotti aveva una scatola di preservativi. Quello va a zoccole, dammi retta!
Mangiare, bere e impatto anale
Ho sempre mangiato entrambe le torte a temperatura ambiente; ho il sospetto che se scaldate si ammollino troppo, quindi adeguatevi. Anzi, portatele in ufficio, farete bella figura e conquisterete la bella collega con le tette grosse o il bel collega coi mustacchi. Pultroppo, in ufficio non si bevono alcolici, quindi vi toccherà bere Fanta, Coca e Sprite. Sì, solo roba della The Coca Cola Company, mi hanno pagato. Se proprio doveste mangiare queste delizie a casa, suggerisco un rosso non troppo corposo. Il canonico Morellino andrà benissimo.
L’impatto anale è da non trascurare. Non tutti sanno che i porri sono come la cipolla: anche se più delicati, sono comunque pesanti. Voi avrete seguito le mie istruzioni e li avrete cotti adeguatamente, ma è possibile che risultino lo stesso di digestione difficoltosa. Preparatevi. La quiche è spessissima, ricca di grassi e di gioia (le due cose vanno di pari passo), ma come tale un po’ faticosa da assimilare. Nel contesto dell’ufficio, quindi, passerete un pigro pomeriggio a commentare Pinguini nel Salotto, perché pultroppo Facebook ve l’hanno bloccato.
Parliamo delle possibili varianti. Se avete la sventura di essere vegetariani, potete escludere lo speck dalla torta di porri: perderà qualcosa ma risulterà comunque accettabile. Se invece siete vegani, pussate via di qua o chiamo Goldrake. La quiche, nella ricetta originale, prevede la panna al posto del latte, ma per me è davvero eccessivo. Se ve la sentite, però, probabilmente potrebbe venire più soda (e più grassa, ça va sans dire). Dal lato opposto, se la volete più leggera, sostituite la pancetta con il prosciutto cotto a dadini; in tal caso, occhio ad aggiustare col sale.
PS: dalle “vecchiette”, uno dei nostri locali da pranzo preferiti di Annecy, fanno una quiche di porri, crasi del vostro lavoro di oggi. Stupide vecchiette.
E poi sai che…
Oh, insomma, Clarabella, fatti un po’ i cazzi tuoi!